Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea
Alessandria
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Giovanna Torresin
dal 14/10/2005 al 20/11/2005
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Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea




 
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14/10/2005

Giovanna Torresin

Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea, Alessandria

L'artista lavora su se stessa e in se stessa portando avanti un'analisi inesorabile del proprio io. Con diverse tecniche taglia, ritocca, e adatta fotografie di cui e' il soggetto, modificandole fino ad ottenere una donna unica, un paradigma di donna.


comunicato stampa

Personale

CHI? Giovanna Torresin è una donna come tante, una donna come poche. Ha avuto i suoi alti e bassi, momenti belli e altri no, gioie e difficoltà, come può capitare a chiunque. Diversamente dalla norma, tuttavia, quando si è trovata a fare i conti con i propri inevitabili smarrimenti, li ha affrontati e superati con un guizzo d’energia non comune – affidandosi all’arte.

Ci sarebbe da interrogarsi, una volta di più, su cosa significhi l’arte, in sé, e su cosa possa significare l’arte per la psicologia del singolo artista. Ma è un discorso con infinite implicazioni, argomento spinoso, impossibile da liquidare in poche righe.

Diremo solo che a volte l’arte, ovvero la capacità umana di condensare i mille grovigli dell’umano sentire in simboli percepibili e interpretabili, ha capacità miracolose di catalizzazione delle più disparate problematiche: tanto per chi l’arte fa, che vi può riversare le proprie ebollizioni esistenziali e finalmente considerarle esternate oltre sé, quanto, in misura minore, per chi l’arte contempla e in qualche modo subisce, che a sua volta vi può riconoscere pregnanti metafore di deterioramenti e virtù di tutti e di ognuno.

L’arte dunque per Giovanna Torresin è stata ed è lo specchio delle sue brame, la dama di compagnia quotidiana, da interrogare con insistenza per ottenere risposte sincere, anche difficili ad accettarsi talvolta, ma chiarificatrici. E il rapporto con lo specchio è sempre, per una donna, altamente emotivo: ora gratificante, ora doloroso, ora pacificatorio, ora incendiario. Porsi domande implica il coraggio di affrontare le risposte: non tutti ne sono capaci sul serio. Ma quest’artista è una donna audace, che osa guardarsi negli occhi e reggere il proprio sguardo anche quando è spaventoso e lancia folgori di allarme.

Non vi è nulla di gravissimo a monte, intendiamoci, nella vita di Giovanna Torresin. Vi è però un crescere senza padre e, viceversa, accanto ad una figura di madre con cui le è sempre stato difficile fare i conti. E quant’altro. Problemi non solo suoi, certo, ma comunque i suoi problemi, quelli che le hanno reso la vita, anche adulta, più complicata. È qui che la donna è rinata artista. Per aiutarsi ad essere donna compiutamente.

Per strapparsi dei pesi personali da dentro e, oggettivandoli, condividerli con altri; per concedere forme tangibili ai propri urli interiori, incolori e inodori (ma non indolori); per l’esigenza femminilissima di partorire creature vive di vita propria che vadano infine per il mondo autonome a percorrere le loro strade altrove.

Questo è il compito che si è data l’artista – giving person – per se stessa e per il suo pubblico: offrire all’universo amorevoli pezzi di sé, per liberarsene e per condividerli. Le sue piccole e grandi dolenze individuali si sono fatte carico di impersonare e di veicolare, a modo loro, con distacco e insieme partecipazione, anche alcune delle nostre vostre loro tribolazioni quotidiane.

Acquistando in ciò una dimensione eroica, novella Crista che si fa carico dei peccati altrui, Giovanna Torresin appare forse miserevole e commiserevole come tante, di sicuro commendevole e ammirevole come poche.

COME? L’artista si pone interrogativi vitali con gli occhi sbarrati sul vuoto e, dopo la vertigine e lo sconcerto iniziale, sceglie di fare. Qualcosa. Non importa cosa, lì per lì; ci si penserà dopo, ci penseranno gli altri a cercar di capire. L’importante è fare, presto, hic et nunc. L’artista è artefice prima di tutto: colui che fa.

Giovanna Torresin fa soprattutto con se stessa. Non va a cercare lontano: fa l’arte col proprio corpo, dà voce alle proprie viscere usando la propria pelle. Fedele al tempo che la ospita, ne utilizza i mezzi più aggiornati, messi a disposizione dalla tecnologia. Si fotografa, si fa fotografare, in formato digitale, poi si mette davanti alle immagini realizzate, ora attraversate dalla luce di un monitor di computer, e pian piano le taglia, le ritocca, le adatta all’idea, le modifica compenetrandole con altre, le decolora, le ricolora, le illumina diversamente, le fa rinascere come nuove.

È sempre lei, quel corpo, ma non è più lei: la donna come tante è diventata una donna unica, un paradigma di donna.
L’artista si trasforma: dapprima sotto i propri occhi, in seguito davanti ai nostri. Offre di sé un’immagine ideale, ma quella che di sé sente più reale. Un corpo accoccolato in se stesso, che si tiene caldo da solo. Sospeso in uno spazio senza tempo, in un tempo senza spazio. In una semioscurità dove la luce arriva appena ad accendere un piccolo particolare qui, una timida protuberanza lì. Un corpo che ci si offre inizialmente nudo, ma senza esibirsi in modi plateali.

Anzi, si torce e raggomitola con discrezione, senza guardarci negli occhi, ancora in gran parte stretto in se stesso, dandoci spesso la schiena, nascondendosi in sé, sussurrandoci la propria presenza senza impudicizie. E intanto si ricopre di altri segni.

Si tappezza di istoriazioni barocche – ma non gli usati e abusati tatuaggi. Va a cercare le piastre inchiavardate e i labirintici intrichi di ghirigori delle fastose corazze militari del Cinquecento e del Seicento e se ne riveste da capo a piedi. Non si limita però ad appoggiarsi sopra i componenti cesellati: li incorpora letteralmente, li incista nell’epidermide mutandola per sempre: così la pelle si fa cuoio lavorato, si fa acciaio temperato, si fa barriera impenetrabile, difesa inattaccabile.

La donna assediata e corrosa dalla vita, quando questa è ingrata, adesso diviene superdonna, capace di resistere a sollecitazioni assassine e di prevalere nella battaglia diuturna con le avversità più subdole. Vince difendendosi, e non attaccando – da vera donna, appunto.

È indubbio che il conflitto sia e permanga drammatico. Lo testimoniano le tenebrosità dell’atmosfera, che sanno distinguere le durezze e gli sforzi della lotta. Il buio e il sangue. Il rosso e il nero dell’alchemica opera inesausta del solve et coagula, lento e silenzioso lavorio di trasformazione della materia in qualcosa di più, in ipermateria. Mutazione chimica, mutazione fisica, mutazione psichica, mutazione spirituale. Quanto mai complessa e faticosa.

DOVE? Giovanna Torresin lavora su se stessa in se stessa. La solitudine è conditio sine qua non per poter affrontare e portare avanti un’analisi tanto intensa e tanto inesorabile del proprio io. Servono lunghi tempi di riflessione. Serve il silenzio del mondo attorno.

Serve fare il vuoto e l’ordine, quando il nostro tempo quotidiano è sempre troppo pieno e troppo caotico. Serve il coraggio di guardare in faccia le proprie paure. Serve la sospensione dal mondo che senza sosta si srotola e rotola lì fuori.

L’artista si è sempre ritagliata nei suoi rifugi una realtà separata, dove poter coltivare al meglio l’isolamento che le è assolutamente indispensabile per revisionarsi di continuo, come in effetti fa, tramite le ristrutturazioni virtuali del proprio involucro fisico. Non si cambia il proprio aspetto prendendolo (prendendosi) alla leggera. Ogni volta è una rimodellazione plastica di se stessi, e non è certo un processo indolore. Appare del tutto comprensibile la ricerca, se non il completo raggiungimento, di un distacco psicologico e di una disciplina psicofisica che aiutino in tal senso.

Caparbia, l’artista anacoreta tiene lontane le tentazioni del mondo, perlomeno le tiene a bada costante. Anche per questo il suo panorama simbolico si è via via asciugato ed essenzializzato. Sospesa nella sua personale tebaide, c’è lei e non le serve altro. La propria corporeità le fornisce già materia in abbondanza, e a perfetta sufficienza, per lavorare ancora a lungo intorno a quanto più le sta a cuore.
Dal mondo si è tenuta volentieri distante, finora, e questo spiega la sua proverbiale riluttanza a mettersi in mostra. Ma allo stesso tempo ciò la rende degna di una patente di sincerità ben rara nei tempi correnti, in cui chiunque spasmodicamente cerca di conquistarsi un posto sicuro nel mercato e almeno il classico quarto d’ora di celebrità.

Lei viceversa ama operare nella sua penombra, dietro le sue stesse quinte, entro i confini del proprio eremo e del proprio corpo, paga abbastanza della propria ricerca – ma non abbastanza, per potervisi addentrare ancora e ancora.

QUANDO? Le tappe della ricerca solitaria di Giovanna Torresin testimoniano un’articolazione costante, coerente, eppure per certi aspetti sorprendente. Dopo i lontani primi passi ancora immersi nella pittura informale, le fasi successive del suo percorso l’hanno vista dedicarsi ad installazioni di forte impronta concettuale (1993) fedeli alla scelta di circoscrivere il piano d’azione al “piccolo mondo antico” del suo guscio abitativo, in particolare la cucina e specialmente il tavolo (1997).

È col tavolo come deuteragonista che la sua arte si è fatta soprattutto conoscere; è col tavolo come “sposo” che l’artista ha cominciato ad intersecare il proprio corpo, facendosene letteralmente penetrare e attraversare, in elaborate immagini digitali di grande impatto emotivo (1998).

Da lì, individuata la propria cifra espressiva più congeniale, pur senza disdegnare sporadici e ponderati ritorni all’installazione, infine si è concentrata sulle rappresentazioni del proprio corpo ibridato con elementi di armature metalliche storiche (2003), sfornando alcune serie di curatissime stampe lambda di formato medio-grande e con qualche incursione nell’uso di lightbox.

Tali cicli hanno abbandonato i cromatismi più accesi delle prime serie, fin da subito, per abbracciare una rigorosa riduzione dapprima al solo bianconero, appena scaldato da qualche elegante accensione (in pochi casi motivati), e poi pure ad un monocromatico rosso, intenso e straniante. Ma tra di essi, a sorpresa, si è inserito un breve e conchiuso ciclo di corpi puri, infine non contaminati da altri elementi, ma declinati nelle loro forme dolcificate in un glorioso color rosa scioccante (2005): un inatteso gusto di fragola e caramello che fa intuire possibili sviluppi futuri in direzioni del tutto nuove.

PERCHÉ? Diventa invero appassionante seguire il risoluto addentrarsi di quest’artista nella propria esistenza di donna, che continua a parlarci di sé, a urlare (ma sottovoce, educatamente; forse si potrebbe dire meglio: a cantare roca) la propria individualità in cerca di punti fermi.

Essendo sincera, fino in fondo, Giovanna Torresin peraltro non può non agire e rappresentare con accenti anche drammatici. Se dei precedenti artistici le si vogliono trovare a tutti i costi, probabilmente non le dispiacerebbe essere accostata alla “grande vecchia” Louise Bourgeois, riconosciuta sciamana esorcista dei propri annosi timori (capace di sentenziare lapidaria: “scopo dell’arte è, né più né meno, vincere la paura”), oppure alla valorosa pioniera della body art Gina Pane, maestra di materializzazione dell’ansia esistenziale anche attraverso un dichiarato e patente autolesionismo.

Non siamo, invece, dalle parti più dichiaratamente masochistiche del post-human ora più di moda, quello di Orlan e Stelarc, troppo colorato da componenti spettacolari esibizionistiche.

Il mettersi in scena di Giovanna Torresin risponde piuttosto ad altre esigenze. Di fronte ai basici interrogativi esistenziali, la schiettezza e il candore tipici dell’artista – senza i quali un artista è meno artista, indubbiamente – qui si fondono con un’insopprimibile aspirazione a far quadrare l’etica con l’estetica, forse a farle addirittura coincidere reciprocamente.

È anche perciò che il suo mettersi in mostra avviene a livello intimo, nella pura fase realizzativa, ma poi non viene seguito allo stesso modo nell’amplificazione mediatica e per così dire di marketing del prodotto, che l’artista sincera considera onestamente (e legittimamente) molto ma molto meno essenziale. Le basta distillare le sue rade opere, meditate a fondo, una per una.

È un’artista anacronistica, dunque, nel suo appartato e incorrotto rifiuto del chiasso promozionale? È un’artista genuina e integra, questo sì, e pertanto ancor più insolita e pregevole.

Inaugurazione: 15 ottobre ore 18.00

Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea
Via cairoli 42 - Ovada

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Paolo Novelli
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