Mostra antologica. Il ritratto che Petrelli ha dato della sua opera, in questa occasione, sembra orientato a ampliarne la lettura. Si tratta infatti di una vicenda vasta e articolata ma coerente, un narrare e costruire storie dal 1937 alla meta' degli anni Ottanta, attraversando quindi gli anni del fascismo, la guerra, il dopoguerra, la ricostruzione ed il boom economico e poi la stagione dei conflitti sociali, le trasformazioni delle città e della campagna.
Il lavoro nell’Italia che cambia (1945-1970)
Quando si progetta e realizza una mostra antologica, normalmente si
parte da una chiave di lettura, da un’ idea sull’opera dell’
autore, e poi si individuano le opere significative (le più "belle" ma
anche quelle più dense di racconto, di storia, e non sempre le due
cose coincidono) che tracciano come un profilo, un percorso in quella
vicenda.
L’esposizione che si tiene a Piacenza, dove il fotografo ha scelto di
vivere dal 1984, in quasi quattrocento immagini originali, di
proprietà dell’autore, parte da un’idea e da un percorso
progettati da Petrelli stesso che, purtroppo, non ne ha potuto vedere la
realizzazione: il grande fotografo è scomparso il 9 settembre, pochi
giorni prima dell’inaugurazione.
Certamente il ritratto che Petrelli ha dato della sua opera, in questa
occasione, sembra orientato a ampliarne la lettura. Si tratta infatti di
una vicenda vasta e articolata ma coerente, un nararre e costruire
storie dal 1937 alla metà degli anni Ottanta, attraversando quindi gli
anni del fascismo, la guerra, il dopoguerra, la ricostruzione ed il boom
economico e poi la stagione dei conflitti sociali, le trasformazioni
delle città e della campagna.
Di Petrelli, curiosamente (ma accade con la gran parte dei
fotogiornalisti italiani) erano noti, anche a chi si occupa di
fotografia, un numero limitato di episodi: la serie di Africo del 1948,
le immagini del Polesine (quindi l’ immaginario afferente al
neorealismo, con un significativo, recente revival) e poi i personaggi
del dopoguerra (De Gasperi, la celebre foto di gruppo con Agnelli,
Valletta, Pirelli davanti alla Bianchina) e quindi se ne aveva l’
immagine di un fotografo di cronaca nel senso un po’ riduttivo (in
fondo tutto televisivo) del termine: fotografo di figure, di avvenimenti
e di emergenze, di personaggi e di momenti eccezionali. E’ una chiave
di lettura che forse lui stesso ha, in qualche modo, incoraggiato:
parlando della sua esperienza, della vicenda della Publifoto a cui
collabora dal 1937, diceva che per essere un bravo fotografo occorre
soprattutto fortuna, occorre essere nel posto giusto al momento giusto,
e poi partiva a raccontare i retroscena, gli aneddoti, ogni immagine era
il frammento visibile di un racconto di incontri, simpatie o conflitti,
aspetti delle -storie- che suscitano stupore e ulteriore voglia di
conoscere. Ma la sua fotografia non era solo nella cronaca degli scatti
che meglio si riusciva a vendere, era anche ricerca dilatata e intensa,
approfondimento.
E’ forse per questo, oltre che per assonanza del luogo ove la mostra
è allestita (i suggestivi locali della ex Centrale Enel Adamello di
Piacenza, di fianco al Po e quasi sotto al ponte, negli spazi déco
progettati da Piero Portaluppi all’ inizio del secolo, dove sembra di
entrare dalla sala macchine del Titanic e si sale in una luminosa
Metropolis) che è dato grande rilievo alla fotografia del lavoro, che
per Petrelli è una fotografia industriale molto particolare. Vediamo
così le immagini delle miniere sarde, di Cortemaggiore, della Guzzi e
della Piaggio, della Salvarani, e cogliamo subito un approccio
particolare, che stacca la sua opera da quella, per esempio, degli
atelier specializzati degli anni dai Trenta ai sessanta, come i Villani
di Bologna, i Vaghi a Parma, i Vasari di Roma.
Petrelli usa, come gli
altri operatori, il grande formato di ripresa (lo vediamo in alcune foto
con le classiche Linhof Technika, lo strumento canonico per questo tipo
di lavoro) e si attiene ad alcuni dati del -genere- (la definizione e la
leggibilità sempre altissime, le riprese in asse con le linee di
produzione, l’ attenzione al gesto del lavoro, l’ evidenza della
quantità produttiva) ma poi fa come un passo indietro, produce piccoli
scarti nel racconto che lasciano vedere, nelle piccole fessure del
-genere- un contesto di vita civile più ampio, come se già prima di
scattare ci fosse uno sguardo posteriore, che rende possibile a queste
immagini una vita e una significazione fuori dallo spazio dell’
opificio, fuori dallo sguardo del padrone: nelle fotografie di Villani
non vedremo mai le scocche della Vespa poggiate su un fianco sul
pavimento macchiato, non vedremo mai gli operai in mensa con la bocca
piena che ammiccano al fotografo o un’ operaia che solleva una lamiera
a mani nude: tutto sarebbe stato riallestito, rigidamente ricomposto e
prescritto, magari sulla mano dell’ operaia si sarebbe aggiunto un
guanto a ritocco. Così vediamo le linee della Salvarani (primi anni
Sessanta) e viene subito da pensare a quei pezzi di fòrmica, a quelle
superfici laminate che andranno nelle case di migliaia di famiglie, ad
un luogo che non è né del tutto falegnameria artigianale né del
tutto linea di montaggio fordista, comunque sede di un cambiamento che
si riflette nella vita quotidiana di tutto il Paese. Per Cortemaggiore,
poi, svolge sequenze che riguardano gli aspetti industriali del "Texas
padano" ma poi indagano nella vita quotidiana, punteggiata dagli
incidenti, le esplosioni dei pozzi ma e poi i volti, gli spazi in cui si
forma una generazione di perforatori che farà scuola in tutto il
mondo.
E’ facile fare un confronto tra questa campagna e quella sulla
città mineraria di Pittsburgh compiuto da Eugene Smith, modello che
sembra a più riprese emergere nel lavoro industriale di Petrelli.
Forse questo "sguardo lungo" non era dettato tanto da istanze di analisi
sociologica quanto dal particolare ruolo, dalla particolare
funzionalità che Petrelli cercava nella fotografia d’ informazione.
Non va dimanticato che egli, come operatore, era una delle colonne
dell’ agenzia milanese della Publifoto, il suo lavoro con qullo dei
Carrese, di Meldolesi, di Fedele Toscani e di pochi altri, costruiva un
modello di fotografia estremamente disponibile al montaggio redazionale,
di cui si prevedevano diverse possibilità di vendita: all’ industria
come al periodico, all’ organo della Confindustria come all’ organo
sindacale.
E’ forse qui uno dei nodi importanti della fotografia italiana di
cronaca del secolo scorso: una consapevolezza della pluralitÃ
possibile degli usi della fotografia che non passa, però, attraverso
una fotografia generica o ambigua o inoffensiva, ma attraverso una
profonda partecipazione e attenzione alle capacità di racconto
(potremmo dire, in modo più semplice: attraverso un lavoro durissimo,
senza mollare mai sulla qualità ), quello che ha permesso a Petrelli di
lasciarci, in pieno regime mussoliniano e con committenza istituzionale,
documenti sull’ agricoltura tutt’ altro che propagandistici, una
fotografia industriale che ci fa vedere le condizioni reali del lavoro,
uno sguardo sull’ Italia del Novecento su cui si potrà contare,
entro cui occorrerà scavare ancora.
Paolo Barbaro
Per informazioni tel. 0523 322074
Ex Centrale Enel
via Nino Bixio 39, Piacenza