Ex Centrale Enel
Piacenza
via Nino Bixio 39

Tino Petrelli fotografo
dal 21/9/2001 al 4/12/2001

Segnalato da

barbaro



approfondimenti

Tino Petrelli



 
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21/9/2001

Tino Petrelli fotografo

Ex Centrale Enel, Piacenza

Mostra antologica. Il ritratto che Petrelli ha dato della sua opera, in questa occasione, sembra orientato a ampliarne la lettura. Si tratta infatti di una vicenda vasta e articolata ma coerente, un narrare e costruire storie dal 1937 alla meta' degli anni Ottanta, attraversando quindi gli anni del fascismo, la guerra, il dopoguerra, la ricostruzione ed il boom economico e poi la stagione dei conflitti sociali, le trasformazioni delle città e della campagna.


comunicato stampa

Il lavoro nell’Italia che cambia (1945-1970)

Quando si progetta e realizza una mostra antologica, normalmente si parte da una chiave di lettura, da un’ idea sull’opera dell’ autore, e poi si individuano le opere significative (le più "belle" ma anche quelle più dense di racconto, di storia, e non sempre le due cose coincidono) che tracciano come un profilo, un percorso in quella vicenda.

L’esposizione che si tiene a Piacenza, dove il fotografo ha scelto di vivere dal 1984, in quasi quattrocento immagini originali, di proprietà dell’autore, parte da un’idea e da un percorso progettati da Petrelli stesso che, purtroppo, non ne ha potuto vedere la realizzazione: il grande fotografo è scomparso il 9 settembre, pochi giorni prima dell’inaugurazione.

Certamente il ritratto che Petrelli ha dato della sua opera, in questa occasione, sembra orientato a ampliarne la lettura. Si tratta infatti di una vicenda vasta e articolata ma coerente, un nararre e costruire storie dal 1937 alla metà degli anni Ottanta, attraversando quindi gli anni del fascismo, la guerra, il dopoguerra, la ricostruzione ed il boom economico e poi la stagione dei conflitti sociali, le trasformazioni delle città e della campagna.

Di Petrelli, curiosamente (ma accade con la gran parte dei fotogiornalisti italiani) erano noti, anche a chi si occupa di fotografia, un numero limitato di episodi: la serie di Africo del 1948, le immagini del Polesine (quindi l’ immaginario afferente al neorealismo, con un significativo, recente revival) e poi i personaggi del dopoguerra (De Gasperi, la celebre foto di gruppo con Agnelli, Valletta, Pirelli davanti alla Bianchina) e quindi se ne aveva l’ immagine di un fotografo di cronaca nel senso un po’ riduttivo (in fondo tutto televisivo) del termine: fotografo di figure, di avvenimenti e di emergenze, di personaggi e di momenti eccezionali. E’ una chiave di lettura che forse lui stesso ha, in qualche modo, incoraggiato: parlando della sua esperienza, della vicenda della Publifoto a cui collabora dal 1937, diceva che per essere un bravo fotografo occorre soprattutto fortuna, occorre essere nel posto giusto al momento giusto, e poi partiva a raccontare i retroscena, gli aneddoti, ogni immagine era il frammento visibile di un racconto di incontri, simpatie o conflitti, aspetti delle -storie- che suscitano stupore e ulteriore voglia di conoscere. Ma la sua fotografia non era solo nella cronaca degli scatti che meglio si riusciva a vendere, era anche ricerca dilatata e intensa, approfondimento.

E’ forse per questo, oltre che per assonanza del luogo ove la mostra è allestita (i suggestivi locali della ex Centrale Enel Adamello di Piacenza, di fianco al Po e quasi sotto al ponte, negli spazi déco progettati da Piero Portaluppi all’ inizio del secolo, dove sembra di entrare dalla sala macchine del Titanic e si sale in una luminosa Metropolis) che è dato grande rilievo alla fotografia del lavoro, che per Petrelli è una fotografia industriale molto particolare. Vediamo così le immagini delle miniere sarde, di Cortemaggiore, della Guzzi e della Piaggio, della Salvarani, e cogliamo subito un approccio particolare, che stacca la sua opera da quella, per esempio, degli atelier specializzati degli anni dai Trenta ai sessanta, come i Villani di Bologna, i Vaghi a Parma, i Vasari di Roma.

Petrelli usa, come gli altri operatori, il grande formato di ripresa (lo vediamo in alcune foto con le classiche Linhof Technika, lo strumento canonico per questo tipo di lavoro) e si attiene ad alcuni dati del -genere- (la definizione e la leggibilità sempre altissime, le riprese in asse con le linee di produzione, l’ attenzione al gesto del lavoro, l’ evidenza della quantità produttiva) ma poi fa come un passo indietro, produce piccoli scarti nel racconto che lasciano vedere, nelle piccole fessure del -genere- un contesto di vita civile più ampio, come se già prima di scattare ci fosse uno sguardo posteriore, che rende possibile a queste immagini una vita e una significazione fuori dallo spazio dell’ opificio, fuori dallo sguardo del padrone: nelle fotografie di Villani non vedremo mai le scocche della Vespa poggiate su un fianco sul pavimento macchiato, non vedremo mai gli operai in mensa con la bocca piena che ammiccano al fotografo o un’ operaia che solleva una lamiera a mani nude: tutto sarebbe stato riallestito, rigidamente ricomposto e prescritto, magari sulla mano dell’ operaia si sarebbe aggiunto un guanto a ritocco. Così vediamo le linee della Salvarani (primi anni Sessanta) e viene subito da pensare a quei pezzi di fòrmica, a quelle superfici laminate che andranno nelle case di migliaia di famiglie, ad un luogo che non è né del tutto falegnameria artigianale né del tutto linea di montaggio fordista, comunque sede di un cambiamento che si riflette nella vita quotidiana di tutto il Paese. Per Cortemaggiore, poi, svolge sequenze che riguardano gli aspetti industriali del "Texas padano" ma poi indagano nella vita quotidiana, punteggiata dagli incidenti, le esplosioni dei pozzi ma e poi i volti, gli spazi in cui si forma una generazione di perforatori che farà scuola in tutto il mondo.

E’ facile fare un confronto tra questa campagna e quella sulla città mineraria di Pittsburgh compiuto da Eugene Smith, modello che sembra a più riprese emergere nel lavoro industriale di Petrelli. Forse questo "sguardo lungo" non era dettato tanto da istanze di analisi sociologica quanto dal particolare ruolo, dalla particolare funzionalità che Petrelli cercava nella fotografia d’ informazione. Non va dimanticato che egli, come operatore, era una delle colonne dell’ agenzia milanese della Publifoto, il suo lavoro con qullo dei Carrese, di Meldolesi, di Fedele Toscani e di pochi altri, costruiva un modello di fotografia estremamente disponibile al montaggio redazionale, di cui si prevedevano diverse possibilità di vendita: all’ industria come al periodico, all’ organo della Confindustria come all’ organo sindacale.

E’ forse qui uno dei nodi importanti della fotografia italiana di cronaca del secolo scorso: una consapevolezza della pluralità possibile degli usi della fotografia che non passa, però, attraverso una fotografia generica o ambigua o inoffensiva, ma attraverso una profonda partecipazione e attenzione alle capacità di racconto (potremmo dire, in modo più semplice: attraverso un lavoro durissimo, senza mollare mai sulla qualità), quello che ha permesso a Petrelli di lasciarci, in pieno regime mussoliniano e con committenza istituzionale, documenti sull’ agricoltura tutt’ altro che propagandistici, una fotografia industriale che ci fa vedere le condizioni reali del lavoro, uno sguardo sull’ Italia del Novecento su cui si potrà contare, entro cui occorrerà scavare ancora.
Paolo Barbaro

Per informazioni tel. 0523 322074

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