Raids, Su e giu' per l'autunno. Le fotografie in esposizione riguardano una certa quantita' di soggetti: paesaggi, frutti, frutti appassiti, figure, sculture, nature morte di vari elementi.
Sono partito da fotografie fatte nell’arco di due decenni, trasferendo le analogiche, le immagini cioè di tutto il periodo esclusi gli ultimi due anni, in digitale nel 2002 e nel 2003, che sono quindi gli anni di esecuzione delle opere appartenenti a questa mostra.
Le fotografie in esposizione riguardano una certa quantità di soggetti: paesaggi, frutti, frutti appassiti, figure, sculture, nature morte di vari elementi.
Dracula, il vampiro, l’artista, il pittore, intervenendo sui componenti di questo eterogeneo insieme, attaccandoli uno per uno, ha fatto sì che il tempo su di essi si fermasse. La traccia del suo passaggio prende corpo con colore a olio vermiglio steso sul rosso già proprio dell’abbraccio-morso digitale (peraltro già sufficiente ad arrivare allo scopo prefissato) e lumeggiando parti del resto con pastello bianco, in qualche caso forando il supporto cartaceo e dipingendo la slabbratura dei bordi provocata dai pennelli-canini. La più parte delle immagini si forma su una gamma di grigi, alcuni tendenti al rosso; poche le deviazioni brune, o come si usa dire con un termine naturalistico, e volendo anche poetico, seppia; è evidente, in un caso, un’iperbole accesa nel profondo con un cremisi di lava fredda da tanto, in un altro, nel mezzo di uno spazio vuoto scuro, affiora la solitaria lingua di fuoco di una voce acuta, in un altro ancora è il verde serale di una foglia ad essere prima cesellato da insetti e bruchi poi preso come pagina di lavoro, infine un giallo pallido e spiraliforme è disteso sopra squamosi e piegati rilievi di carta color terra di Siena naturale incollata a cartone, con la domanda su quanto sia proficua (per alcuni solamente) la suggestione dell’aldilà.
Il tempo ha cancellato quasi tutti i colori. Questa vistosa mancanza è stata compensata dalla potenza rigeneratrice che ha sostituito l’iniziale cromatismo lentamente sbiadito, immettendo e stabilizzando la vigoria, prima assente, che in un certo momento si è avviata, proseguendo poi costante nei giorni e negli anni. Generata, questa forza di rinnovamento, e fisicamente espressa, da due strategiche aperture circolari: logo e marchio anche della mostra; dal momento in cui prende il via la loro azione, diventano visibili, e permangono, gli effetti dei punti – due sono sufficienti – per la continuità e l’affermazione della ragione (una delle sue componenti è quella letteraria) nell’esistenza dell’opera d’arte.
Una penna di alloro, la corteccia di un albero di Volterra, un ritratto d’artista tra i templi di Selinunte; fiori. Un cortile e un gruppo di alberi di Asolo. La pelle sottile di qualche cosa, paesaggi marini in pieno sole o notturni, e padani nella nebbia. Scogli di Capraia, voragini dell’Etna, il mare calmo e grigio della riviera di ponente. Una calla di scotch sporco, una scatola di asciugamani di lino. Un satiro sorridente e una baccante del Louvre in estasi. I pixel dell’artista-Ulisse di Rossi e Bava. I pixel-cretti di un’arancia di gesso impastato con fagioli secchi. L’acquietato interrogativo esistenziale della scorza di un limone con una sicura risposta. L’occhio di un’arancia e quello di un’altra che le sta accanto. La pelle rinsecchita e sfilacciata di un kaki svuotato. Una mela appassita, mummia da un decennio, con le sue ragnatele; la molle trama di un frutto su un rettangolo di juta, prima irrigidita da uno strato di colla vinilica, poi resa fluida da acqua piovana caduta su un pezzo di vetro.
Penso a Christopher Lee, a Bela Lugosi. A loro vicini, con una sola pellicola, Jack Palance, Frank Langella (ancora vivo), Klaus Kinski (meglio non prendere in considerazione il suo Nosferatu a Venezia). Lee è morto qualche mese fa, novantatreenne. Oggi, abituati come si è alla visione di dentature perfette – in grado perciò di svolgere appieno la loro funzione – che abbiamo (hanno) anche per mezzo di efficaci (pare non tutti) apparecchi correttori, mi suscita un sorriso complice l’aspetto dell’arcata dentaria inferiore del baronetto inglese, leggermente scomposta e con alcuni denti in parte sovrapposti, che con l’insieme dei denti superiori, in primis i canini, diventava strumento portatore di nuova vita.
Lee è prima invecchiato, com’era naturale e quindi inevitabile, poi è morto; io, che guardavo i suoi film negli anni dell’adolescenza, adesso ho più di sessant’anni; si dice anziano? Già? Perché no l’aldilà per dinosauri e formiche?
Ma è ciò che vedevo allora, negli ultimi anni sessanta e i primi del decennio successivo, che non è invecchiato; le scenografie elementari e miniaturizzate, i grigi dei cieli transilvani su teloni dipinti, il nero e il rosso del mantello, il rosso del sangue e di sommari elementi barocchi dell’arredamento, i movimenti discontinui e innaturali delle volpi volanti, i finti castelli e la miscellanea di stili. Un po’ naïf tutto ciò, eppur riconoscibile come stile della Hammer. No, nella memoria non è datato. Penso a ciò che dipingevo allora, che non è invecchiato. Il quadro non è invecchiato. Ed è a questo che penso, senza nostalgie patologiche, ma con analitici richiami di memoria, come metodo di ricerca di nuovi colori e forme, e possibilità di allargare il tempo che sfugge; qualche pentimento! Per tutti questi anni aver dato quasi tutto alla pittura, tralasciando il resto, ad esempio la musica. Penso a me, attraverso il lavoro di pittore che facevo, com’ero, chi ero allora, e mi sembra che stia qui davanti, a guardarmi, lontano anni su anni, un po’ meno di cinquanta. Diafano e occluso viso, con gli occhi aperti ma non spalancati, fissi e non sorpresi, assenti. Inespressivi e grigi color del mare. Senza occhiali, con diurne pupille e riflessi di strane ore friabili e tufi gialli metafisici.
Mentre nel chiazzato, malinconico e deformato specchio dei coetanei, che non vedo da tanto, tutto attorno decade, diventa monocolore, invecchiato, raggrinzito, curvo, molle, pingue, l’arte cinematografica, nella continuità da pellicola a digitale, l’arte pittorica, nell’inquadratura di listelli bianchi (non le terribili cornici bianche nel nuovo allestimento dell’Hotel Salé), rimangono lì, inalterate a far scorrere la loro indipendente vita, senza badare a chi, sotto i loro occhi, si muove, distratto passa, sosta, sparisce, con l’importanza e la consistenza di una manciata di polvere sotto il lembo di un qualsiasi tappeto apolide.
Nel 1985 comprai a Milano, da Crespi, una tela di lino a trama fine, scorrevole al tatto e con una profumatissima imprimitura. Era già intelaiata in una strana misura 75x70 centimetri. Dopo un disegno accurato, incominciai a dipingerci sopra una composizione complessa con personaggio principale e protagonista volumetrico un mezzo busto di scultore che avevo fotografato a Barcellona. Sulla testa, sotto di essa e accanto ci misi un po’ di tutto: frutti, gatti, statue, figure e animali mitologici; sullo sfondo dipinsi la stessa scultura senza alcuna aggiunta, in piccolo e poggiata sopra un piedistallo, dietro ai quali stavano degli alberi e una siepe. Dall’altro lato, un po’ meno lontano della scultura, la colonna di sostegno e il paesaggio, posizionai un travagliato e spigoloso panneggio a copertura di un’inesistente figura a braccia allargate.
Alcune zone del quadro, in special modo la parte occupata dalla vegetazione, erano ottenute giustapponendo punti di diverso colore. Mentre parti dell’esterno circolare scuro che racchiudeva tutta la scena erano risolte con brevi e sottili pennellate.
Il quadro lo chiamai Natura viva; oggi, decisamente, questo titolo non lo metterei. Trovo l’accostamento di tali termini stucchevole, non perché non ne condivida più il significato; ho però la sensazione che chi queste parole legge sia “naturalmente” portato a comportarsi in modo opposto all’auspicio del binomio, e che non siano questi i vocaboli da usare. Non più. “Logoro e abusato” come dice riguardo a certi termini il dizionario di Word, a volte a ragione e altre a torto. Ma allora ero giovane, di belle speranze, finalmente facevo il pittore a tempo pieno, e ne ero felice. Vedevo la realtà con altri occhi, da costruire e proteggere. Oggi c’è talmente tanto marcio intorno che non si può pensare ad altro che a continue rinunce e imminenti distruzioni, con enormi profitti e organizzati sistemi lucrativi a vantaggio solo di una ristretta cerchia di individui. Finché dura, perché potrebbe anche implodere tutto (le potenzialità esistono, non sono fantasie), con buona pace di ogni aldilà, in un’immane catastrofe che distruggerebbe molta parte della vita del pianeta.
Dicevo del quadro, mi costò molto impegno e impiegai parecchio tempo a farlo. Lo esposi, nella prima mostra personale che feci qui al nord, nel novembre dello stesso anno di esecuzione, il 1985, a Ferrara, e lo vendetti. A una signora che lo volle senza la cornice che avevo fatto fare appositamente, spessa, pesante, degna – pensavo – di cotanto lavoro.
La cornice vuota, che più non utilizzai (per la non comune misura), rimase tanti anni nella cantina della casa dove ancora oggi abito, fino alla fine dell’anno scorso, quando andai a prenderla. L’umidità che da sempre sale dal pavimento, anche se piastrellato, notai che aveva indebolito la tenuta di alcune zone – le più vicine al suolo, su cui, addossata al muro, poggiava – dei rilievi in gesso brunito che perciò si erano staccati, lasciando il legno scoperto. Altri pezzi vennero via durante il trasporto da casa allo studio. Nella carne viva di vecchia fibra legnosa scorticata stesi del colore cadmium red deep Rowney. Ma lasciai la cornice ferita e curata vuota.
Ho inserito di recente dentro la cornice, finalizzandola alla mostra, una tela che, dopo aver preparato, solo una parte di essa, con imprimitura bianca, ho dipinto. Muovendomi, per poi definitivamente chiuderlo – sigillandone le giunture di partenza e arrivo e viceversa –, lungo un percorso circolare, e aprendo due fori che il concetto di tempo tendevano a gestirlo a modo loro, appiattendo il ritmo e disarticolandone le proporzioni.
L’idea, che avevo lasciato abbozzata nella mente quando avevo dipinto di rosso le parti scrostate, era quella di fare un quadro che riguardasse Dracula, o la sua storia. Su questo non mi veniva dubbio alcuno. L’opera doveva altresì stabilire una certa distanza – non solo prendere atto di quella temporale – tra il quadro in passato contenuto dalla cornice e quello che dovevo fare; tra il tempo che, un giorno dopo l’altro, mi era occorso a fare il dipinto di allora, l’idea che del tempo avevo a trent’anni, e quello che invece dovevo dedicare, in base a cosa ero, chi ero diventato, come la pensavo a distanza di altrettanti anni e altrettanta pittura, a un nuovo dipinto da fare, senza sminuire di importanza, significato, pienezza, consistenza, forza d’urto verniciata (d’altra origine), il secondo rispetto al primo. La stessa massa pittorica della tela del 1985, l’affollamento organizzato in essa presente era d’obbligo riuscire a immettere nel nuovo supporto, ora però concentrati in uno spazio ridotto al minimo, la cui unità di misura fossero i millimetri. Delle migliaia e migliaia di pennellate e punti del quadro per il quale decenni prima quella cornice era stata preparata, nella tela di agosto rimanevano solo due punti, rossi, in posizione centrale, distanziati uno dall’altro, in verticale, di cinque centimetri.
È l’unico dipinto, nel quale non è stata utilizzata un’immagine preesistente, di questa mostra, costituita per il resto di fotografie con un intervento pittorico circoscritto all’inserimento di due punti di colore. Rosso. E alcune lumeggiature.
La cornice è ora il vetusto castello del mito, il dipinto, bianco e rosso, è il trasparente vessillo di uno strano paese, quanto mai reale, dal quale è bandita qualsiasi trascendenza; un paese pittorico, cinematografico, letterario. Anche musicale.
Ventinove raids, La testa del poeta, La voce del poeta, Lanciatore di giavellotto, Luce non-morta, Madame Bovary e un milione di topi, Mi alzo, Monumento all’atleta, Nave per fermarsi, Non-morti i frutti della luna, Pala di Newton, Trittico di Ugo, Uroboros e altri dodici attacchi.
Feliscatus
Inaugurazione 6 settembre ore 16
11 Dreams Art Gallery
via Rinarolo, 11/c Tortona
mar-dom 16-19
ingresso libero