Davide Frisoni, Alessandro La Motta e Mauro Moscatelli. Le opere in mostra non rispecchiano i canoni del figurativo. Gli artisti lavorano per sottrazione, senza moltiplicare gli elementi dei dipinti.
Davide Frisoni, Alessandro La Motta e Mauro Moscatelli
Si è infiltrata nella mentalità corrente un’idea di artista tanto assoluta da rischiare di essere pregiudiziale: quella per cui gli artisti, soprattutto pittori e/o poeti, siano a tutti i costi geni fuori dalla normalità, un po’ profetici e un po’ maledetti. Ma è un’idea romantica, che non tiene conto di quel crogiolo di cultura, domande, interazioni con altri artisti e travaglio artigianale da cui le opere d’arte nascono. Nel lavoro quotidiano di chi dipinge c’è infatti una fatica assai poco romantica, uno spazio temporale in cui le mani sono necessarie quanto gli occhi e la mente. Infine un artista, contrariamente al luogo comune, non dovrebbe essere mai solo. Certo, nessuno può prenderne il posto nell’attimo (lungo) della creazione.
Ma il prima e il dopo dell’arte non contemplano solitudine: la vecchia affermazione dell’artista che dipinge per se stesso (o del poeta che scrive per se stesso) è una sciocchezza e, qualora si verifichi, il prodotto risulta insignificante. Da questo insieme di impegnativo lavorìo pittorico e conversazione ininterrotta, quasi un’amicizia culturale, nasce il lavoro di un gruzzolo di pittori riminesi, Davide Frisoni, Alessandro La Motta e Mauro Moscatelli, che per comodità si è voluto chiamare “versante adriatico” della pittura contemporanea. Non è un movimento artistico strutturato, alla maniera novecentesca, con una poetica forzatamente unitaria: basterà osservare le opere per rilevare la diversità stilistica di ognuno.
Eppure un nucleo c’è e risponde esattamente alle caratteristiche di dialogo e serietà del lavoro di cui sopra, le cose che probabilmente possono aiutare a far uscire l’arte contemporanea (e la sua critica) dallo stallo solipsistico, emozionale e prezzolato in cui s’è ficcata. I tre pittori in questione non si limitano a dipingere, pur passando la maggior parte del tempo a fare esattamente questo: mettono in ballo il lavoro tra di loro e con molti altri, si confrontano, criticano, sostengono, correggono e giudicano tutto il resto (le mostre, gli scritti d’arte, la tradizione) alla luce di quella che chiamava una conversazione ininterrotta. 2. Frisoni I paesaggi di Davide Frisoni sono già conosciuti dal pubblico. In queste opere un apparente verismo sembra farla da padrone. In più la luce sta assumendo un ruolo sempre più importante e rivelativo; essa arriva da ogni dove, è sorprendente e in continuo movimento, come si nota guardando con un minimo di attenzione gli asfalti. La luce è una presenza a prima vista multipla e lussureggiante, il punto di partenza della vista e il suo probabile approdo.
Sembra qua un’invasione che potrebbe venire persino da un cielo nuvoloso, per diffusione assoluta, altrove uno schiaffo che squarcia la notte da un fanale, oppure un serpente che pare strisciare nella scena per occuparne il posto in primo piano, come in tanti asfalti appunto. Il destino dei quadri di Frisoni e di tutti i quadri del mondo è presumibilmente quello di diventare tutta luce, ma forse non è proprio così. Il pittore sembra sapere che la luce in sé non è nulla, senza l’oggetto da illuminare e anche quello da cui viene. Qui sta per Frisoni la questione. Si è già detto altrove che questo pittore ha una sfacciata fiducia nella realtà. In essa, ci dice, c’è già tutto, accade tutto quello che deve accadere. Si tratta di una posizione spudoratamente materialista, in cui l’occhio dell’artista si è assunto la missione di scandagliare con estrema fedeltà il dato visibile.
E’ lì, nelle sue pieghe a cui nulla deve essere aggiunto, che la realtà rivela se stessa. Si scopre così che la luce non viene dalle cose, e in questo raddoppiamento di elementi, luce-realtà, in questo dialogo che può anche essere combattimento si realizza il cuore di questa arte. Frisoni non chiederebbe mai a una sua opera: “Perché non parli?”. Gli basti che parli il mondo e da quella parola che scopre fissandolo aspetta che anche i suoi quadri parlino, si muovano, diventino fluidi e forti come il modo in cui è usato il colore, la cui matericità è assorbita dall’insieme. E, a ben guardare, questa cosa avviene, i quadri non hanno fissità e il loro verismo è falso, il materialismo metafisico; a ben guardare, si potrebbe vedere qualche movimento del traffico o un riflesso luminoso che balena... 3. La Motta Per questa serie di volti Alessandro La Motta ha scelto una specie di rudezza del tratto, di fermezza della mano nel tracciare e persino nel cancellare.
Così le figure emergono dal bianco della tela come esprimendo uno sforzo un gesto eroico come l’epoca da cui quasi tutte vengono. L’agone che ne scardina la fissità è del bianco con se stesso, mentre i colori sono come ombre che si rendono visibili in maniera discreta eppure finiscono col vincere, dando il carattere generale e finale ad ogni dipinto. Mentre le statue classiche fissano, appunto classicamente, un personaggio, un mito, un gesto, i quadri di La Motta percorrono allora la strada diametralmente opposta: cercano di dare movimento a ciò che è fisso, sangue al marmo, vita alle statue. In realtà ciò assomiglia a quello che anche gli antichi facevano nel momento in cui coloravano le loro statue di marmo, che a noi sono giunte bianche solo perché il tempo ha portato via i colori; tant’è che in alcuni reperti l’ombra di quei colori ha resistito fino a noi e ancora di racconta di ciò che dovevano essere in origine.
Ma il discorso è profondamente culturale e storico: mettere le pupille negli occhi bianchi di una statua o il sangue che scende come una illuminazione sui corpi immobili dei giganti intende volontariamente risvegliare una tradizione, attraversare con un colpo di pennello decine di secoli e letteralmente suscitare un senso del mondo e dell’uomo sopito sotto le coltri del tempo. Non è neoclassicismo nel senso comune del termine; non si tratta cioè di riprovare una perduta armonia, un’altezza di stile e di dettato a cui potremo tornare solo dopo molta fatica, un classicismo di cui capiamo di più l’astrazione che le opere, oggi come oggi. Non è un caso che certe statue siano decapitate o certi tratti cancellati da una spugna intrisa di fango bianco. Ma di una nostalgia sì: la stessa, probabilmente, del riflesso rossastro nelle fontane di Piazza Navona così come si vede in Scipione, ad esempio. Nostalgia, cioè, che la vita torni vita, che l’idea riprenda corpo, si incarni di nuovo in qualcosa che è sacro, dopo la terribile lotta in cui siamo ancora immersi. 4. Moscatelli L’ossessione di Mauro Moscatelli è la compiutezza, nel senso del riempimento di tutti gli spazi, del completamento del catalogo di tutti gli elementi che un’immagine richiederebbe.
Questi volti lo mostrano evidentemente: formano una serie che è, sì, un passaggio verso la compiutezza di futuri ritratti, ma essendo già essi un “periodo” ormai maturato ed esperito, continuano a dare questa precisa indicazione: la paura di aver detto tutto. Per questo non abbiamo affatto garanzie che arriveremo ai ritratti compiutamente dipinti, con tutti i loro colori e il loro disegno bene a posto. Le fasi precedenti di Moscatelli sono quella delle terre e quella dei cieli. Anche lì mancava sempre qualcosa: nelle terre, ad esempio, quadri spesso assai grandi e dipinti con una cura per ogni singola zolla che quasi avreste detto che fossero stati zappati sulla tela stessa, la presenza di un legnetto o un rivolo d’acqua erano un’autentica epifania, un’irruzione inaudita, ospiti quasi sgraditi. La precisione e l’estrema bravura tecnica di questo pittore sono proporzionali alla vaghezza del racconto, al probabile terrore per la figura di un artista figurativo. La cosa peggiore per Moscatelli è che di una sua tela si possa dire tutto. Che tutto finisca lì, in un’immagine la cui narrazione sia esauriente nello spazio dell’essere guardata.
Per sfuggire a questa autentica disdetta, lavora per sottrazione, senza moltiplicarne gli elementi. Si potrebbe quasi immaginare il pittore che ad un certo punto, mentre dipinge, passa il pennello ad un ipotetico spettatore e gli dice: “Ecco, continua tu”. In questa posizione apparentemente fragile e manchevole stanno una forza, una drammaticità e una libertà uniche. Nei quadri di Moscatelli si attua la perfetta ironia che sta nel distacco dalla presunzione di finire l’opera individualmente, la discrezione di un ascolto del proprio lavoro che inizia prima del quadro e finisce dopo. Altro che autoreferenzialità dell’artista e vittoria nichilista del calcolo! Le opere di Moscatelli sono aperte perché il dolore di chiuderle definitivamente equivarrebbe a una morte che assolutamente non si desidera. 5. Conclusione La definizione “adriatica” di questo gruppo di pittori non è solo squisitamente geografica. L’Adriatico è il nostro mare orientale, da lì sorge per tutt’Italia il sole. Forse è una metafora troppo facile trovare nel risorgimento del problema della luce e del colore un motivo d’unione tra i tre nostri artisti.
Ma è un fatto che il rapporto con la luce e con la figura è vissuto drammaticamente, senza indulgenza verso una troppo facile riscoperta contemporanea del ruolo della figura stessa. La pretesa di tutti è che le immagini non stiano fisse: si coglie facilmente, ad esempio, il parallelismo tra le colature di colore ben chiare in Moscatelli e La Motta, il gesto talvolta ondulato e sinuoso che accomuna Frisoni e Moscatelli fin dentro la maggiore verosimiglianza, la consistenza concreta del materiale che colore le opere di La Motta e Frisoni e danno loro un carattere di freschezza, come se dessero costantemente l’impressione di essere appena state create. Sono in tutti e tre i casi opere che non sopportano la fissità e la narratività troppo facile del figurativo e in ciò risiede l’attrattività quasi magnetica che le caratterizza, oltre la diversità e l’originalità che distingue le esperienze di ognuno dei pittori presenti. Gianfranco Lauretano
Castello Malatestiano
Piazza Malatesta - Rimini