La mostra e' animata dalla vena visionaria del pittore e autore di segni calligrafici Pier Luigi Rinaldi e da quella macchinica dello scultore, disegnatore e acquarellista Stefano Grattarola. Testi di Viana Conti.
Stefano Grattarola / Pierluigi Rinaldi
Una doppia personale, il confronto tra due potenti e sorprendenti immaginari. È il filo conduttore della mostra “Orizzonti Immaginari”, ultima creatura dell’Architetto Bruna Solinas, direttrice della Galleria d’Arte Artrè di Genova (piazza delle Vigne 28r, 010/2514448). Giovedì 21 giugno 07 alle ore 18 l’appuntamento è infatti con il vernissage dell’esposizione animata dalla vena visionaria del pittore e autore di segni calligrafici Pier Luigi Rinaldi e da quella macchinica dello scultore, disegnatore e acquarellista Stefano Grattarola. I paesaggi astratti e gli “ideogrammi” del primo e le Macchine inutili del secondo costituiscono per il pubblico una seducente occasione di collezionismo e uno stimolante approccio alla storia e alla contemporaneità.
“La materia –dice la critica Viana Conti a proposito di Grattarola- in quindici anni della sua attività di scultore, dalle pietre dorate di Finale e Vicenza ai marmi bianchi, neri, rosa, rossi, ai cristalli, al silicone, al legno fino al bronzo, non ha segreti per questo artista, come non ha segreti la lavorazione tecnica, fatta di bocciardature, levigature, tagli, rilievi, concavità, scanalature. Per questo motivo, tra un simposio internazionale e l’altro, alle Cinque Terre o ai confini del globo, Grattarola si concede l’intermezzo poetico-sperimentale di lavorare a rilievi e ritagli di carte, veline, cartoncini bianchi e colorati”.
Quanto a Rinaldi, dice invece “La mostra si articola in sette opere e forse il numero non è scelto a caso: due paesaggi, dove rapidi tocchi di arancio sommuovono impasti materici di terre d’ombra, Siena bruciata, ocra naturale; due opere astratte, di cui una giocata sulla sua tavolozza cromatica e l’altra sull’intersecarsi delle forze dominanti del bianco e nero; tre Calligrafie bianche su fondo nero, la cui istantanea icasticità sembra voler congiungere il cielo alla terra”.
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Pier Luigi RINALDI
Tra il moto browniano della materia e la calligrafia dell’indicibile sembra muoversi la pratica pittorica di Pier Luigi Rinaldi, un artista talmente immerso esteticamente, emozionalmente e spiritualmente nella ricerca delle zone d’ombra e di luce dell’essere da divenire terminale sensibile di pulsioni del profondo. Nel suo sferzare spatolate di olio su tela o carta accade come se tutto il suo essere fisico, psichico e spirituale fosse attraversato da una corrente irrefrenabile che lo impegna in un’urgenza espressiva quasi liberatoria e catartica. Un automatismo impulsivo del gesto lo porta a esiti d’intensità chiaroscurale e di potenzialità visionaria.
Le superfici diventano schermo di proiezioni interiori attraverso spinte creative che organizzano il caos della materia in pagine fluide, ma di forte tenuta strutturale. La lettura delle sue modalità pittoriche non può prescindere dagli anni della sua formazione a Torino, dalla frequentazione e dialogo con Michel Tapié, il grande teorico dell’Art Autre ed estimatore delle calligrafie orientali, dalle sue passioni e ossessioni, dalla capacità di analisi dei testi sacri della pittura e del luminismo del Cinquecento e del Seicento, sino agli esiti della ricerca linguistica del Novecento e del contemporaneo. Dopo gli esordi espositivi, negli anni Cinquanta, si impegna progressivamente nella ricerca e nella sperimentazione, pervenendo a una pratica gestuale e luministica che si combinano in una tessitura di microeventi costruttivi e distruttivi, con andamento e ritmo unitario.
Talvolta si avverte la ricerca di un centro implosivo verso cui tutto converge o esplosivo da cui tutto si diparte, più sovente la superficie si dà come illimitata, animandosi da sinistra a destra, dall’alto in basso e mantenendo una tenuta sorprendentemente coerente. Non c’è fragilità nell’impianto compositivo, ma forza ed energia. Interessante è analizzare il momento gestuale dell’opera di Pier Luigi Rinaldi e quello luministico, la motivazione sottesa all’opera e i divaricati esiti pittorico e scritturale. Ineludibile per l’artista è il confronto con la visionarietà e la qualità della luce delle opere di Rembrandt, Seghers, Tintoretto, Turner, venendo a tempi più prossimi con l’Espressionismo astratto di Hofmann, con gli oscuri andamenti plastici di Rouault e Sironi, con le inquietanti calligrafie di Michaux e Tobey.
Ogni sua opera pittorica confronta l’osservatore con una spazialità cosmica che lo circonda e con una spazialità microcellulare che lo abita. La mostra si articola in sette opere, e forse il numero non è scelto a caso: due paesaggi, dove rapidi tocchi di arancio sommuovono impasti materici di terre d’ombra, Siena bruciata, ocra naturale; due opere astratte, di cui una giocata sulla sua tavolozza cromatica e l’altra sull’intersecarsi delle forze dominanti del bianco e nero; completano la mostra tre Calligrafie bianche su fondo nero, la cui istantanea icasticità sembra voler congiungere il cielo alla terra.
Nell’aprile del 1973, presentando una sua personale dal titolo Opere Recenti a Torino, Michel Tapié scrive: Nell’unicità del bianco e nero degli spazi che individua, Rinaldi scopre la strada per una ricerca indefinita, la cui potenza estetica scaturisce dall’estraneità d’inesauribili evidenze, dove è avvincente perdersi, per trovare e subire proposte, non meno evidenti, di incantamenti artistico-estetici, destinati a quegli amatori altri che noi siamo divenuti. In sintonia con il testo del teorico francese, così Edoardo Sanguineti legge il suo lavoro: Un’arte che per un verso confina storicamente con le più provocanti esperienze di ordine gestuale, e per altro verso, spontaneamente, si compone in solenni e robuste cadenze, in vigile controllo formale. Mentre Pino Mantovani rileva, di volta in volta, nell’analisi del pittore, il versante erotico, errante, mistico, Zen, occidentale, iconico, calligrafico, Francesco De Bartolomeis vede nelle sue astrazioni la concretezza di pensieri, emozioni, sensazioni, di cose viste o sognate o desiderate.
Pervadente, ma sublimato, l’eros che s’accompagna al senso della morte. Non meno puntuale è Mirella Bandini nell’affermare che I suoi dipinti si articolano secondo elementi insiemistici o di ripetizione…eppure – annota Giuseppe Mortara – una nota pare accompagnarci nella nostra partecipazione a tutte le sue cromie di olii e acrilici, ora accese e vibranti, ora tenui e rarefatte, o essenziali e immaginarie, ovvero un sentore di finissima esattezza e molteplicità calviniane proteso alla ricerca dell’Assoluto, dell’Incommensurabile. Massimo Centini scrive che È certamente molto significativo che numerose delle opere di Rinaldi rappresentino dei paesaggi: forse territori scaturiti dal dedalo dell’immaginario o forse mediati attraverso il filtro di un sentire lo spazio che, pur avendo il proprio incipit nella realtà, si ricostruisce negli occhi dell’osservatore.
Come i Grattage di Mario Deluigi, grande artista e pensatore scomparso nel 1978 a Venezia, le concertazioni sinfoniche dei segni rinaldiani traggono la qualità adimensionale del loro spazio pittorico dal flusso musicale. La precipua connotazione del lavoro di Rinaldi si ritrova nella coesistenza di elementi conflittuali come il bianco e il nero, l’horror vacui e l’amor infiniti, l’istantaneità del segno calligrafico e la meditazione che precede il corpo a corpo con la pittura, il senso della caduta e quello della resurrezione di ascendenza dostojevskijana, il rumore del caos e l’armonia delle sfere celesti. Paradossalmente le opere in cui Pier Luigi Rinaldi tocca gli abissi della notte più fonda diventano sorgenti di luce.
Viana Conti
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Stefano Grattarola
Macchine desideranti_Macchine deliranti
Umana e urbana bestialità quella con cui Stefano Grattarola (Genova 1969) non cessa provocatoriamente di confrontarsi, ideando le sue belliche, ludiche e immaginifiche Macchine inutili, definizione che ci riconduce immediatamente al mondo, allo spirito e ai geniali congegni del grande artista e designer scomparso Bruno Munari. La materia, in quindici anni della sua attività di scultore, dalle pietre dorate di Finale e Vicenza ai marmi bianchi, neri, rosa, rossi, ai cristalli, al silicone, al legno fino al bronzo, non ha segreti per questo artista, come non ha segreti la lavorazione tecnica, fatta di bocciardature, levigature, tagli, rilievi, concavità, scanalature.
Per questo motivo, tra un simposio internazionale e l’altro, alle Cinque Terre o ai confini del globo, Grattarola si concede l’intermezzo poetico-sperimentale di lavorare a rilievi e ritagli di carte, veline, cartoncini bianchi e colorati, assemblati e sovrapposti con una libertà creativa e inventiva che, se da una parte rimanda agli irrinunciabili giochi infantili con i Lego, dall’altra non può non richiamare all’evoluzione dell’immaginario macchinico dell’umano, dal Medioevo ad oggi. Può stupire che al tramonto dell’era industriale, in pieno clima telematico-cibernetico, un artista attivi un immaginario ingegneristico in grado di inventare dispositivi potenzialmente pronti ad azionare rondelle, ruote dentate, assi di trasmissione, ingranaggi, o a far decollare dai loro piedistalli incredibili creature alate, mentre in realtà questo parco, di tanto complessi quanto eleganti congegni, è destinato a un gioco solo mentale e a uno scenario esclusivamente estetico.
La mancata funzionalità e quindi l’inutilità delle macchine fantastiche di Stefano Grattarola diventa l’esercizio costruttivo/decostruttivo dell’artista inteso quale Homo faber, quale Artifex, leonardescamente impegnato sul terreno dell’utopico, del surreale, dell’onirico e del fantascientifico. In questa stessa direzione è da intendersi la lettura di Roberto Baghino quando scrive: Le macchine inutili di Grattarola, sculture e disegni, col loro mutismo, col loro aspetto bellico e ludico, ci costringono in uno spazio in cui, dopo l’angoscia iniziale, avvertiamo il desiderio di ritornare a quella intimità perduta, e a quella utilità dell’inutile intesa come utilità della creazione e dell’amore.
Più orientata verso un’avventura interiore è l’interpretazione di Massimo Gargioni quando osserva che, facendo seguire alle Macchine inutili improbabili Prove di volo, non sorprenderebbe se Grattarola, nel caso fosse davvero in grado di volare, si limitasse ad una perlustrazione aerea dei luoghi più vicini e più noti, nella consapevolezza di un proprio bisogno di arte inestinguibile, finché inesauribile resta il malessere esistenziale. Nell’ipotesi di Paolo Ronzitti poi l’artista sembra suggerire: Riprendiamoci il possesso del nostro fare quotidiano per vincere il sentimento di impotenza rispetto alla realtà, che sarebbe il peggiore dei nichilismi possibili. Gli fa eco l’affermazione del filosofo Paul Virilio, nel libro significativamente intitolato L’incidente del futuro:
In una civiltà in cui il fondamentalismo tecnoscientifico sta trasformando la realtà in telerealtà e la democrazia in telecrazia per cittadini infantilizzati, gli adepti del Progresso, pericolosa banda di nani afflitti da gigantismo, avrebbero abbracciato una concezione del Mondo scientificamente ingenua, dove il positivismo sarebbe diventato un nichilismo mascherato e la crescita una decrescita. In un panorama informatico globalizzato in cui l’immagine della realtà sembra aver preso il posto della realtà, in cui la materia sembra essere entrata in un processo irreversibile di smaterializzazione, Stefano Grattarola, nelle sue ipotesi di germinazioni abnormi e di mostri della velocità su terrra-acqua-aria, smitizzando, tra il serioso e il divertito, anche i prodigi deliranti dell’ingegneria genetica, mette in mostra quelle Macchine inutili, inoffensive perché armate solo di poesia e fantasia, che il suo immaginario d’artista ha generato per strappare a chi guarda un moto di meraviglia e un sorriso.
Viana Conti
Inaugurazione 21 giugno 2007
Galleria Artre' Bruna Solinas Arte Contemporanea
Piazza delle Vigne, 28r Orari: 15-19, lunedì-sabato
Ingresso libero