Accademia di Belle Arti
Roma
via Ripetta, 218
06 3227036, 06 3218007 FAX 06 3227025
WEB
Artinterrazza
dal 15/10/2007 al 29/10/2007
21-24 tutti i giorni della settimana
06 3218005, 06 3227025
WEB
Segnalato da

Beatrice Bertini




 
calendario eventi  :: 




15/10/2007

Artinterrazza

Accademia di Belle Arti, Roma

Alle 18,30 presentazione del libro a cura di Tiziana Musi, nel quale si esamina il concetto di vuoto come una privilegiata categoria interpretativa di alcuni aspetti artistici del XX secolo. Alle ore 19.30 inaugura la Step Gallery con la mostra "Se il pensiero si fa vuoto...", a cura di Sara Spizzichino, con lavori di giovani artisti che interpretano il vuoto.


comunicato stampa

Se il pensiero si fa vuoto...
Di Sara Spizzichino

Nell'ambito di Artinterrazza

L’Accademia di Belle Arti di Roma inaugura un nuovo spazio espositivo d’arte contemporanea. La Step Gallery apre i battenti con una serie di lavori di giovani artisti, che interpretano il vuoto dandone una personale chiave di lettura. Attraverso l’assenza vengono raccontati contesti del quotidiano in cui l’esistenza si compie: l’esplorazione dell’inconscio come momento di separazione tra noi e il mondo materiale, l’identità meccanica come una realtà vacua in cui non albergano liquidi vitali, o il trauma del parto come elaborazione di un lutto, sono differenti dimostrazioni di come la vita possa compiersi anche attraverso la perdita, l’abbandono, e il vuoto che da questi ne deriva. L’esistenza, quindi, si manifesta e prende forma anche attraverso i vuoti che lascia, che non meno dell’esperienza materiale, segnano inarrestabilmente il corso della nostra storia.

Cristiano Paliotto propone una visione metaforica del movimento a spirale legato alla nascita, ma anche appartenente ad una vitalità che, come un turbine fa convergere tutto verso di sé. La spirale, come la Step Gallery, si muovono volando attorno al proprio centro, portando custodita entrambe, nello spostamento degli elementi, la loro forza.
La nascita, attraverso la quale conosciamo la prima forma di assenza legata alla perdita, viene raccontata anche da Rivka Spizzichino, che ci fa entrare in una dimensione intima e ambigua legata alla condizione di essere madre. L’elemento voyeuristico determina un aspetto importante della questione, che consiste nell’osservazione tacita da parte di chi non è stato coinvolto dal trauma. È una condizione sottilmente violenta, che inscatola la donna nel vincolo del legame lacerante che esiste tra lei e il suo osservatore. L’atto del nascere è uno scivolamento verso la vita, e il primo grande vuoto che abbiamo lasciato si è concretizzato per mezzo della nostra stessa nascita: è l’inizio di un percorso esistenziale che comincia con una venuta al mondo traumatica e con la lesione fisica e psichica di chi ci ha messi al mondo. Anche la nascita, quindi, come la morte, trova un senso attraverso la perdita e la gestione di un lutto. Il ritorno all’infanzia, in Patrizia Pecorella segna un percorso intoccabile e delicato come i primi anni di vita. Il titolo diventa un suggerimento che aiuta a sciogliere l’enigma di uno sfocato ricordo infantile, dove il cammino prima della nascita diventa un viaggio a ritroso nel tempo in memoria di sé. La grandezza della memoria, nel lavoro di Pecorella, risiede proprio nella sua intangibilità, che coinvolge i sensi e stimola l’immaginazione a toccare quei ricordi infantili custoditi in silenzio come giocattoli in un baule. L’universo femminile e il suo lato oscuro è analizzato anche da Alessia Pamphili, che presenta un’incisione di grande formato con una figura femminile, circoscritta dall’ombra che la stringe e la delimita: il dialogo con l’universo dell’ombra e dell’immaterialità, testimonia la capacità di saper individuare delle relazioni indubitabili tra il mondo materiale, occupato dalla nostra fisicità, e quello incorporeo della nostra ombra.
Nel lavoro di David Antolini il robot d’acciaio presenta sé stesso come un’identità meccanica priva di coscienza, e viene immortalato seguendo l’iconografia del ritratto fotografico di stampo classico. L’automatizzazione dell’individuo conduce in maniera irreversibile ad una perdita di senso di ogni sua azione: l’uomo di latta non è altro che un impianto tecnologico, una sorta di ologramma che non può esistere concretamente, e che nel suo interno non contiene sangue che possa scorrere nutrendolo di vita. Tuttavia non possiamo ignorarne l’esistenza: perseverando nell’atavica convinzione che all’interno del vuoto non esista nulla, perdiamo consapevolezza che anche l’aria è fatta di sostanza. Il volto di questo robot esprime un tipo di condizione umana, non di personalità: se questo robot sia buono o cattivo non è in effetti molto importante: quello che Baum descrive come alla disperata ricerca di un cuore nella Città di Smeraldo, ora è un dispositivo tecnologico inconsapevole, al servizio dell’essere umano.
Valentina Berna Berionni toglie voce alla parola e la consegna al numero come principale mezzo di autodefinizione – Io=10 –, in cui la cifra chiama in causa la prima persona singolare, composta a sua volta da un sistema binario, la somma di 5+5, in cui la dicotomia corpo e anima, materiale e immateriale, viene razionalizzata all’interno del numero e viene elaborata partendo dalla simbologia delle mani. Non si tratta soltanto di eleggere la cifra a mezzo privilegiato di definizione della propria identità, non è soltanto un voler sostenere che in tutto siamo fatti di due parti, ma si tratta allo stesso tempo di togliere significato a tutto il resto. Corporeo e incorporeo in questo modo si incontrano attraverso un criterio scientifico, che parte dalla nostra fisicità – le mani – e fa perdere improvvisamente credibilità a ogni sorta di argomentazione attraverso la parola. Dichiarare che Io sono uguale a 10, che a sua volta è composto di due parti simili come le mie mani, significa spogliarmi di qualsiasi altra sovrastruttura a me consegnata nel corso degli anni. Analogamente, Kerstin Bude elegge il numero a mezzo di identificazione, svuotando la parola della sua capacità specifica di contenere significati. Per Kerstin Bude il numero descrive l’appartenenza: la targa di un’automobile riferisce il proprietario attraverso un numero di serie, così come il numero civico sottolinea che dietro quel contrassegno numerico esiste il proprietario dell’abitazione. Potrebbe trattarsi di una sorta di razionalizzazione analoga al lavoro della Berionni, ma in realtà la Bude descrive lateralmente e attraverso un processo inverso, la diretta ricongiunzione tra il numero e l’identità. E’ il numero a ricondurre alla persona, e non, come la Berionni, la persona a ricondurre al numero. Anche Mauro Moretti racconta l’incontro di materiale e immateriale: il ricordo di un impatto definisce la nostra condizione di esseri, che vivono in un tacito e continuo stato d’incertezza. L’inizio della fine di questo percorso, comincia con il ricordo della fine stessa, nell’immagine fotografica in cui corporeo e incorporeo convergono dolcemente l’uno verso l’altro, incontrandosi nella banalità dell’abituale – il traffico metropolitano -, che improvvisamente diventa sacro e assume su di sé una singolare liturgia del quotidiano. Chi non si è mai scoperto almeno una volta a cercare lo straordinario all’interno dell’ordinario? In Traffic è presente uno specchio, elemento chiave che segna i confini tra l’immaginario – l’immagine chiusa nel suo interno – e il reale – il traffico cittadino -, che prosegue oltre i bordi della sua cornice. Giosuè Cassata utilizza la simbologia della croce come memento mori, autoritraendo se stesso e Kersitn Bude già come illusione, davanti all’immagine sacra che conduce, citando Shakespeare, alla terra sconosciuta, dai cui confini non torna il viaggiatore.
Ambra Montemezzo, invece, fa riposare i suoi personaggi chimerici in ambientazioni fluttuanti e oniriche, che escludono qualsiasi collegamento con la realtà, ma che nascono dall’inconscio e dall’immaterialità del pensiero. Le sue donne sostengono ipermondi con la forza della mente, alla quale viene consegnato il più grande potere di cui l’essere umano sia capace: quello di poter immaginare, dominare e volare sospesi nel vuoto, attraverso la proprie fantastiche visioni. Mentre la Montemezzo parte dalla propria immaginazione alla scoperta di mondi fantastici, gli strani ipermondi di Virginia Colonnella partono proprio dalla nostra fisicità: l’artista riprende il corpo nel dettaglio per metabolizzarlo come astratto, partendo dalla macrofotografia fino alla definizione ultima attraverso l’incisione. Il riconoscersi nella stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, diventa una dimostrazione tangibile nel suo lavoro, in cui in un solo particolare esiste il mondo intero, cercato nei dettagli e nelle piccole realtà della nostra epidermide. Attraverso un sentiero analogo, che non reclude più materiale e immateriale in due diversi scomparti dell’esistenza, Ana Maria Terzoni indaga il mondo parallelo delle ombre e dell’apparenza. L’essere umano diventa così evanescente come l’ombra, e incancellabile, come l’impronta. Attraverso il lavoro di Maren M. Mathiesen tutto ciò che è stato detto finora potrebbe essere messo in discussione: l’esistenza di mondi paralleli in cui la mente è sovrana, e materializza gli aspetti fantastici del nostro inconscio, ora diventa negazione di qualsiasi realtà, fantastica o logica che sia. Il senso del suo lavoro va cercato nella cancellazione, nel gesto di togliere voce alla parola - e con essa alla logica - attraverso il depennamento di questa. Depennare significa archiviare, e Mathiesen, eliminando la parola, ne mette da parte il senso, senza cancellarne il ricordo. La memoria, nel lavoro di Flavio Carbonaro viene invece rivissuta attraverso la testimonianza fisica e visiva dell’oggetto legato all’esperienza, che viene incorniciato, esposto e assemblato scrupolosamente insieme agli altri ricordi, affinché ognuno di loro possa essere eletto a oggetto di valore. E’ una sorta di volta celeste, una costellazione in cui ogni astro testimonia ciò che resta di quanto vissuto finora. E come quando si interrogano le stelle sul proprio destino, la domanda su quale futuro verrà dopo questo passato, resta implicita durante l’osservazione di così tante minuscole unità. Flavio Carbonaro, dichiarando al contempo che tutto finisce, consegna al ricordo la delicatezza della nostalgia, ricompensando ogni piccola cosa di un inestimabile valore.
Per Giacomo Orondini il ricordo è segnato da una lacerazione, qualcosa che è passato, ha ferito ed ora non c’è più, ma che se ne è andato lasciando una cicatrice che lui stesso si occupa di risanare continuamente. Il processo irreversibile della ferita da rimarginare diventa metafora del tempo oggettivo e non quantificabile, che si muove in un’unica direzione logorando tutto quello che incontra: svuotato quindi del suo significato primario attribuitogli dalla nostra società – la misura -, il tempo indica esclusivamente l’inarrestabile consunzione della materia – metaforicamente materia umana -, certamente inevitabile, prestabilita e fatale, nonostante il tentativo di Orondini di limitarne i danni, ma non misurabile in una data di scadenza. Insieme alle incisioni di Nicola d’Emma, contribuisce a rendere concreto il linguaggio sottile e intangibile della metafora, in cui una bruciatura simboleggia una ferita inferta, e la cicatrice il ricordo di questa.
Forse è proprio quando il pensiero si fa vuoto che i “vuoti” cominciano a pensare: l’artista, che per definizione svincola la propria mente dalle sovrastrutture per rendere il campo libero alla creazione, espone al pubblico la meraviglia che si nasconde in una stanza vuota, e che lui soltanto è riuscito a trovare. E lo fa con la stessa amorevole spinta con cui si potrebbe mostrare il proprio eroe d’infanzia preferito, dopo averlo fortemente cercato nel mare di ricordi chiuso in una stanza vuota che un tempo conteneva qualcosa. L’apertura della Step Gallery apre non solo le porte agli artisti, ma anche a chi come loro sa vedere oltre il perimetro della propria realtà: a chi con un solo passo sa superare il limite della propria immaginazione per farci salire dove risiede la fantasia e i piedi non toccano più terra. Certamente un piccolo passo per l’umanità, ma un grande passo per l’Accademia…


Salto nel vuoto

Alle 18,30 Giuliana Stella presenta il libro Salto nel vuoto a cura di Tiziana Musi, Edizioni Gangemi 2007. Il libro nasce da un corso di Storia dell’Arte svoltosi nell’anno accademico 2005-06 presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, nel quale si è esaminato il concetto di vuoto come una possibile e privilegiata categoria interpretativa di alcuni aspetti artistici del XX secolo. Ai saggi teorici di Tiziana Musi, di Giuseppina di Monte e di Giovanna Giaume , si sono affiancati quelli di alcuni allievi che hanno partecipato al progetto didattico Un artista incontra un artista realizzato nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, , con riflessioni e interviste immaginari ad artisti ormai storicizzati.

Intervengono:

Elisabetta Cristallini, Storia dell’Arte Contemporanea,(Università della Tuscia, Viterbo)
Michele di Monte, Iconologia e iconografia (Università Ca’ Foscari Venezia )
Gregorio Botta artista
Elizabeth Frolet artista
Partecipa M.Vittoria Marini Clarelli, soprintendente della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma

Alle ore 19.30 si inaugura la mostra presso la STEP_GALLERY dell’Accademia di Belle Arti di Roma

Accademia di Belle Arti di Roma
via di Ripetta, 218
piazza Ferro di cavallo
Artinterrazza osserverà il seguente orario:
alle 10.00 - 24.00
tutti i giorni della settimana
Ingresso libero

Come arrivare

Metro A, fermata Flaminio

Tram e Bus:
913, 490, 491, 495, M auditorium, 88, 2,

In automobile:
dal GRA uscita Salaria direzione centro città
dal centro piazza del Popolo,
piazza Augusto Imperatore
Parcheggio: villa Borghese, via Ludovisi

IN ARCHIVIO [33]
Moda solidale
dal 18/6/2013 al 18/6/2013

Attiva la tua LINEA DIRETTA con questa sede