Il silenzio - un poco quasi molto. Le fotografie di Ingar Krauss ritraggono adolescenti, lavoratori, bambine spaurite di un'epoca che pensavamo lontana; lavoratori come quelli fotografati 100 anni fa. Flavio Favelli ricostruisce luoghi anacronistici, ancor piu' obsoleti di foto d’epoca perche' hanno perduto la loro funzione oltre che la loro aura. Intreccio di memoria e di esperienza vissuta, di pratica filosofica e di artigianato sapienziale, le opere-oggetti di Andrea Anastasio vivono al confine tra design e arte. A cura di Sergio Risaliti.
Il silenzio - un poco quasi molto
a cura di Sergio Risaliti
Opere di Andrea Anastasio, Flavio Favelli, Ingar Krauss
Le fotografie di Ingar Krauss documentano l’arretramento del tempo di posa
fino a un punto molto distante da noi. Fotografa dei sopravvissuti. Alla
fatica, disumana del lavoro, del progresso, dell’abbandono di un luogo o
di una condizione di precedente innocenza e felicita'. La fatica, il peso
di vivere e il disincanto. Forze traumatiche che scolpiscono dal dentro e
dal fuori il soggetto, disumanizzando i corpi e lo spirito. Sopravvivono i
lavoratori ad un’epoca che sembra dimenticarsi ancora una volta di loro,
cosi' come si dimenticano i drammi dei figli minori, le ferite di una
fanciullezza disarmata. Cosi' una grande verita' si nasconde dietro il
silenzio, dietro l’afasia e la malinconia, la morte della voce e
dell’anima. Sopravvivono pero' gli sguardi. Nei corpi, nei gesti, sotto i
vestiti e le uniformi. Sguardi che trafiggono e percuotono pur utilizzando
armi silenziose e non violente. Esistono le pose, che parlano sottovoce ma
con grazia o con vigore. Poesie e sguardi spiazzanti e spaesanti.
Inaspettatamente qualcosa che sembra appartenere al passato sopraggiunge
colpendoci dritti al cuore e ci risveglia dal torpore pur mantenendosi ad
una certa insopprimibile distanza. In corpi modellati dal lavoro la posa
sopravvive come un frammento classico tra le rovine. Adolescenti.
Lavoratori. Bambine spaurite o dolcemente pietrificate. Di un’epoca che
pensavamo lontana. Lavoratori come quelli fotografati cento anni fa.
Pensavamo che non esistesse piu' questo mondo. Come se l’aura non
sopravvivesse al moderno. Ne' l’innocenza pulcherrima dell’infante. Krauss
impone il silenzio dell’aura e dell’innocenza. Egli fotografa sempre
l’aurea bellezza dell’uomo, una superiore dignita' degli ultimi
sopravvissuti alla perdita violenta della sacralita'.
E’ come se mi voltassi sempre indietro, ha scritto una volta Flavio
Favelli. Racimolatore di cose passate, di resti, di scarti e frammenti,
tanti pezzi di una memoria non solo personale. Ricostruisce non solo cose
ma luoghi anacronistici, ancor piu' obsoleti di foto d’epoca perche' hanno
perduto la loro funzione oltre che la loro aura. E su questo doppio
registro, funzione e aura, egli lavora, rimettendo a posto i pezzi e
cercando di ricostruire una frase interrotta solo poco tempo fa. Quella
frase che l’autore va cercando da sempre, non per far ripartire il flusso
della coscienza e quello della scrittura (il corso del progresso,
l’evoluzione dell’arte), quanto piuttosto per far spazio (raumen) alla sua
fulminante capacita' di ri-strutturare un pezzo di passato nel tempo
perduto di oggi. E un tempo di ieri nello spazio di oggi (raumen). Tempo
che si perde e si sottrae al soggetto post-moderno, in quanto questo
soggetto vive come uno smemorato patendo gli effetti della
globalizzazione. Il materialismo anacronistico di Favelli, efficiente nel
restauro fino alla correttezza filologica, restituisce alle cose aura
reinserendole non solo come immagini, mnemoniche, ma come strutture,
funzionali, e anche viceversa. La funzione mnemonica e la memoria della
funzione, ricomposte dagli scarti e dal pulsare dei flash-back, permettono
all’opera (e al riguardante-fruitore) di riallestirsi nel mondo dell’arte
e della vita come macchina del tempo. Tempo ritrovato, ma anche
reinventato, che entra in gioco nel doppio universo della vita, (vita di
relazione), e dell’arte, (environment di rammemorazione). Mantenendo una
politica distanza dal feticismo e dal culto dell’archeologia. Mai Favelli
pensa alla restituzione della memoria come riesumazione, quanto semmai
come remi-niscenza dialettica. Proponendo al soggetto un luogo in cui
ricostruire un suo rapporto con l’arte e la vita attraverso il gioco di
relazioni e rammemorazioni.
Intreccio di memoria e di esperienza vissuta, di disciplina e di ascesi,
di pratica filosofica e di artigianato sapienziale, le opere-oggetti di
Andrea Anastasio vivono scopertamente al confine tra design e arte. Una
serie di vetri, caraffe e calici di vetro, leggeri e diafani come bolle di
sapone, replicano quasi esattamente vetri d’epoca ritratti dal vero da
pittori olandesi del Seicento. La classica Vanitas, della natura morta,
qui esibisce un supplemento iconografico inedito quanto inaspettato. Una
sorpresa non eclatante, ne' scioccante, ne' spettacolare. Uno scarto dalla
fonte prima e dalla realta', che quasi passa inosservato. I calici e la
caraffa sono sigillati da un tappo di vetro sottile come un’ala di
farfalla. Qui lo scarto, dall’immagine dipinta, dall’icona, e dall’oggetto
funzionale, sottende la sua distanza critica dalla post-moderna citazione,
iconografica o concettuale, restituendo al ready-made iconografico una
valenza intellettuale e performativa originaria. Di mossa metafisica e
fisica ad un tempo, di gesto politico e alchemico. Declamazione e prova
oggettivata dell’arte come di un processo di incubazione e trasformazione
della materia e dell’immateriale, di una pratica che spostando e
spostandosi su universi e dimensioni anche opposte e incommensurabili puo'
con quasi niente inclinare il corso degli eventi prestabiliti. Declinando
anche al futuro la comprensione delle cause originali. La strategia
conscia o inconscia, l’ispirazione carismatica. L’ artificio e' gesto della
mente e del corpo, ma di una mente e di un corpo che in certi casi
partecipano di altre e alte sfere, come menti platoniche o corpi celesti.
L’opera di Anastasio (piccoli bastoncini d’incenso incapsulati in una teca
di vetro) infatti ci ricorda che siamo non polvere ma soffio e luce,
fiamma e alito, che bruciamo e viviamo nel tempo infinito e ininterrotto
della natura universale: nel cui ordine visibile e invisibile materia e
spirito sono realta' omogenee e comunque parziali. Dato che qualcosa di
indicibile, poi resta.
Certe opere appaiono come sopravvissute. Dietro di loro sorgono ancora le
rovine del moderno. Esse stesse accusano fragilmente questa condizione
malinconica. Grava su di esse, quasi una condanna epocale, il silenzio.
Altre ci guidano alla ricostruzione dei nostri pensieri moderni attraverso
uno spaesamento mnemonico e funzionale. Ci sono poi opere che poeticamente
si attrezzano in modo che la poesia appaia scomparendo la forma e che
questa si manifesti scomparendo la funzione prestabilita dal contesto.
Queste opere silenziosamente si rivolgono altrove, dovunque ancora sia
possibile un dialogo tra l’uomo e la natura, tra noi e il divino.
Sopravvivendo, clandestinamente a bordo della civilta' globale, certi
artisti celebrano piuttosto il poetico silenzio del linguaggio moderno
(Wittgenstein) che una riconquistata performativita' sociale ed economica
delle forme. Sono ancora sensibili all’ aura del sentimentale, alla
potenza di un modo di sentire e dire che oggi appare anacronistico. Fatto
piu' di poesia che di certezza. Come espressione recondita di una
sensazione o di un pensiero nella cui aura le opere appaiono immergersi.
Come le case o le persone che a sera si riproducono nello specchio di una
pozza incontrata per strada esse vivono di un’altra vita. Di un tempo
perduto.
Silenzio e malinconia sono molto piu' anacronistici del medium reinventato.
Anzi, sono il medium anacronistico per eccellenza da utilizzare e forzare
pur di intrattenere e trattenere ancora un discorso e una relazione con
l’aura. Reinventandola e ritrovandola, come si fa con certi luoghi e volti
(il volto dell’altro, del divino, della natura, il volto delle citta' e dei
luoghi familiari etc.). Il silenzio d’altronde e' anche una forma dello
spazio e del tempo che solo il vaso dell’opera, il medium dell’arte, puo'
raccogliere e contenere. Per intero, in parte, ricostruendone la forma
rovinata e fatta a pezzi, frammento con frammento, raccogliendone i resti
e gli scarti, i pezzi e le ceneri. Il silenzio, un poco quasi molto, di un
paesaggio con rovine. Proiezione post-moderna di quell’insopprimibile
distanza che per Benjamin e' l’aura, un modo di essere a cui e' stato
condannato il medium poetico dell’artista da quando la civilta' della
riproducibilita' tecnica e' totalmente impegnata a ricostruire citta' e
villaggi globali, affidandosi totalitaristicamente al mezzo di
comunicazione di massa. Opponendo alla silenziosa potenza dell’arte
poetica, la necessita' pragmatica, tecnicistica, finanziaria, di forme
sempre piu' comunicative, sempre piu' veloci e commisurabili, scambiabili,
reinvestibili.
Spinte dal progresso in direzione opposta a questo paesaggio con rovine,
queste opere sono come l’angelo di Klee. Si voltano, come volessero
fermarsi per ricomporre in un’ immagine quello che indietro appare essere
solo rovina e frammento, ombra e simulacro . Trovandosi pero' in un mondo
presente che e' gia' un mondo perduto e da ricercare. Un paesaggio che gia'
da adesso e' paesaggio con rovine. Perche' questa e' la condizione di
emergenza e di disastro in cui comunque viviamo. Paesaggio con rovine e'
questo luogo della memoria e del presente, del rimosso e del perturbante,
del mito e della realta' quotidiana. Luogo del lavoro e del puer, luogo
recondito e criptico, luogo del reale e dell’invisibile. Qui, adesso,
ieri, molto tempo fa. E forse proprio questa doppia realta' estraniante,
ieri e oggi, e' cio' che ci sorprende e ci scuote dal torpore percettivo e
dall’oblio.
Immagine: Ingar Krauss
Opening 18 gennaio 2007 ore 18.30
Quarter Relocated
Quartiere San Salvario, Largo Saluzzo, 35 - Torino
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