Collettiva
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Certi dolori, stati d’ansia e malattie, per anni, chissà quanti, hanno costretto chi ne soffriva, a vivere in condizioni di isolamento o di pubblico ludibrio. In fin dei conti, fino a che la scienza non si è fatta moderna, il riconoscimento degli stati psichici non solo non veniva affrontato nei termini clinici di oggi, ma era sinonimo di presenze diaboliche e malvage, che penetrando nelle carni degli individui considerati più deboli e bizzarri, si impossessavano della loro mente e dei loro stati d’animo fino a permearli di quel virus di infernale follia che li avrebbe resi per sempre degli esseri pericolosi e abbietti. Poi, per fortuna, le cose sono cambiate, e se anche la suggestione di tali presenze condiziona ancora la percezione di molti, ciò che possiamo sostenere è che certi pregiudizi non sono solo caduti, ma che la patologia rientra in un modello di vita normale e quotidiana.
Se pensiamo al mondo dell’arte poi, bisogna tenere presente l’interesse che certi stati di disturbo hanno creato tra gli artisti, in fondo, se pensiamo anche solo al surrealismo, il capovolgimento è ancora più totale, del resto, dal momento che la follia e la mente infantile producevano un tipo di arte sgombra da impostazioni e regole accademiche e stilistiche, matti e bambini venivano considerati depositari del senso più naturale, spontaneo e assoluto della creazione artistica.
Ma qual è oggi il senso di una mostra sulle ossessioni?
Beh, innanzitutto bisogna partire dalla realtà di adesso, in cui molte sono le cose spinte all’eccesso, e in cui, specialmente, sono le modalità stesse della percezione ad essere sovrastimolate: forse, a ben pensare, l’ossessione nasce proprio da qui, dai canali di diffusione che hanno trovato una strategia vincente proprio nella ripetizione assidua dei messaggi. Eppure, al di là di tutto, il germe di questa follia circola da tempo e si diffonde anche attraverso le immagini, ed ecco il punto, l’immagine: con il Novecento, ha acquisito non solo importanza, ma proprio visibilità, una visibilità ingorda di spazio e di forme di diffusione, così, dalla pubblicità al cinema, e fino alla televisione, si è fatta icona, assumendo spesso i termini di una ossessionante ossessività.
Ora, per quanto riguarda l’arte, certo non possiamo dire che sia esente da determinati meccanismi, eppure, ciò che va chiarito, è che sempre la via della ricerca ha fatto scelte difficili e complesse, in cui la banalità di certi messaggi di sicuro non c’entra, eppure, si dirà, in quanto a immagini, icone e ossessioni, l’arte è certamente un osservatorio privilegiato, e non solo per indicare la strada scelta nell’ambito della ricerca estetica che contraddistingue la nostra epoca, ma anche perché è uno specchio ingrandente sulle tensioni dell’uomo contemporaneo.
Sesso, politica, potere, corpo, travestimento, malattia, tempo: potremmo continuare più o meno all’infinito, e certo, solo questa piccola considerazione la dice lunga sulle paure e sulle fragilità. Forse, davvero, l’ossessione si è identificata con una sorta di tormento concettuale che come un virus si è diffuso attraverso le generazioni e il tempo, permeando dibattiti e indagini estetiche fino al midollo, con la conseguenza di aver creato dei filoni tematici che qui, seppur in maniera parziale, cercheremo di ricostruire.
Ma torniamo a quel discorso sul virus, perché, abbiamo detto, di questo, in un certo senso, si tratta, e allora, prima di tutto dobbiamo parlare di Theo Gallino e Vittorio Valente, entrambi, anche se in modo molto differente, concentrati sul discorso della malattia e della sua diffusione attraverso invisibili ma potentissime particelle, virus veri e propri per Valente, pollini per Gallino, forme vitali dalla potente capacità riproduttiva… come cominciare se non da qui? La malattia oggi non solo è uno spettro terrorizzante e un potente strumento con cui tenere in tensione le masse (vedi sars, aviaria, mucca pazza etc.), ma è davvero uno degli aspetti più terribili del nostro tempo, e se certo, ogni epoca ha le sue, oggi, forse, con l’informazione e la conoscenza, è diventata una forma di terribile e dolorosa consapevolezza sociale e umana.
Ma del virus si diceva anche che si trattava di una sorta di germe concettuale che si è diffuso nell’arte: per Alzek Misheff è un discorso legato ad una gestualità ripetitiva e paradossale da cui sgorga il seme puro di una libertà che è insieme concettuale e comportamentale; Roman Opalka ne fa un discorso temporale, numerico alle volte, in altri casi legato alla disgregazione in relazione all’individuo, alla sua immagine e alla personalità; Luca Patella, tramite una ricerca estrema attraverso le molteplici possibilità linguistiche di oggi, ne parla in termini di visione e di immagine, del resto il nostro tempo non solo ne è ossessionato, ma ha generato una comunicazione basata su questi stessi assoluti, oppure, ancora, come per Vito Boggeri, l’ossessionante virus che si diffonde prende le forme del vizio, dell’abitudine malata, (in)consapevole e condizionante.
Ma il condizionamento può essere anche più violentemente drammatico quando rivela l’asfissiante dinamica della vita contemporanea, una vita che negli ambienti lacerati e scarni di Silvano Tessarollo, mescola miseria, dolore e degrado insieme all’ansia soffocante di un’esistenza, la nostra, oscura, illuminata solo dalla luce fioca di una debole ragione che tenta nella disperazione della ferita psichica e sociale di trovare un senso possibile all’esperienza.
Così, nell’ansia per la soluzione dei disastri sociali e umani, arriviamo alla politica, del resto, sembrerà strano, eppure c’è ancora bisogno di lanciare un grido dell’allarme, senza enfasi e senza false forme di buonismo popolare, basta far parlare le immagini, basta raccontare certe storie, come quelle di Mara Mayer, da anni impegnata in un reportage in grado di restituire alle foto quell’immediatezza e quell’atroce spontaneità che è nella terribile condizione di certi popoli, come quello curdo o madascio, o nella assoluta desolazione dei materiali e dei luoghi in cui si consuma un’aridità tanto geografica quanto civile e culturale.
Ma la politica non è solo questo, anzi, per molti è proprio tutto il contrario rispetto a questa possibile consapevolezza, del resto, ricordiamo, ci sono state fasi in cui erano i simboli a veicolare i contenuti, a parlare alla gente e a comunicare qualcosa, qualcosa magari anche di un po’ impreciso, eppure forte ed efficace: falce e martello, fascio littorio, pace, non c’era possibilità di equivoco, eppure oggi tutto è sottoposto all’impasto fluidificante della molteplicità, alcune cose però vanno conservate, come nel lavoro di Occhiomagico, in cui il mondo di oggi si confronta con il ricordo prezioso e delicato di questi stessi simboli, quasi tracce poetiche rispetto all’immediatezza del mondo contemporaneo.
Ma che dire allora della storia? E cosa c’entra con l’ossessione? Beh, ci sono dei casi in cui ricostruire il passato e tenerlo a mente in un discorso estetico può essere interessante, specialmente quando la cultura antica si unisce a quella attuale, come nelle armi di Antonio Riello, dove non solo l’istinto, ma più che altro la confidenza con la guerra e con i suoi strumenti può diventare addirittura fashion, oppure può essere avvolta dagli affreschi di Tiepolo o di altri grandi maestri della pittura. Ma si badi, all’inizio sembra molto divertente, poi, un po’ alla volta, messa da parte una certa ironia il discorso si fa serio e anche preoccupato.
Ma la cultura, si sa, è versatile e ampia, piena di simboli e di forme filosofiche che alle volte, come nel caso di Vettor Pisani, si uniscono ad immagini fortemente iconiche e dal grande valore storico e culturale in relazione al cammino antropologico dell’uomo moderno, oppure, ancora, succede che tradizione e percorso biblico cortocircuitino con un’indagine legata al corpo e alla sua gestualità, come per Marilena Sassi, la cui serie sulla Passione si alimenta di tutte queste tensioni, animata oltretutto da una fotografia che conserva tanto le tracce della pittura quanto della performance, così come un senso plastico tanto toccante quanto forte e poderoso.
Ma la storia è anche qualcos’altro, è un viaggio nella memoria e nel ricordo di una civiltà dal grande passato, un passato cui Maurizio Elettrico, con le sue colte e meticolose installazioni, restituisce una raffinata ed elegante preziosità, una preziosità che con Barbara La Ragione e le sue regine diventa un valore antropologico, intimo ed insieme ufficiale: il mostro, l’essere blasfemo e terribile che sempre emerge nei suoi soggetti, ha qui incontrato la storia non solo delle case reali, ma anche quella dei mondi fantastici e possibili che abitano l’uomo e che lo animano fino a travolgerlo in un turbinio psicofisico dove razionale e irrazionale plasmano tanto la mente quanto le carni.
Ma di mondi estremi, reali o fittizi che siano, l’arte sembra non averne mai abbastanza, del resto, solo tramite l’eccesso si arriva alla dolorosa scoperta della verità, solo stirando le convenzioni e cercando l’introvabile si può sperare nel possesso del reale, e poco importa se si passa per la fantasia, poco importa davvero, in fondo, senza certe possibilità non potremmo catturare il potenziale isterismo e il collerico istinto che anima le muse di Luisa Raffaelli, così come non avremmo uno sguardo completamente sincero sulla società e sull’istinto animale paradossalmente civilizzato che ci offrono Florin Tudor e Mona Vatamanu, non sapremmo come gestire quelle ansie e quelle tensioni che per Raffaella Badano diventano tracce indelebili di una fragilità emotiva e sociale.
Ma la fantasia deve anche essere pura, non dimentichiamolo mai, anche perché può essere un ottimo rifugio per meditare, anche quando è proprio un’esplosione di solare e bizzarra giovialità, come per Massimo Sansavini, o come quando attiva il senso del controllo e della giustizia, una giustizia che nel caso del Batman di Ivan Piano è dalla parte delle ombre nascoste della società, o che negli animali, negli oggetti e nei quadri di Charlotte Mumm ristabilisce un armonico equilibrio tra ossessione, desiderio fantastico e razionalità del pensiero.
Ma l’attivazione di certi circuiti può avvenire attraverso un numero davvero infinito di meccanismi: Luigi Ontani si traveste e si proietta in contesti che riportano alla luce una cultura mitica e preziosamente eloquente, cui viene data la possibilità di poter vivere attraverso il tempo, oppure chi (di nuovo come Ontani o Araki) fa della costruzione scenografica lo strumento per portare alla ribalta la scabrosità violentemente corporale delle foto di Wolfgang Tillmans, del resto, la sessualità è anche questo, imbragature, lacci e fruste, ma può anche essere qualcosa di più velato o intrigante se diventa un discorso sulla sessualità e sui generi.
E qui, in effetti, il discorso si fa ancora più interessante: per anni artisti come Urs Lüthi, Gina Pane, Ketty La Rocca, Giuseppe Chiari, Arnulf Rainer ed Hermann Nitsch (e molti altri, fino ad arrivare a Michele Zaza), hanno creduto che nell’individuo e nella sua dimensione corporea si celasse una moltitudine di significati e di insegnamenti naturali, tanto per l’arte, quanto per la società e per la vita in senso ampio, così sono nate queste indagini, da una volontà di pieno possesso e di proclamazione dell’indefinito, e da un’idea di arte come atto di appropriazione violento e drammatico: ecco cosa hanno cercato questi artisti, hanno cercato di scuotere la ricerca di un’identità pronta ad accettare anche ciò che è scomodo, doloroso o comunemente ritenuto deviato.
Allora ecco il sangue, ecco la ferita, il taglio, l’esposizione in prima persona ad atti performativi totali, in cui tutto poteva succedere, e in cui fisicità e psicologia erano il cuore pulsante di eventi scioccanti e sconvolgenti. E oggi, si dirà, l’insegnamento di questi maestri rimane, e rimane per forza, perché se anche alcune cose sono state naturalmente superate, la necessità di stabilire un asse che focalizzi l’individuo in tutta la sua camaleontica complessità, è urgente tanto quanto allora, in fondo, ancora adesso, l’uomo rimane una figura emblematica e misteriosa, di cui in qualche modo sfugge sempre l’identità, basta guardare il lavoro di Silvia Camporesi, in cui precisione e nitidezza non impediscono l’emergere di un labirintico senso di indefinita e transitoria inquietudine, un’inquietudine umana che nei ritratti pazientemente ricostruiti da Ampelio Zappalorto si fa principalmente equilibrio, un equilibrio inafferrabile e precario forse, ma continuamente disposto a mettersi in gioco in un incessante processo di rimandi tra diverse personalità e forme estetiche.
Che dire, quella dell’io sembra davvero un’operazione lacerante, specialmente quando si va alla caccia di certezze e invece ci si ritrova con l’indefinito in mano: Sofia Rocchetti ricama, cuce se stessa e i momenti del suo percorso umano, spirituale ed estetico, e quello che emerge è l’immagine di una donna frammentata dalle difficoltà e dal dolore, forte di una forza vera perché viva, ma che lascia sempre i contorni delle cose sfocati e indefiniti, un po’ il contrario, insomma, della deriva psicologica dei personaggi di Frederic Leglise, scavati fino all’osso, eppure ancora integri nello spirito, consumati certo, ma tenaci e combattivi fino all’ultimo respiro.
Eppure, si dirà, alle volte basterebbe soffermarsi anche su dettagli minimi ma sconosciuti, del resto, il comportamento e la natura si trovano ridotti anche ai minimi termini, come nei Circular Bodies di Francesco Arena, scatti ravvicinati di bocche, denti, occhi e quant’altro: assurdo, eppure è come se ciascuna di queste minime porzioni di intentità non finisse mai di raccontare la propria privata storia personale.
E chissà che unendo il minimo al suo opposto contrario, l’estensione massima e illimitata della rete di internet e del cyborg, non si arrivi ad afferrare veramente anche un’altra ossessione, quella per lo scorrere del tempo e per una corporalità che è insieme affermazione e negazione, in fondo oggi la presenza è tutto, eppure l’azionismo postumano ideato da Casaluce-Geiger arriva anche a questo, ad afferrare la natura molteplice e polisemantica dell’uomo contemporaneo, emblema del crogiolo tra sintetico, naturale e culturale che caratterizza il nostro tempo.
Ma poi, alla fine, che dire? Certo, al termine di questa analisi quello che emerge è il continuo rimbalzo tra il corpo e la mente, l’ossessione, in fondo, gira intorno a questi due grossi assi portanti, e il disturbo, per quanto variegato, è sempre riconducibile ad un disagio fisico o cerebrale… Forse, allora, la cosa migliore è guardare alla vita con gli occhi seri, emblematici e anche corrucciati di chi, come Dario Colombo, cerca negli sguardi proprio le tracce di una sensibilità e di un’anima che davvero può appartenere solo all’uomo.
Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea
via Cairoli 42 - Ovada (AL)
Ingresso libero