La Torre di Babele. Recentemente Paolo Profaizer ha ripreso questo soggetto antico in un lavoro fra i piu' rilevanti del suo ultimo ciclo pittorico, incominciato piu' o meno due anni fa e intitolato significativamente Altri luoghi.
'La Torre di Babele: una costruzione assurda protesa contro l'infinito, quasi come se un'entità materiale, concreta potesse sormontare la barriera fra immanenza e trascendenza, fra qui e altrove. Gli angeli se ne prendono gioco, tanto da raccogliere perplessi le frecce che gli uomini scagliano verso il cielo e ricambiarli con ingannevoli gocce di sangue, sufficienti per confonderli e fargli credere di avere davvero ferito gli dei. Naturalmente poi arriva la punizione, e delle più terribili: la confusione dei linguaggi, che impedisce da quel momento all'impresa di procedere e alle persone di capirsi.
Per questo, forse, la torre di Babele è il primo segno della lingua umana, cioè della lingua in cui fra referente, significato e significante c'è sempre un margine di differenza, di distanza e di arbitrio. La lingua abbandonata dal sacro.
Fra gli altri, Jacopo Tintoretto si è lasciato conquistare da questa leggenda e vi ha dedicato un grande dipinto: la torre appare come una costruzione a spirale, brulicante di attività , una specie di gigantesca escrescenza sulla superficie della terra, incommensurabile rispetto alla scala umana (per dirla con Bruno Zevi). Un'immagine che è diventata nel tempo una specie di prototipo del paesaggio manierista e contemporaneamente del paesaggio d'invenzione, del capriccio architettonico che tanta fortuna avrebbe avuto nel visionario Settecento dell'architetto Piranesi.
Recentemente Paolo Profaizer ha ripreso questo soggetto antico in un lavoro fra i più rilevanti del suo ultimo ciclo pittorico, incominciato più o meno due anni fa e intitolato significativamente Altri luoghi. La sua torre è una specie di costruzione metallica a forma di calotta, coronata da una specie di bunker provvisto di una lunga apertura rettangolare. Intorno all'edificio, impalcature esili e numerose si aggrappano ai suoi fianchi, come per assediarlo (la Bibbia dice che sette scale erano sospese una sull'altra ai fianchi della torre e ancora non potevano raggiungerne la sommità ).
La luce quasi abbagliante, che arriva dal fondo del quadro, ritaglia un angolo di cielo oscuro e si riflette sulle costole che percorrono la sorprendente costruzione dalla base alla sommità ; una costruzione molto hi tech, completamente attraversata da un raggio di luce che assomiglia a un laser e proviene dall'alto, dal cielo, per andare a irradiarsi sul profilo sottile di un albero senza foglie.
Beninteso, tutt'intorno non c'è nessuno, assolutamente nessuno. Profaizer fino a questo momento ha escluso la figura umana e le forme di vita più appariscenti e riconoscibili dalle sue composizioni, come se volesse riportare tutte le cose alla condizione della stabilità , della permanenza. L'architettura, infatti, è fra le rarissime espressioni umane che siano contemporaneamente forme di permanenza. E l'artista altoatesino in questi anni ha dipinto solo architetture, cioè paesaggi convertiti alla fissità .
Che tipo di architetture ? cose piccole all'inizio, una misura che corrispondeva a quella minimale e quasi miniaturistica dei dipinti; piccole e semplici, quasi primitive, come può esserlo una cabina sulla spiaggia o una fabbrica quasi cubica, oppure la 'casa' come la disegnano i bambini, con il tetto triangolare, la porta rettangolare su un muro quadrato e un po' di prospettiva.
A dire il vero, nelle composizioni si indovinava già sempre qualche dettaglio incongruo o meglio inquietante: per esempio in una serie di tre opere del 2002, l'edificio è composto semplicemente da una vuota, alta facciata (rettangolo + triangolo: schematica, quasi infantile) ma la porta d'ingresso è davvero minuscola, straordinariamente piccola nell'ottusa levigatezza della superficie continua, senza nemmeno una finestra. Allora non è più tanto infantile tutto questo, e non sembra nemmeno ispirato in particolare alle 'fonti' che Profaizer dichiara come proprie legittime, il Carrà anni Venti (quello del ritorno all'ordine per intenderci, e delle marine) e il suo compagno Sironi. Vero è che le sue sono tutte forme elementari, minimali della costruzione umana, ma queste aperture sono davvero un po' troppo minuscole per non dare adito almeno a un sospetto che si tratti di qualcosa di personale, di metaforico. Io però non voglio proporre una lettura psicologica o psicologistica del lavoro di Profaizer; mi limito a osservare che nel suo lavoro semplicità o elementarità della forma si accompagnano con una certa pesantezza dell'elemento architettonico, del senso di isolamento, della ricorrente chiusura delle costruzioni verso l'esterno e dell'atmosfera greve, anzi desolata. L'artista ha ridotto ai minimi termini i suoi strumenti operativi, concentrando tutto in pochi centimetri quadrati di superficie pittorica, per rendere più acuto il contrasto fra gli elementi e più pregnante il 'messaggio'. Perché c'è, c'è sempre un messaggio in queste opere, o meglio un intenzione morale, quasi da parabola evangelica, determinata dalla riflessione sulla pittura ma anche dalla profonda spiritualità che anima Paolo Profaizer sin dall'infanzia. Si tratta, in altre parole, del rapporto fra spazio e luce, fra pieno e vuoto, fra condanna e redenzione... '
Martina Corgnati
Giovedì 23 Settembre 2004 - Ore 18.30
La mostra prosegue fino all'8 Ottobre 2004
Orari: Tutti i giorni 11.00 - 19.00 e su appuntamento
Catalogo con testi di Martina Corgnati disponibile in Galleria
Per Info:
CrisalisArtNetCommunication
Tel. 02 8053943
Miniaci Art Gallery
Milano, via Brera 3