Di Marina Giannobi, a cura di Linda Kaiser. In mostra le opere fotografiche dell'artista.
Mostra di Marina Giannobi, a cura di Linda Kaiser
Rudolf Arnheim ha detto che la formazione di "concetti rappresentativi" più
di ogni altra cosa distingue l'artista dal non artista.
Cosa intende Arnheim per "concetti rappresentativi"? Intende precisamente
quel modo di manifestarsi dell'eidos, della forma, grazie al quale la
struttura percepibile dell'oggetto può venir rappresentata tramite le
proprietà di un determinato medium.
E seppure ormai sappiamo per certo che ogni rappresentazione non è mai
replica dell'oggetto, in nessun modo, dobbiamo pure ammettere che la
fotografia, in qualche modo, va ad indagare aspetti della realtà nel suo
manifestarsi effettivo, se non altro per la brevità del tempo di rilevamento
e di trasduzione della realtà su un supporto. In un certo modo di fotorafare
- l'opposto dello still life - non c'è tempo per elaborazioni a priori; non
c'è tempo per filtrare l'esperienza visiva attraverso la visione del mondo
dell'artista. Ed ecco il concetto rappresentativo di Marina Giannobi: c'è
una struttura effimera, sfuggente, incorporea nella presenza/passaggio degli
esseri umani sulla terra, una gestalt inconsapevole e passeggera, sia per il
soggetto che osserva che per l'oggetto osservato, una sorta di prossemica
metafisica che ci sfugge, ma che rischia di essere essenziale. Una struttura
che può essere colta esclusivamente in un tempo brevissimo. Su questa
struttura fugace si concentra l'obiettivo di Marina Giannobi.
E proprio lei, fa bene a specificare che siamo in presenza di fotografie
reali, senza interventi di elaborazione, senza alcun trattamento
informatico, quasi a voler sottolineare il suo essere testimone impassibile
di un'artificio della realtà che si compie malgrado lei.
Della rilevazione di questo artificio dobbiamo esserle grati, come si è
grati a chi ci mostra un miracolo. Artefici di questo L'assenza presente
miracolo sono le presenze di coloro che hanno diviso con noi, con lei, la
vita senza che ce ne siamo accorti: sconosciuti compagni di viaggio,
presenze in un bar, spettatori con cui abbiamo condiviso uno spettacolo....
tutto quell'altro da noi che la sorte ci ha accostato senza che potessimo
con questa alterità avere un contatto reale.
In questo senso, in questa mancata relazione si compie il "delitto" di
vivere senza avere relazioni, e a questo delitto Marina Giannobi vuole porre
rimedio, ritornando metaforicamente sul luogo, e recuperando l'esperienza
perduta, la conoscenza sfuggita, l'esperienza mancata .
In questo senso le sue fotografie si collocano a metà strada nella polemica
tra associazionisti e gestaltici: c'è una esperienza visiva globale, non
derivata dai dati di sensazioni parcellari e distinte, ma c'è un "ritornare
su luogo del delitto" (dove il delitto è l'inconsapevolezza dell'esperienza
visiva) e riesaminare proprio quegli elementi che sono entrati a far parte
della gestalt senza aver fatto parte dell'esperienza visiva cosciente mentre
tutto accadeva.
In questa vita rivissuta non c'è ripensamento, ma solo ridefinizione,
isolamento del dettaglio. C'è il riuscitissimo tentativo di recuperare
quello che è (s)fuggito: la traccia di un transito, l'aura di una presenza,
i fotoni che un movimento rapidissimo avrebbe dissipato per sempre.
E in questo dare dignità all'effimero di un comparire o di un permanere
qualunque in un giorno qualunque, in questo indagare le "presenze di minor
rilievo" come ama dire lei, in questo porre l'accento sul "non corpo" delle
tracce dell'uomo c'è l'intuizione tangibile: noi non siamo il corpo, non
siamo "solo" il corpo; Lo dicono gli inconsapevoli attori/comparse delle
riprese di Marina, volutamente scelti oltre il primo piano, oltre ciò che
attrae l'attenzione, oltre l'ovvio, quindi. Lo dicono trasfigurandosi. Lo
dicono ricordandoci che il nostro è un fugace passaggio, ma che questo
fugace passaggio rivela un'essenza, un'incorporea forma che piacerebbe a
Charles Leadbeater e ad Annie Besant.
Ha scritto benissimo di lei Delilah Gutman dicendo che nelle sue opere
"l'essere è il divenire e il divenire l'essere". Così nasce il suo
personalissimo modo di ricordare, fermando il movimento di chi non c'è più,
non c'era, forse non c'è mai stato come effettiva presenza, come res
extensa, ma solo come espressione cinetica e palpitante del divenire
incessante, come unico apodittico testimone del fatto che in ogni vita, in
ogni momento, in ogni frammento quantico del nostro essere qui, tutto
cambia, ma anche tutto rimane.
Marco Vimercati, febbraio 2001
Inaugurazione: giovedi 19 aprile ore 19
Mentelocale, Palazzo Ducale, Genova