Galleria d'arte Cinquantasei
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Luigi Pellanda
dal 21/10/2005 al 22/11/2005
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21/10/2005

Luigi Pellanda

Galleria d'arte Cinquantasei, Bologna

60 opere dal 1985 al 2005. L'artista utilizza materiali e tecniche diverse, sia in ambito pittorico sia scultoreo, passando da strutture bronzee di grande potenza a sottili trasparenze, a stesure a pennellata corposa fino ad una matericita' piu' leggera.


comunicato stampa

60 opere dal 1985 al 2005

A cura di Rossana Bossaglia

Sabato 22 ottobre sarà inaugurata la mostra antologica itinerante dedicata ai primi 20 anni di pittura di Luigi Pellanda (1964).

Saranno esposte sessanta opere dal 1985 al 2005. L’artista produce circa venticinque quadri all’anno. Quando si impegna moltissimo, come quest’anno, lavorando di giorno e anche un po’ di notte, riesce ad arrivare a trenta. D’altronde, come si può riscontrare dalle immagini, la qualità pittorica è molto elevata. Gli studiosi che lo conoscono, anche personaggi di rilievo, lo considerano uno dei maggiori iperrealisti italiani, fra i principali europei.

Il volume monografico di 216 pagine è curato da Rossana Bossaglia, contiene oltre 150 riproduzioni a colori e tutti i testi sono tradotti in inglese in quanto esistono interessi per l’artista anche all’estero.

La natura come simbolo – Rossana Bossaglia

Di Luigi Pellanda, che nonostante l’ancora fresca età ha al suo attivo un’ottantina di mostre, è stata già sottolineata dalla critica un’avvincente peculiarità: quella di rientrare in una panoramica espressiva che parte dal Seicento caravaggesco e quindi di inserirsi in una grande tradizione storica; e quella di coinvolgerci in una simbologia moderna, che si muove da eventi della società contemporanea, li interpreta e li commenta. La sapienza del mestiere è la base di questa raffigurazione che utilizza materiali e tecniche diverse, sia in ambito pittorico sia scultoreo; e gli consente di passare da strutture bronzee di grande potenza a raffinate e sottili trasparenze, sia nelle stesure a pennellata corposa sia in quelle di matericità più leggera. Si tratta nella gran parte di opere che per convenzione si definiscono nature morte, accompagnate dalla ripresa di oggetti di uso comune; ed è motivo di grande suggestione cogliere negli oggetti inerti o negli elementi naturali staccati dalla matrice di vita una forza rappresentativa, cioè avvertirne una vitalità profonda, che da una parte è il segno di un momento di passaggio e dall’altra di quanto la tensione creativa dell’artista mantenga freschezza vitale a testimonianza di morte.

In armonia con la tradizione iconografica cui si appoggia, Pellanda fa di queste immagini, anche quelle di sostanza fisica la più povera, simboli di eventi o situazioni spesso di intenso significato. Il valore simbolico si appoggia, come si accennava, all’eccezionale finezza e perizia ideativa ed esecutiva: dalle posate di legno alle conchiglie sgretolate dal tempo, dal cavolo al fungo al pomodoro, ogni elemento appare come simbolo di una situazione naturale, se vogliamo umana, giacché la sostanza di fondo è appunto la rappresentazione simbolica dell’essere vivente e della sua vicenda esistenziale.

Addirittura, con il tramite di questa “imagerie” di antica tradizione, Pellanda simboleggia eventi e situazioni attuali, legate alle vicende della nostra società: anche economiche. È una testimonianza del ruolo nell’arte nei secoli, una prova evidente di come la bellezza, sulla quale da tempo si fonda la definizione di valore artistico, sia una formula suggestiva per rappresentare e trasmettere il senso dell’esistenza.

La produzione di Pellanda comprende circa venticinque opere all’anno, ciascuna delle quali è totalmente di mano dell’artista anche nelle parti complementari: sua è l’accurata e variata ricerca dei materiali, la strutturazione delle cornici, la puntualizzazione dei titoli e così via. La sua personalità è riconoscibile con chiarezza da un’opera all’altra, identificabile di primo acchito nell’iconografia oltre che nel timbro stilistico; ma è ovvio che un passaggio di gusto, di modi espressivi è rilevabile nel procedere del tempo.

Partiamo dalla produzione nel corso degli anni Ottanta, quando egli viene affermando il suo stile: l’ispirazione naturalistica è molto forte e diretta, riconosciamo cioè alberi e animali colti dal vivo, non isolati ma immersi nell’ambiente nel quale si immedesimano. Nella produzione successiva le figure appaiono invece estrapolate dal loro contesto, a poco a poco non le vediamo più in un ambiente aperto, respirante, i paesaggi non si identificano; sono come ritagliate, portate sul proscenio con un fondale neutro. Sempre l’opera d’arte è simbolo di valori intellettuali o morali, metafora di riflessioni o emozioni; ma nel caso di Pellanda questo significato delle immagini si fa sempre più intenso ed evidente.

All’inizio degli anni Novanta egli predilige la collocazione degli oggetti, di solito posti su un tavolo e appoggiati a una tovaglia, su un fondo scuro: che non sai se sia una parete o un fondale d’aria; si fa sempre più evidente l’interesse per la varietà delle stoffe modellate nel loro spessore materico. È importante constatare come le figure naturali – che siano vegetali nella loro originaria fisionomia o frutto di coltivazioni – tendono sempre più a combaciare con il contesto domestico e gli artifici compositivi: presenze vegetali inserite in cestini o vasellame fanno un tutt’uno con i loro contenitori; e le fasi di maturazione e decadenza si susseguono senza strappi interpretativi.

A un certo punto si porta in primo piano una modellazione metallica che, pur non allontanandosi dagli effetti di presa diretta, toglie alla matrice naturale ogni senso di morbidezza e gli effetti di marcescente evoluzione: la mela di legno o di bronzo, anche se toccate da macchie che ne sottolineano la naturale evoluzione fisica, cancella a poco a poco l’idea di caducità; e così anche quando l’immagine della sequenza di caki si intitola “maturando” e lascia quindi presupporre vari momenti della loro vita fisica, ciascuno dei frutti si presenta con una sua indipendente durezza.

Questo aspetto della produzione di Pellanda acquista tanto più un carattere simbolico quando egli si dedica alla rappresentazione della conchiglia, elemento naturale che di per sé sembra estrapolarsi da un percorso di vita, cioè dagli effetti di caducità, per bloccarsi nel silenzio di una metallica fermezza.

Negli ultimi anni della sua produzione Pellanda va appunto prediligendo il tema della conchiglia, o per meglio dire: se continuano figurazioni dolci e morbide quali vasi di fiori, cestini di frutta, e così via, la conchiglia appare il tema più dichiaratamente simbolico e insieme riassuntivo dei contenuti di tutti. L’opera dell’artista con il titolo di Tridacna Pellanda raffigura un elemento naturale ma insieme una sorta di vaso metallico, di contenitore ben definito, senza slabbrature, dentro il quale noi possiamo immaginare una raccolta di tutte le simbologie di vita rappresentate via via. La conchiglia è un prodotto della natura che di per sé sembra estrapolarsi da un percorso esistenziale; cioè uscire dagli effetti di caducità per bloccarsi nel silenzio eterno. Uno dei caratteri di seduzione di questo stupefacente artista è proprio la sua capacità di rendere con freschezza il transeunte e con luminosa fermezza il simbolo dell’assoluto.

Autobiografia - Luigi Pellanda

Devo ammettere che sono un po’ “orso” e le parole parlate non mi escono con estrema facilità, al contrario sono un gran pensatore ed ho la strana impressione di esprimermi meglio con pennello e colori!

Una mia particolarità è quella di non essere allievo di nessun grande maestro e neppure figlio d’arte, ad essere sincero non mi dispiace affatto; non c’è di peggio che “ereditare” e portarsi appresso il fardello: “È allievo di…” oppure “È figlio di…”. Sono semplicemente un autodidatta, anche se arrivare all’iperrealismo con “armi” proprie non è stata una passeggiata, anzi, forse ho impiegato più tempo del necessario, con il vantaggio però, che nei miei dipinti non vi è nessuna influenza di un maestro recente.

Probabilmente sono allievo delle immagini dei libri d’arte, con un amore particolare per il grande Caravaggio, che ha accompagnato e sensibilizzato la mia ricerca pittorica del periodo iniziale. Fortunatamente la mia personalità, ad un certo punto, ha preso il sopravvento, non facendomi cadere nella trappola d’emulazione di un così potente maestro. La mia pittura è così diventata il semplice frutto della mia fantasia e di una ricerca estetica personale contemporanea, con il giusto raccordo storico che ne sostiene le fondamenta.

Sì, frutto della fantasia e del mio modo di vedere le cose perché, nonostante io sia costretto ad immortalare gran parte dei soggetti con la fotografia, per motivi di naturale decomposizione, ad un certo punto l’artificiosa immagine viene tolta per lasciar “iperrealizzare” il tutto alla mia fantasia. Mio padre, ora in pensione, faceva l’operaio in una fabbrica di prefabbricati in cemento. Terminato il turno di lavoro, l’aspettava il suo negozio di barbiere, che apriva tutti i giorni alle 18. Era un vero stacanovista e questa virtù credo di averla ereditata da lui, tanto che contemporaneamente a questi due lavori, è riuscito a costruire, con le sue mani e nel tempo libero, cinque case, una per ognuno dei suoi figli maschi.

Mia madre, anche lei in pensione, faceva la sarta. La mia precisione e pignoleria l’ho sicuramente ereditata da lei. Sono il quinto di sette fratelli, cinque maschi e due femmine e gli esempi da cogliere, con dei fratelli maggiori e dei buoni genitori, non mi sono certo mancati.

La musica è stata il primo forte input che ho avuto. Erano gli inizi degli anni settanta, avevo circa sei anni e ricordo come fosse ieri l’odore, o meglio a mio parere di allora, il profumo ed il ronzio degli amplificatori a valvole riscaldati dall’uso continuo, le chitarre elettriche ed un intricato groviglio di cavi elettrici che ricoprivano l’intera superficie del pavimento di moquette testa di moro della sala prove.

Mio fratello Flavio era il chitarrista ed il cantante di un gruppo di quattro elementi che allora aveva un certo successo: arrivarono a far da spalla ai Genesis in un concerto tenuto in quel periodo nel Veneto. Nella sala di registrazione passavano gruppi musicali e solisti che andavano per la maggiore in quegli anni, ma io non mi rendevo conto di chi fossero; una sola cosa sapevo: quel mondo mi piaceva, quei suoni ad alto volume mi emozionavano e ne ero attratto. Imparai presto a strimpellare la chitarra “guardando” la musica che mi suonava intorno da un angolo di quella sala prove. In quello stesso periodo (a sei, sette anni) risale anche il mio primo olio su tela, era una marina notturna con un granchio rosso che mostrava con aggressività le tenaglie; quadro che non so che fine abbia fatto, sicuramente ci avrò dipinto sopra qualcos’altro.

Con ammirazione ed invidia guardavo le mani dei chitarristi che toccavano, pizzicavano e sfioravano le corde ed i tasti delle chitarre con così grande agilità e sicurezza. Questo succedeva anche guardando le tele dei grandi pittori, che “studiavo” solo dalle immagini dei libri di storia dell’arte dei miei fratelli maggiori, allora studenti. Pensavo «L’arte del musicista e del pittore è un dono di natura. Muove le mani con troppa disinvoltura il chitarrista, la destra fa una cosa e contemporaneamente la sinistra tutt’altra. Lo stesso il pittore del libro, che non ho mai visto dipingere, chissà con che maestria e facilità arriverà alla conclusione dell’opera», mentre i miei esercizi musicali e pittorici miglioravano molto lentamente e con grande difficoltà. «È tutto molto difficile e lontano», pensavo, ma una frase di mia madre «Impara l’arte e mettila da parte», ricordo, mi consolava.

Era il 6 maggio del 1976, alle ore 21 circa, e stavo dipingendo un vaso di ceramica sul tornio, nell’azienda di Rodolfo, un altro dei fratelli maggiori, quando il vaso iniziò a tintinnare e traballare fino a cadermi tra le gambe: era il disastroso terremoto del Friuli. Allora avevo quasi 12 anni e nel dopo scuola la pittura continuava ad essere una presenza quasi quotidiana, anche in orari non proprio consoni all’età di un ragazzino. Una pittura decisamente non molto creativa, artisticamente parlando, ma sicuramente di estrema utilità nell’esercizio dell’uso dei colori e dei pennelli.

Qualche anno più tardi, Flavio (il musicista) ebbe il compito dal suo manager di comporre la musica per un testo che avrebbe dovuto cantare ad un concorso canoro, ma il tempo gli mancava, in quanto aveva iniziato una nuova attività in proprio, di serigrafia artigianale. Allora io avevo circa sedici anni e, visto che l’esercizio della composizione musicale non mi era nuova, Flavio mi passò l’incarico di eseguire la musica di quel testo ad insaputa del suo produttore.

Composi la musica e mio fratello vinse il concorso (La rosa d’oro). Quando il manager seppe che la musica l’avevo scritta io, disse a mio fratello «Mandami qua Luigi». Fu così che il suo manager diventò il mio ed iniziai una carriera come cantautore, visto che, oltre a comporre la musica, scrivevo anche i testi, Nella casa dei miei genitori avevo, già allora, uno studio dove disegnavo, dipingevo, suonavo, componevo e tutto questo, per ovvi motivi di lavoro, nelle ore serali e notturne.

Il mondo della musica mi piaceva, ma l’adrenalina che si scatenava in me, quando ero di fronte ad un vasto pubblico, metteva a repentaglio le mie coronarie. Il culmine (nel senso di rischio d’infarto) lo raggiunsi con il festival di Torricella a Rossano Veneto, dove mi esibii di fronte a più di 4000 persone, dopo Bobby Solo, Paolo Mengoli, Fiorello, Kim and the Cadillac’s ed altri. Non fu questo che fece desistere la mia carriera di cantautore, bensì un episodio spiacevole, ma ahimé non raro: dopo aver passato le selezioni per un importante Festival della Canzone italiana, mi chiesero “un anticipo”.

All’epoca mi guadagnavo da vivere lavorando come pittore nell’azienda di ceramiche di Rodolfo. Nella ceramica (artigianale e commerciale) non sopportavo quel “rimanere adagiati sugli allori” della secolare tradizione ceramica bassanese, continuando a riprodurre oggetti del passato.

Ritenendo questo comportamento una perdita di tempo, iniziai a disegnare oggetti con forme più consone e coerenti ai nostri tempi moderni. Il passo dalla pittura alla scultura, o meglio, alla modellazione della creta, visto il mio entusiasmo creativo, fu solo una questione di tempo. La scultura dei modelli da me disegnati fu un passo naturale dettato dall’esigenza e dal desiderio di vedere l’oggetto finito corrispondere alla mia idea iniziale, senza l’ovvio e naturale “inquinamento” che succede col passaggio dal designer all’esecutore del campione. Era il momento del servizio militare e questo intoppo obbligatorio avrebbe interrotto tutto il mio iter creativo, così ritenendo anche la “naia” uno spreco di tempo, feci richiesta di entrare nel corpo di polizia. Fatta la visita e tutti i vari test, fui scartato per ipersensibilità. E così il semplice servizio militare interruppe le mie iperattive giornate con le rispettive passioni, la musica, la pittura, il lavoro e altro.

Terminato il servizio militare, ripresi immediatamente i miei quotidiani ritmi creativi. Curioso di nuove esperienze e tecniche, anche la fotografia entrò nel panorama del mio tempo libero e col passare del tempo si fuse con un’altra delle mie passioni, quella per la natura e gli animali. Approfittando del corso di cecchino fatto al servizio militare, aggiunsi alla macchina fotografica un calcio di fucile al posto di un’ingombrante cavalletto per mantenere fermo il potente teleobiettivo. Da questi scatti degli anni ottanta, presi spunto per vari dipinti a tempera su tavola, raffiguranti animali nel loro ambiente naturale. Nel frattempo nell’89 mi sposai con Paola, che seguiva, ormai da più di cinque anni, le mie molteplici passioni, diventando inesorabilmente la mia musa ispiratrice in diversi dipinti.

Nel 1990 dopo circa dieci anni di pittura a tempera, ritornai alla pittura ad olio. L’esercizio di tanti anni di pittura a tempera mi fecero riscoprire la sorprendente potenzialità della pittura ad olio e quei risultati che ricercavo da bambino, come d’incanto, allora emersero con estrema facilità e disinvoltura dalle mie pennellate. La non scorrevole pittura a tempera sulla tavola quasi grezza di tanti anni, si rivelò un utilissimo esercizio, come l’atleta che si allena e corre con i pesi alle caviglie e quando li toglie, gli sembra di volare.

L’entusiasmo di questi risultati mi portò a dipingere con esagerata continuità. Fino ad allora (1991), non avevo mai pensato di esporre i miei lavori, avevo sempre dipinto esclusivamente per soddisfazione personale, vendendo, anzi, quasi regalando i miei lavori, guadagnando quel poco che bastava per rifinanziarmi l’acquisto di nuovo materiale (tele e colori) per dipingere.

Ma l’esperimento del mio primo concorso di pittura estemporanea, mi portò a valutare la possibilità di organizzare la mia prima personale. Il regolamento del concorso di pittura imponeva la consegna delle tele vergini ai pittori il venerdì e la riconsegna dell’opera conclusa alla domenica mattina. Il primo premio acquisto era di L. 600.000. Il mio tipo di pittura richiedeva parecchie ore di lavoro e ricordo dipinsi per 48 ore di fila, consegnando in orario la domenica mattina un dipinto iperrealistico, ad olio su tela, cm 60x80, impreziosito da una cornice che da sola superava metà del valore del primo premio.

Nelle poche ore di esposizione il mio dipinto ebbe uno sorprendente successo e, venuto a conoscenza della mia prima posizione, ritirai l’opera dal premio acquisto, rinunciando alla vittoria.

Il mio obiettivo l’avevo raggiunto ed il test espositivo fu fondamentale sulla decisione di organizzare la mia prima mostra personale. Trovai una sede espositiva al Centro Culturale Scrimin a Bassano del Grappa per l’anno successivo. Contattai Paolo Rizzi per la stesura del testo critico e per la presentazione alla vernice. Mi venne a trovare in studio per vedere le opere e ricordo mi disse che, con il mio genere di pittura, in quel periodo, sarei andato contro corrente. «Io dipingo per me, non per gli altri», risposi. Lui sorrise. Per quella prima mostra, nel 1992, a Bassano, dipinsi venticinque opere.

Il successo di quella prima esposizione mi sorprese, sia dal punto di vista del numero di visitatori che delle vendite. In due fine settimana andarono venduti tutti e venticinque i dipinti, e non erano certo ad un prezzo modico, un 50x70 costava due milioni e mezzo di lire che, per uno sconosciuto alla prima esposizione era un prezzo significativo. Le successive esposizioni alle fiere dell’arte mi portarono alla conoscenza di numerosi collezionisti ed alla costante collaborazione con varie gallerie d’arte.

Due anni dopo la prima esposizione personale, abbandonai il laboratorio di ceramiche e mi dedicai esclusivamente all’arte pittorica. Sorprendentemente gli acquirenti dei miei lavori non erano esclusivamente estimatori dell’arte figurativa, ma anche quelli dell’arte astratta dimostravano interesse per il mio lavoro e, vedere la mia opera esposta in una collezione a fianco di Fontana, Burri, Tancredi e altri, dopo solo due anni di professionismo, mi lusingò molto.

La predominante della mia pittura in quel periodo (’92-’96 circa) era lo sfondo scuro. Involontariamente oggi, per definire quel periodo, lo chiamo “periodo scuro”, anche se, spiritosamente, a volte diventa “periodo nero” per alcune fasi di ristrettezza economica vissuta in qualcuno di quegli anni.

Nel 1994 durante una visita ad una mostra sull’incisione italiana a Palazzo Agostinelli di Bassano, ebbi una folgorazione nel vedere “Stradina tra i castagni” di Giovanni Barbisan (acquaforte del 1983), tanto che ritornai diverse volte, ignorando tutti gli altri autori, dirigendomi diretto su quell’incisione. La curiosità di esprimermi con un semplice bulino su una lastra di zinco o di rame, mi sfidava. Qualche giorno più tardi contattai un amico incisore e mi feci spiegare tecnicamente l’arte incisoria. Testardamente come sempre non volli consigli personali, solo la tecnica, gli acidi, le morsure, i tipi di bulino, gli inchiostri, ecc. Volevo vedere cosa sarei riuscito a fare da solo, da autodidatta, come lo sono sempre stato in tutte le cose.

Dopo la mia prima incisione, ne seguì una seconda e così via e qualche mese dopo lo spazio del mio studio si ridusse per la presenza di un nuovo torchio calcografico.

L’iperrealismo comporta molto tempo e non lascia molto spazio per altre cose, fu così che, dopo qualche anno, dovetti abbandonare a malincuore questo nuovo flirt artistico. Raramente, al termine di un dipinto, mi trovo pienamente soddisfatto del lavoro svolto. A volte mi basta non vederlo per qualche settimana, per poi ricredermi. In questo caso la mia insoddisfazione è sicuramente dovuta alla costante e ripetuta presenza di fronte ad esso. Ma altre volte non è così e la deludente aspettativa mi porta ad avere pretese maggiori ogni qualvolta ripongo la tela bianca sul cavalletto.

Nel 1994 nacque Jasmine, la mia prima figlia, un’“opera” indiscutibilmente ben riuscita. Dal 1996 iniziai un lento e progressivo cambiamento, le campiture che dipingevo non erano più esclusivamente nere, anche se in realtà questo freddo colore nella mia tavolozza non è mai esistito; il nero è sostituito da un caldo bruno Van Dyck. Il periodo scuro volgeva al termine, lasciando spazio in poco più di un biennio al periodo, definiamolo, chiaro, predominato dalle campiture beige. Nel 1999 nasce la seconda figlia, Gioia, un irrequieto capolavoro. Riguardando il mio archivio dei dipinti eseguiti negli ultimi anni, noto che, nel periodo estivo, ho la tendenza ad usare colori più vivi, più solari, cieli azzurri e tersi, manifesto della voglia di uscire dallo studio dove rimango chiuso, forse, per troppe ore al giorno.

Probabilmente con questo cambio cromatico della mia tavolozza, esorcizzo la mancanza di tempo libero portandomi un po’ di cielo dentro lo studio. Nel nuovo millennio, la conoscenza di Alan, Silvana ed Estemio, alle fiere d’arte, diventata poi amicizia, ci ha portati (con mia sorpresa, non me l’aspettavo!!!) a lavorare assieme. Dopo l’antologica al Castello di Marostica, ottobre 2002, il resto del percorso l’abbiamo fatto assieme e mi sembra di poter dire che, in funzione anche del loro impegno di buona qualità a livello professionale, in generale tutto è migliorato e la diffusione delle mie opere, pur essendo in numero fisiologicamente così limitato, ora è a livello nazionale.

La riuscita mostra di Marostica mi ha portato ad avere un feeling particolare con questa bella cittadina, tanto che, oltre ad essere costantemente presente in vari spazi della famosa piazza degli scacchi, con il patrocinio del comune e dell’assessorato alla cultura il prossimo settembre terrò un corso di iperrealismo in un’antica chiesa sconsacrata, sita all’interno delle mura storiche. La buona musica intanto continua ad essere un sottofondo immancabile durante il mio dipingere, come le mie figlie che giocano ai piedi del cavalletto, copiano i miei dipinti e chiedono un giudizio, le persone care, i paesi che vivo e che ho vissuto. Sono convinto che il risultato del mio lavoro non sia esclusivamente merito mio e voglio terminare usando una metafora, come spesso uso fare nei titoli dei dipinti: un uomo non può essere frutto di se stesso, ma seme germinante che assorbe nutrimento dalla terra che lo avvolge. Un pizzico di fortuna ci vuole sempre, il seme si spera cada in un terreno fertile!

Inaugurazione: Sabato 22 ottobre, alle ore 18

Galleria d'arte Cinquantasei
Via Mascarella 59/b - Bologna

Orari: dal martedì alla domenica 10-13 e 16-20

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