Leonor Antunes
Julie Ault
Nairy Baghramian
Giovanni Bellini
Constantin Brancusi
Marcel Broodthaers
Giovanni Buonconsiglio
Jos De Gruyter
Harald Thys
Hubert Duprat
Elmgreen & Dragset
Luciano Fabro
Fischli & Weiss
Felix Gonzalez-Torres
Petrit Halilaj
David Hammons
Roni Horn
Peter Hujar
Tetsumi Kudo
Bertrand Lavier
Zoe Leonard
Francesco Lo Savio
Lee Lozano
Robert Manson
Piero Manzoni
Sadamasa Motonaga
Jean-Luc Moulene
Henrik Olesen
Pablo Picasso
Sigmar Polke
Carol Rama
Charles Ray
Auguste Rodin
Cameron Rowland
Carlo Scarpa
Andres Serrano
Nancy Spero
Sturtevant
Alina Szapocznikow
Paul Thek
Danh Vo
David Wojnarowicz
Martin Wong
Martial Raysse
Danh Vo
Caroline Bourgeois
Slip of the Tongue e' il risultato del lavoro da curatore dall'artista Danh Vo, invitato a portare uno sguardo sulle opere che compongono la collezione Pinault. L'esposizione di Martial Raysse raccoglie piu' di 300 lavori: piccole sculture, disegni e film, per finire con i quadri.
Slip of the Tongue
a cura di Danh Vo in collaborazione con Caroline Bourgeois
Non è solo come artista, ma anche come “curator” che Danh Vo è stato chiamato a collaborare con Palazzo Grassi - Punta della Dogana - Pinault Collection e a lavorare con la collezione, in sintonia con gli artisti invitati. È la prima volta che nell’edificio di Punta della Dogana a Venezia un artista viene accolto nel ruolo di “curator”, parola cui la lingua francese fatica ad adattarsi. La ragione per mantenere la definizione di “curator” così com’è, senza tradurla né con conservatore né con curatore e neanche con organizzatore, ha a che fare con l’uso che ne fa Danh Vo: la pratica dell’artista come “curator” si avvicina particolarmente all’etimologia latina della parola, da cui deriva anche il temine inglese “care”, che qui potremmo anche tradurre con “conservare”.
Nell’Impero romano, infatti, il “curator” è il responsabile della gestione di diversi lavori pubblici: trasporti, igiene, polizia, fognature, acquedotti, navigazione, strade, giochi, addirittura la verifica dei conti. Svolge una funzione “riparatrice” in una cultura che preferisce restaurare e riutilizzare piuttosto che fare tabula rasa. Tali attività prosaiche prendono una piega più spirituale nell’Europa medievale, dove l’efficace “sollecitudine” amministra sia le anime sia gli affari terreni. Questa funzione descrive indubbiamente la responsabilità del “curator” moderno, che è, prima di tutto, colui (o colei) che si prende cura di ciò che accade agli oggetti una volta realizzati, una volta creati, compresa quella quota di adattamento e di “ri-creazione” contenuta in ogni loro presentazione in una nuova esposizione. Le vicissitudini della conservazione, della circolazione, del commercio, del frazionamento e della dispersione, della riparazione e del restauro, della collezione e dell’esibizione non riguardano solo il benessere delle opere d’arte, ma partecipano altrettanto pienamente alla loro storia, fatta di transizioni e, a volte, di rotture o di distruzioni.
Il contesto veneziano è eccezionalmente favorevole a un’esposizione che sia attenta a questi aspetti di vita e sopravvivenza che compongono le nostre storie culturali. Non a caso qui è stata firmata la Carta di Venezia (1964), un trattato internazionale sulla “cura” del patrimonio, di cui lo storico dell’arte Cesare Brandi – tra i fondatori dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro di Roma – fu uno dei promotori. Lo stesso Brandi non definiva forse “ogni intervento che miri a ripristinare un prodotto dell’attività umana” come “un atto critico e metodologico”? Il cuore storico dell’esposizione, inoltre, è costituito da opere che provengono da istituzioni veneziane: le Gallerie dell’Accademia e l’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Giorgio Cini. Queste opere recano, in modo emblematico, le stimmate dei processi che, pur preservandole, le hanno alterate, rinnovando la loro forma. I rimaneggiamenti inflitti sono stati a volte brutali: pensiamo ai frammenti di dipinti mutili, ridotti per le esigenze di “adattamento” a un cambiamento di scenario, o ai dipinti in miniatura provenienti dal ritaglio (“cutting”) di antifonari miniati da monaci-artisti. La soppressione degli ordini monastici italiani in epoca napoleonica, per esempio, nel XIX secolo ha alimentato con pagine sezionate un vorace mercato londinese.
È proprio in queste “biforcazioni storiche” che si inscrive "Slip of the Tongue". Il titolo dell’esposizione (“lapsus”) si ispira a quello di un’opera dell’artista Nairy Baghramian (nata nel 1971) con cui Danh Vo intrattiene una conversazione attiva e di cui sono presenti in mostra tre installazioni: perché l’esposizione disegna anche una mappatura dell’amicizia. Il suo cuore pulsante è costituito da due composizioni straordinarie dell’artista americana Nancy Spero (1926-2010). Prima di tutto, lo splendido Codex Artaud (1971-1972): trentaquattro fragili rotoli composti di strisce di carta, che raccolgono una forma ibrida di scrittura-disegno-pittura e che possono essere letti come un’attività di “ripristino”, da parte dell’artista americana, del furore e della frustrazione che lo scrittore francese Antonin Artaud ha posto alla base del suo linguaggio incandescente. Cri du Coeur (2004), ultima installazione monumentale dell’artista, esprime il dolore intimo del cordoglio, “adattato”, vale a dire indirizzato, alle migliaia di persone colpite nello stesso momento dai disastri bellici e ambientali, anonimi con cui Nancy Spero crea un legame.
L’articolarsi tra la dimensione interpersonale della relazione e la sua dimensione sociale informa anche i progetti di curatela precedentemente condotti da Danh Vo, che riguardano artisti che non necessariamente ha conosciuto, come Felix Gonzalez-Torres (2009, Centre d’Art Contemporain Wiels, Bruxelles), Martin Wong (2013, Solomon R. Guggenheim Museum, New York) o l’amica Julie Ault (2013, Artists Space, New York). Prima di diventare comune a tutti, il coinvolgimento individuale si ripercuote anche nella presentazione degli oggetti che, come i candelabri della sala da ballo dell’Hôtel Majestic a Parigi, furono i testimoni silenziosi del susseguirsi di negoziati che decisero il futuro del Vietnam nel 1975, lo stesso anno in cui l’artista nacque proprio in quel Paese. Così, forse è anche in quanto “curator” che Danh Vo è artista.
Questo modo di immaginare l’attività dell’artista in una dimensione di cura – di salvaguardia, di violenza perpetrata sugli oggetti e di “riparazione” più che di interpretazione – sembra appartenere a ognuno degli oggetti che compongono l’esposizione "Slip of the Tongue". Costituisce anche il filo conduttore della scelta di opere nella Collezione Pinault – di Bertrand Lavier, Tetsumi Kudo, Lee Lozano… Tra i 35 artisti che Danh Vo ha scelto di invitare, si delinea e si sviluppa un dialogo cui dà forma una fotografia di Robert Manson che raffigura una cavalletta con la mano che la regge – e fa da supporto e sostegno –, immobili nella reciproca attenzione. Elisabeth Lebovici
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Martial Raysse
a cura di Caroline Bourgeois in collaborazione con l'artista
Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio.” Giorgio Agamben
“Il ruolo sociale del pittore? Mostrare la bellezza del mondo per incitare gli uomini a proteggerlo, ed evitare che si dissolva.” Martial Raysse
“Si è detto, a proposito del mio cambio di rotta: ‘Martial torna alla pittura’. È falso. Ci arrivo appena. Di fronte c’è una pagina bianca, la situazione è esattamente la stessa che nel Medioevo. Non è cambiato nulla.” Martial Raysse
2015-1958 / 1958-20145: affrontare la storia a ritroso, non per riavvolgere il filo del tempo e tornare all’inizio, ma piuttosto per mettere a confronto epoche diverse: ecco l’intenzione della mostra che Palazzo Grassi-François Pinault Foundation dedica oggi a Martial Raysse.
L’obiettivo è quello di offrire allo stesso tempo alcune prospettive e una retrospettiva, avvicinandosi al lavoro di Martial Raysse non secondo una scansione cronologica, ma da un punto di vista contemporaneo – a partire cioè dalle sue opere più recenti. È nostra convinzione, in effetti, che i lavori a noi più vicini modifichino il modo in cui osserviamo i precedenti, assicurando una maggiore profondità dello sguardo e rilanciando la questione del ruolo della pittura e di quello dell’artista.
Come afferma acutamente Giorgio Agamben, “Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace piú degli altri di percepire e afferrare il suo tempo”.
Martial Raysse fa parte di quel ristretto novero di artisti per i quali la vera posta in gioco è il confronto con la “grande” storia dell’arte, e questo fin dall’inizio del suo percorso. Tale confronto può avvenire attraverso la presa di distanza, lo humour o la riproduzione delle opere dei maestri, in virtù del principio enunciato da Eugenio Garin in base al quale “imitare […] è assumere coscienza di sé, […] ritrovare la propria natura”. È così che, nel corso di tutta la vita, Raysse compie il proprio apprendistato, rendendo visibili – sullo sfondo, per così dire – non soltanto la storia dell’arte e i capolavori del Rinascimento, ma anche la banalità del quotidiano, dall’estetica dei Monoprix al tedio delle piccole cose.
Diversamente dagli artisti rinascimentali, che dovevano sottostare ad alcuni vincoli – in particolare nel trattamento di soggetti religiosi o nei ritratti dei committenti – Martial Raysse si è speso, nel corso di una vita intera, per mantenere la propria indipendenza. Sorta di utopia umana, il suo modo di rappresentare la vita di ognuno lascia pensare che l’artista voglia ridarci speranza nella nostra condizione. Il suo amore per la rappresentazione delle donne va al di là dell’attrazione sessuale o della bellezza classica; Raysse è affascinato dalla Sconosciuta.
Nei suoi quadri storici è sempre presente una distanza critica rispetto a ciò che si può vedere o pensare. L’artista dà nuova vita a temi mitologici (pensiamo a L’Enfance de Bacchus o Le Jour des Roses sur le Toit) e per loro tramite parla del consumismo sfrenato, della distanza dalla politica (Poisson d’Avril e Ici Plage), o ancora della volontà di ridere assieme al proprio tempo (Le Carnaval à Périgueux).
Pittore, scultore, disegnatore, ma anche poeta e cineasta… Ognuno di questi termini – per forza di cose riduttivo – cerca invano di definire un artista molteplice e inclassificabile, la cui opera attraversa la seconda metà del XX secolo e continua ancor oggi a sorprenderci con la sua singolarità.
Dando vita a un dialogo ininterrotto tra le opere, il percorso espositivo offre uno sguardo nuovo sull’impegno di Martial Raysse, evidenziando il costante andirivieni dell’artista tra i propri lavori.
L’esposizione rende inoltre visibile l’enorme lavoro sotteso a una tale opera, che – al di là della creazione di “begli oggetti” – mira a proporre una sorta di filosofia della vita. Attraverso la radicalità dei colori, la libertà di elaborazione, Martial Raysse ci fa vedere la bellezza del mondo, la necessità che ciascuno vi trovi il proprio ruolo, la responsabilità del singolo nei confronti degli altri e della comunità.
Nel percorso espositivo abbiamo cercato di mostrare tutti gli aspetti del lavoro dell’artista: le piccole sculture, che spaziano da semplici figure al gioco con se stesso, il disegno come un momento di lavoro, i film, che mostrano le sue pulsioni libertarie, e per finire i quadri, che costituiscono la parte più compiuta della sua opera. Abbiamo inoltre punteggiato il percorso di opere assimilabili, in qualche modo, ad autoritratti capaci di rivelare l’incredibile esigenza e la solitudine che l’artista ha dovuto fare proprie per proseguire nella propria ricerca.
Le opere più recenti illuminano di nuova luce quelle della giovinezza ed espongono la loro radicalità, provocando un vero e proprio choc visivo. L’artista, attraverso l’uso di colori e pigmenti puri, propone uno sguardo altro sul mondo – quell’“igiene della visione” sviluppata fin dagli anni sessanta – e ci insegna a vedere, in quanto “essere moderni significa prima di tutto vederci più chiaro”.
In conclusione, lasciamo la parola all’artista: “Ho sempre pensato che il fine dell’arte fosse cambiare la vita. Ma oggi l’importante, mi sembra, è cambiare ciò che ci circonda a ogni livello dei rapporti umani. C’è chi pensa che la vita debba essere copiata. Altri sanno che va inventata. Rimbaud non si cita, si vive”. Caroline Bourgeois
Immagine: Martial Raysse, Nissa Bella, 1964
Ufficio Stampa:
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Cell: +39 335 54 55 539
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Inaugurazione:
domenica 12 aprile 2015 dalle ore 10 alle ore 19
Conferenza Stampa:
Giovedì 9 aprile 2015, ore 14.00 – 18.00 | anteprima stampa Slip of the Tongue, Punta della Dogana.
Venerdì 10 aprile 2015, ore 10.00 – 18.00 | anteprima stampa Martial Raysse, Palazzo Grassi.
Venerdì 10 aprile 2015, ore 14.00 – 18.00 | visita libera per la stampa di Slip of the Tongue, Punta della Dogana.
Palazzo Grassi
Campo San Samuele
Venezia
Punta della Dogana
Dorsoduro, 2
Venezia