Le immagini di Sergio Zavattieri restano salde, austere, sostenute da una eleganza luminosa, decisa, tagliente. Eleganza che non lascia spazio all'errore. Nessuna esitazione o sbavatura. L'eccesso si condensa in una forma stabile. E non cerca vie d'uscita: l'esistenza e' li', declamata, esposta, s-velata. In un solo piano, composto da molteplici livelli sottili, si distende la forza di frammenti che pulsano senza esplodere, e si danno, senza che alcuna dispersione avvenga.
Personale di Sergio Zavattieri
The last meal
Trasporre l’oggetto su una superficie immobile, trasformare la cosa in immagine, farne traccia che galleggi su un piano d’emersione. Usando un occhio che, distorcendo, racconti e distrugga, osando la funambolica arte della ri-composizione. Deviazione generativa. Così potremmo intendere l’operazione clinica-chimica-cinica del fare fotografia.
Le immagini di Sergio Zavattieri restano salde, austere, sostenute da una eleganza luminosa, decisa, tagliente. Eleganza che non lascia spazio all’errore. Nessuna esitazione o sbavatura. L’eccesso si condensa in una forma stabile. E non cerca vie d’uscite: l’esistenza è lì, declamata, esposta, s-velata. In un solo piano, composto da molteplici livelli sottili, si distende la forza di frammenti che pulsano senza esplodere, e si danno, senza che alcuna dispersione avvenga. Energie racchiuse dentro a un segno. Lo sguardo le prende e le impone alla vista, per giungere oltre la bellezza, in fondo e al di qua di essa. Dietro non c’è nulla, l’orrore è tutto in superficie.
L’ultimo pasto è la storia di un denudamento. Di una cattiveria necessaria, che diventa poesia.
La poesia può essere feroce, quanto la stessa necessità di esistere. Quello che avanza dalla definitiva consunzione, raggiungendo la cosa fino all’osso, sotto-pelle. La carne è evocata da ciò che resta, eppure è presente, piena, vigorosa. Scomparendo dentro a un cumulo di resti. Sparizione della carne, la dove la carne è ancor più una necessità , selvatica, insaziabile.
La violenza calma di queste immagini è un flusso che procede lento. Molte pause, contrasti affilati ma che non giungono all’esasperazione. In certi punti la luce acceca, altrove sono angoli profondi e scuri, da scrutare come speleologi in cerca di una uscita, o di un fondo (im)possibile. L’ultimo scorcio, il fondo estremo.
Tutta la violenza è in quella parola dal suono netto: last. Ultimo. Dopo non c’è nessuna domanda da potere tenere appesa. Sospendere parole e senso, come dinnanzi alla morte. Sono still life, in ultimo. Nature morte, ancora tenute in vita da uno sguardo che indaga i margini, i vuoti, i doppifondi, le cavità invisibili.
Accumulazioni di avanzi raffinati, modificati da perversioni tecnologiche, da cui emergono primi piani non spietati, tornati all’originaria evidenza. Le tecniche di elaborazione digitale alterano senza stravolgere, quasi dissimulandosi. La carne non si assottiglia dietro una artificialità ostentata, potenziata. Artificio nell’artificio: come se l’involucro di pelle, la corporeità animale rimanesse sospesa tra freddezza della rappresentazione e consistenza della sensazione.
Una patina cinerea avvolge questi corpi nudi… stralci di corpi, ossa in evidenza, occhi sbarrati, superfici tumide, scorza rugosa. Una patina grigia, seppiata, sporcizia del tempo consunto che inghiotte le cose, le mastica, le sputa, le riduce in larve o memorie.
L’ultimo pasto è freddo e pungente, come un vento nostalgico, o una violenza inferta e trascorsa. L’ultimo pasto è crudele ma algido, composto, solido, perfino chic. Agghiacciante. Nessuna concessione ad estetiche splatter, visioni debordanti, rivoli di chimico, famelico accanimento. Ci si addentra, con massima compostezza, in una celebrazione del reperto, che rivive e si ridesta. Archeologia di corpi luminosi, attraversati da un tempo in atto; anatomia tagliente, vivisezionando cadaveri artificiali; catalogazione scientifica di fossili rari o creature anomale, figlie di esperimenti da laboratorio, in bella mostra sugli scaffali di un museo immaginario, inaccessibile.
Un storia atipica, dramma o fiction per pochi audaci spettatori. Capaci di scorgere e sostenere quell’ultimo, definitivo gesto.
Inaugurazione: 15/10/04 H. 20:30
Curatori: Toni Calderón, José Mir, Nacho Ruiz, Victor Bonet
Testo di: Helga Marsala
Apertura Sala: Lun-Sab: 17.30-20,30
LA SALA NARANJA
C/ JUAN DE GARAY, 48
46017 VALENCIA
ESPAÑA