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Vittorio Valente
dal 3/11/2005 al 29/11/2005
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Vittorio Valente



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3/11/2005

Vittorio Valente

Passo Blu, Genova

L'artista propone un lavoro di scultura che dialoga apertamente con le istanze, che si sono manifestate in Italia nella meta' degli anni '80, intorno alla necessita' di rinnovare e ridefinire l'universo della scultura e delle installazioni.


comunicato stampa

L'invasione degli ultracorpi

Considerazioni intorno al fatto che anche le stelle sono un inganno ottico…

Vittorio Valente ovvero dell’essere e dell’apparire.

La contrapposizione fra essere ed apparire sembra diventare, ogni giorno, più invadente. Rumori e colori quotidiani, stanno ridefinendo i tratti fisionomici di una “società dell’immagine” sempre più sfocata e scialba a causa del suo agitarsi impazzito ed insensato. Rumori e colori che - alla stregua di cancerogeni invasori parassiti - stanno letteralmente ricoprendo gli ultimi baluardi di umanità. Ciò che ne risulta è una società apparentemente identica nelle fattezze a quella usurpata, ma dall’anima posseduta e subdolamente stralunata; un corpo che diviene ingannevole contenitore di una “realtà altra”, definito da un’estetica rassicurante perché riconoscibile.

Si ridisegnano così scenari avveniristici, già immaginati nella letteratura e nel cinema di fantascienza; paure antiche che vestono abiti alieni, terrificanti nel momento stesso in cui evocano il fantasma della “diversità” capace di aumentare nell’umano, il grado di diffidenza...

Differenti personalità e modus espressivi generano differenti profezie ed allucinazioni, che possono manifestarsi nel linguaggio esplicito dell’horror o dello splatter, nella sottigliezza sibilante della sfera psicologica oppure possono celarsi dietro all’ironia, capace di farci abbassare le difese.

Vittorio Valente, alla stregua di un sarto, “cuce” alle proprie allucinazioni un “abito” che regala loro consistenza e tridimensionalità, facendogli guadagnare la possibilità di occupare uno spazio concreto in mezzo al vissuto. Il suo è un lavoro di scultura che –come è stata detto (1) - dialoga apertamente con le istanze manifestatesi in Italia nella metà degli anni ’80, intorno alla necessità di rinnovare e ridefinire l’universo della scultura e delle installazioni, oltre ad inserirsi in quel territorio teorizzato dalla poetica post human, soprattutto intorno alle tematiche relative al corpo, che incarna le nuove influenze degli anni ’90, sconfinando in mondi paralleli, dove accanto all’arte propriamente detta, si ritrovano anche la scienza e la biologia.

Valente modella un mondo di sculture che è impossibile non toccare, sollevare, accarezzare: un popolo di cuccioli astratti, che destano tenerezza, come giovani felini in attesa della leonessa.

Rotondità ricoperte da spine di silicone morbido e dai colori saturi, che sgorgano da un ventre generatore per infestare lo spazio circostante: uno zoo di ultracorpi che sembrano invitare al gioco. Valente come un moderno Mangiafuoco, buono e silente, mette in scena una sorta di “gran teatro biomorfo” restando poi in attesa col sorriso sulle labbra: ciò che viene servito all’osservatore è una teoria di apparizioni verticali, che invadono la scena partendo da uno scheletro ingombrante ma sinuoso, in cui è possibile inciampare, proprio come concettualmente, nella vita, può accadere con un problema…

Ogni gioco ha le sue regole, anche quello dell’apparenza e Valente con un’onesta morale che potenzia ulteriormente il valore intrinseco dei suoi lavori, sembra attenervisi in modo impeccabile: lo spettatore può decidere senza tranelli il grado di coinvolgimento con l’installazione, può scegliere un livello di lettura formale e quindi più superficiale, e farsi intenerire dal decorativismo floreale e giocoso, oppure strappare quello che Shopenhauer definiva il “velo di Maya”(2). A ben guardare, nelle opere di Valente, si scorgono micro-elementi destabilizzanti, che alludono ad una natura virulenta e pericolosa anche se lo fanno in modo ammiccante. L’osservatore si scopre così a superare la cortina ingannatrice che sovrasta il visibile, -per dirla con le parole della filosofia – perché non possiamo avere la certezza che il reale sia tale, dato che nulla ci garantisce che non si tratti di apparenza e che quanto accade non sia mero sogno (3). Il mondo che conosciamo e che abitiamo, potrebbe essere pura illusione, come è immaginato, ad esempio, nella finzione cinematografica di “Matrix” (4): così viene a sgretolarsi la sua architettura portante e –oltre alla fisionomia dei “pezzi” in gioco - tutti i punti di riferimento svaniscono. L’universo di Valente fluttua in una dimensione strettamente collegata a quella quotidiana, giocata secondo le regole dei “ribaltamenti”: ciò che sembra alieno è in realtà un elemento conosciuto, ingrandito e un poco modificato, mentre ciò che ci pare famigliare e comune nasconde qualcos’altro. Una volta superata la “porta nascosta nello specchio” è impossibile tornare al momento che precede la rivelazione. Chi ha deciso di strappare il velo di Maya si trova faccia a faccia con paure biologiche e incontrollabili, dove esseri di varie forme e dimensioni ormai, hanno calato la maschera rivelando la loro natura di “contenitori di corpi”(4), una seconda pelle che l’ esperienza ci dice attaccare dall’interno e che in questa speciale allucinazione colonizza dall’esterno, con la sicurezza propria di chi è sicuro della vittoria. Parassiti inevitabili che hanno inglobato il contingente, creando il “noumeno, cioè la realtà che si nasconde dietro l’ingannevole trama del fenomeno” (5).

L’installazione diviene così esperienza mentale ed emotiva, che arricchisce lo spettatore di consapevolezza: quei cuccioli astratti ed invitanti divengono monito; pur cogliendone l’aspetto ludico ed ironico i “sensori” restano allerta.

Le piccole regolari punte di silicone colorato rimandano ora immediatamente alle protuberanze che il mondo vegetale produce per autodifesa, spine capaci di ferire e far sanguinare. La consapevolezza risiede nel fatto che è proprio quando abbassiamo le difese che il nemico ci coglie più vulnerabili e ci attacca, riuscendo ad avere la meglio. Ed è proprio quando ci dimentichiamo che il mondo si basa sulla dicotomia fra essere ed apparire, che soccombiamo tranello: anche le stelle sono un inganno ottico; ciò che ci appare come la più luminosa in realtà è solo più vicina. Ciò che vediamo splendere e brillare davanti ai nostri occhi potrebbe essere morto da decine o centinaia di anni… “Nulla è più complicato della sincerità” diceva Pirandello; così nel momento in cui il sasso della conoscenza è stato scagliato è impossibile ritirare la mano, chiudere gli occhi dinnanzi a ciò che si svela in maniera sincera e famelica. Valente fa giocare le morbidezze ed evoca una docile flora per ribadire che il reale proteiforme non potrebbe essere senza gli opposti, elementi che si evidenziano vicendevolmente. Il suo zoo di agenti infettanti dall’estetica affettuosa, che appaiono distanti anni luce dal conosciuto, altro non sono che particelle restituite al microscopio. Tutto ciò che osserviamo da un’ottica troppo ravvicinata –compresi gli accadimenti – risulta irriconoscibile. L’elemento ludico è un vecchio trucco fuorviante preso a prestito dalla natura: i colori puri e squillanti che saturano le punte gommose delle sculture, sono gli stessi che si scelgono per decorare le aule degli asili; capaci di chiedere il contatto in maniera disarmante, sembrano aver rubato il copione alla mela di Biancaneve, che cela e distrae dalla sua vera natura maligna.

Il gioco degli opposti si conclude nella sua espressione più evidente: la componente formale. Questa colonia giocosa di parassiti, che di solito agisce in silenzio dall’interno, palesandosi spesso soltanto a ridosso dell’irreparabile, si colonizza divenendo contenitore, e mette in mostra non senza un certo autocompiacimento la sua bellissima struttura composta di simmetrie e contrasti.

Nell’orgia di colori in cui vivono questi giocattoli insidiosi, fa capolino, ad un tratto, il primo essere riconoscibile: la lumaca, che invade gli spazi fino a debordare sul corpo dell’ospite perfetto, della Signorina Dalloway per eccellenza, di chi è al timone dello spazio candido dell’esposizione; un messaggio metaforico affidato a colui che lascia nella scia iridescente ed infetta, un segno che non può portare in sé nulla di buono . Un elemento deterrente, che provoca ancora una volta tenerezza, ma che risulta di fatto, essere uno dei più potenti contaminatori, nel regno animale e vegetale.

Ricomponendo tutti i pezzi del puzzle, appare evidente che il gesto di infettare uno spazio - un’inanimata struttura architettonica, è solo l’anello più esterno di una catena complessa: il nocciolo della questione espressiva è individuabile nel fatto che tale caos biologico sembra richiedere inesorabile il contatto umano: solo chi è capace di affrontare le proprie paure, accettando l’irreparabile come una delle tante cose della vita, può creare le proprie difese immunitarie. Ecco che la stessa decorazione gommosa, con tutta la sua estetica squillante, si fonde in una danza orgiastica con il più nobile fra i metalli, l’oro, per generare gioielli scultura (6). Le regole vengono sovvertite ancora una volta: ciò che non può essere biologicamente arrestato, dilaga in altri campi e in altre geografie, a volte il design, a volte la moda, in questo caso nell’arte orafa.

Sculture preziose e lucenti che vanno ad abitare direttamente una creatura vivente, colonizzando le cellule di un’anima consapevole, rappresentata da una veste simile ad una quinta teatrale che protegge un corpo indifeso. Un corpo in attesa che il destino prenda la sua direzione e in qualche modo si risolva. Un corpo coraggioso che indossa e mostra tanto le sue paure quanto i suoi mali. Un corpo che risulta essere l’unico elemento veramente reale, insieme ad un teschio di capra, e che diviene simbolo di un futuro non necessariamente nefasto, ma comunque inevitabile.

Un corpo che in qualunque caso ne esce vincitore!

Viviana Siviero
Ottobre 2005

(1) Edoardo di Mauro, in “Vittorio Valente”, testo in catalogo, Parise Adriano editore, 2002.
(2) Schopenhauer, “Il mondo come volontà e rappresentazione”.
(3) Ibidem
(4) Matrix, di L.Wachowsky, USA, 1999, min. 140 (4) “Contenitori di corpi”, Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea, Catalogo della mostra, 2005
(5) Abbagnano su Shopenhuer in “Filosofi e filosofie nella storia”, Paravia 1989
(6) In collaborazione con CloF Laboratorio orafo di Ceccarelli Fabio

Inaugurazione: 4 novembre ore 18.00

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