La Solitudine Del Corpo. Le immagini fotografiche dell'artista sono, secondo il critico Salvo Ferlito, rappresentazioni di quel "male di vivere" originatosi nell'800 e mai scomparso dalla vita dell'uomo moderno. A cura di Giovanni Francesco Paolo Madonia.
La Solitudine Del Corpo
a cura di Giovanni Francesco Paolo Madonia
Ripiegata in una dimensione solipsistica ed alienata, la nuda corporeità attentamente (e crudamente) scandagliata da Maurizio Vitale si erge a chiaro paradigma del sofferto rapporto psiche-soma nella stretta attualità. Un corpo patognomonico e sintomatico – questo impietosamente inquadrato da Vitale –, che esprime interamente, nella sua scoperta vulnerabilità, quell’incontrollabile cortocircuito fra interno ed esterno – da taluni fatto risalire alle filosofiche premesse cartesiane relative alla netta distinzione fra res cogitans e res extensa –, tipicamente distintivo del nostro frastornante viver quotidiano di uomini metropolitani, tecnologizzati e (presuntamene) post-moderni.
Quello rappresentato e messo in scena da Maurizio è infatti il dettagliato corteo sintomatologico dell’arcinota sindrome d’ascendenza ottocentesca – il “mal di vivere”, per l’appunto – che attanaglia ormai in maniera sempre più ingravescente (seppure con modalità e misure assai variabili) ogni individuo “urbano” da almeno centocinquant’anni. Proprio la rottura del rapporto simbiotico col mondo naturale – rapporto non idilliaco, da età dell’oro, come più d’uno ha cercato di far credere – ha introdotto progressivamente quei fattori di destabilizzazione degli equilibri mente-corpo, che hanno via via inficiato le sicurezze primigenie degli uomini d’un tempo, alimentando quell’insieme di timori che hanno portato all’instabilità e alle sofferenze incontrollate della contemporaneità.
Gli scatti di Vitale, coi loro singoli frammenti di travagliata solitudine individuale, si inscrivono – dunque – a buon diritto in quel filone delle arti visive più recenti (senza alcuna distinzione fra le varie discipline) che a partire dall’800 (e in particolar modo dalla pittura “psicopatologica” e “clinica” di Goya, coi suoi impietosi ritratti dei Borbone, e di Gericault, coi suoi paradigmatici “monomaniaci”) ha sancito il disgregarsi di questo atavico equilibrio e conseguentemente introdotto l’infrazione d’un modulo convenuto (e linguisticamente pressoché univoco, epoca per epoca) di rappresentazione della corporeità (finalizzato alla codificazione di un chiaro sistema normativo con cui dare senso all’essere e all’esistere al mondo), determinando una antinomica (o, ancor più, anomica) frammentazione lessicale ed espressiva, perfettamente funzionale all’esplicitazione di tutti quei tremiti e sismi intrapsichici in grado di destabilizzare la relazione naturale fra i centri del pensiero e il loro involucro esteriore.
E’ sufficiente – per tanto – dare una scorsa alle immagini immortalate da Maurizio e ai loro evocativi titoli (Disagio, Disorientamento, Dolore, Morte, Manichino, Silenzio, tanto per fare qualche esempio chiarificatore), per comprendere a pieno la forte carica di pathos di cui è impregnata la visione esistenziale che ne sostiene e dirige l’operare nei suoi analitici percorsi di ricerca.
Non a caso contestualizzate in un ambiente spoglio e anonimo – contraddistinto da una melancolica teatralità –, le figure femminili inquadrate da Vitale esibiscono infatti per intero la loro fragile nudità, stagliandosi su un drappo scuro e spiegazzato, fungente al contempo da mortificante scenario e da insormontabile sistema di isolamento e contenzione. Proprio in virtù di tale “confinamento” all’interno d’un contesto simbolicamente claustrofobico, quest’esibita ed indifesa nudità (che in altri tempi sarebbe stata vettrice ideale di quei “valori normativi” da propugnare ed imporre agli osservanti) si fa invece emblema compiuto ed incontrovertibile d’una condizione di dolore ed isolamento esistenziale, nella quale si inscrive a chiare lettere l’intero cortocircuito psico-somatico derivante dalle difficoltà di relazione e comunicazione con l’ambiente circostante.
Le posture rattrappite e ripiegate, la parcellizzazione delle inquadrature (con le singole parti corporee chiamate a conclamare il disagio dell’insieme), la frequente marginalizzazione della figura all’interno della scena, l’abbandono inerziale e mortuario, l’eros depurato e raffreddato (fino al congelamento d’ogni sex appeal), la fisiognomica sofferente e perturbata sono tutti segni inequivocabili d’una semeiotica che dalla semplice ricerca artistica ed estetica tende a sconfinare nella vera e propria prassi anamnestico-diagnostica.
Nessuna nudità accademica – dunque – preposta a farsi portatrice (neoplatonicamente, in quanto riflesso del divino) d’una idea d’ordine superiore o d’un qualche progetto “più o meno intelligente”, né – tanto meno – alcuna estetizzante (e modaiola) esibizione di corporeità tendente ad indicare un ben preciso schema omologante di natura prettamente consumistica, ma una dimensione corporale – questa scandagliata da Vitale – di matrice quasi clinica, in cui gli aspetti di svisceramento e classificazione dei moti della psiche sono il vero filo conduttore e l’unica chiave di interpretazione.
Queste due giovani donne fotografate da Maurizio sono – in fondo – gli esemplari convincenti d’una intera umanità, condannata al paradosso contingente del totale isolamento all’interno d’una società ove predominano i fenomeni di massa e in cui ogni forma di individualità cosciente e strutturata viene percepita come un enorme ostacolo allo sviluppo del sistema. In tal senso, il corpo descritto da Vitale appare del tutto depurato d’ogni fattiva (e abituale) proprietà di medium relazionale (a partire dalla sua potenzialmente erogena nudità), ritrovandosi spogliato di tutti quegli orpelli convenuti (anche in termini di gestualità posturale e di mimica facciale) che ne fanno quel veicolo dell’io nel mondo, assolutamente conforme alle regole del gioco. Ed è proprio in questo completo disancoramento (più o meno indotto e volontario) da ogni convenzione della società, che viene a profilarsi – come per contrasto – una più distinta e definita identità, capace – nella sua solinga sofferenza – di distinguersi con nettezza dall’uniforme disidentità di tutte quelle inconsistenti individualità, i cui corpi seriali e appariscenti emblematizzano invece un vuoto esistenziale di gran lunga ben più grave ed inquietante.
In definitiva, è proprio questo il significativo paradosso colto da Vitale col suo “empatico” obiettivo: ovvero quello d’un reperimento di senso dell’essere ed esistere in una lacerata (e separata) dimensione di “solitudine del corpo”, la quale, pur essendo metafora e funzione d’una imposta e subita asocialità (per le afasie indotte dal circostante ridondare di insensate ecolalie), ciò non di meno consente, all’interno dei suoi perimetri dolenti ed alienati, una totale presa di coscienza di ciò e di chi si è (o più probabilmente non si è) nella realtà.
Nel solipsistico cortocircuitarsi degli ascosi fremiti intrapsichici nei ben visibili ambiti somatici, si palesa – dunque – l’intera portata della nostra fragile e debole essenza; un’essenza perfettamente enucleata e cristallizzata da Vitale nella sua assoluta e transitoria precarietà , a conferma di quella insuperabile capacità della fotografia di intercettare lo “hic et nunc”, andando oltre il semplice sembiante, per cogliere la “nuda veritas” nella sua totalità.
Salvo Ferlito (ottobre 2007)
Vernissage: 18 ottobre 2007
Galleria Biotos
Via XII Gennaio 2 - Palermo
Orario mostra: 17-20
Ingresso libero