Elio Alfano
Augusto Ambrosone
Enzo Angiuoni
Antonio Auriemma
Anna Crescenzi
Umberto Canfora
Ciro Cioffi
Pasquale Coppola
Stefano di Costanzo
Giovanni Cuofano
Salvatore De Curtis
Tito de Rosa
Alaa Eddin
Domenico Falace
Mario Falace
Giovanni Ferrenti
Luigi Franzese
Vittorio Fortunati
Luigi Grossi
Carla Guarino
Elio Mazzella
Luigi Mazzella
Rosario Mazzella
Bruno Palmieri
Renata Petti
Salvatore Piccirillo
Gianni Rossi
Ciro Scarpati
Romualdo Schiano
Aniello Scotto
Sy O
Sergio Spataro
Rosario Pinto
Prospettive creative di artisti campani in ricordo di Salvatore Emblema. Ogni artista in mostra ha realizzato un'opera ad hoc utilizzando la tela di sacco, caratteristico materiale d'uso dell'artista vesuviano scomparso due anni fa.
Gli artisti: Elio Alfano, Augusto Ambrosone, Enzo Angiuoni , Antonio Auriemma, Anna Crescenzi, Umberto Canfora, Ciro Cioffi, Pasquale Coppola, Stefano di Costanzo, Giovanni Cuofano, Salvatore De Curtis, Tito de Rosa, Alaa Eddin, Domenico Falace, Mario Falace, Giovanni Ferrenti, Luigi Franzese, Vittorio Fortunati, Luigi Grossi, Carla Guarino, Elio Mazzella, Luigi Mazzella, Rosario Mazzella, Bruno Palmieri, Renata Petti, Salvatore Piccirillo, Gianni Rossi, Ciro Scarpati, Romualdo Schiano, Aniello Scotto, Sy O, Sergio Spataro.
Avere inteso chiamare a raccolta un manipolo d’artisti proponendo come tema per il proprio impegno creativo di disporsi a riflettere su se stessi proiettandosi idealmente in dialogo con Salvatore Emblema e con ciò che ha rappresentato il suo intervento nell’arte della seconda metà del Novecento è il nucleo centrale del pensiero che è stato concepito per sottolineare la profonda pregnanza del pittore di Terzigno scomparso due anni fa.
Giova ricordare che tale progetto nasce non solo nel contesto della famiglia dell’artista, ma anche nella volontà di quanti abbiamo avuto il privilegio di goderne della frequentazione e segnatamente nella volontà dell’amico Domenico Pagano.
Non s’è mai chiesto, in vero, agli artisti che abbiamo sollecitato a prendere parte a tale progetto di rinunciare alla propria identità o di modellare il proprio contributo sul basso continuo dell’opera di Emblema. Abbiamo, piuttosto, suggerito che venissero adoperati i suoi materiali d’uso e, in modo particolare, la tela di sacco per realizzare ciascuno un’opera – e tutte d’egual misura – che costituisse un omaggio artistico, la sottolineatura d’una persistenza di memoria storica.
Abbiamo mirato a produrre, insomma, qualcosa che possa trovare ragionevolmente somiglianza con ciò che, in ambito letterario, filosofico e più ampiamente critico-saggistico, è generalmente definito un volume di saggi ‘in onore di’.
E, come in tal genere di libri s’apprezza la varietà e l’originalità dei singoli contributi, altrettanto può osservarsi nell’impegno fornito da questo rassemblement di artisti che s’è riunito per ricordare e celebrare Salvatore Emblema. Ciò che ne emerge è, pertanto, uno spaccato della produzione artistica campana di più spiccato impegno espressionista-astratto e materico-informale, con punte ‘concettuali’, che s’è imposto come gradiente referenziale per l’individuazione d’una serie di personalità che avessero dei punti di consonanza con l’opera di Salvatore Emblema, al di là, evidentemente, di ogni altro tipo di possibile riferimento esemplaristico o di affinità delibativa.
Poste tali premesse di metodo e perimetrato, quindi, un certo spatium operandi, ciò che ne è conseguito può giudicarsi, forse, a nostro sommesso parere, ed al di là dell’alveo celebrativo del ricordo personale di Emblema, un momento di riflessione che una precisa soglia creativa dell’arte campana compie su se stessa riconoscendo e marcando, attraverso un atto di omaggio alla memoria storica del pittore di Terzigno, delle ragioni più profonde e significative che connotano la propria identità ambientale e produttiva.
Non possiamo, in questa occasione, non tener conto della personalità di Salvatore Emblema, la cui ampia bibliografia ci solleva dal problema di dover qui ripercorrere pedissequamente tutto il tracciato diacronico a partire dagli anni difficili della sua primissima giovinezza, a quelli tormentati della prima vocazione artistica, a quelli non meno struggenti del suo approdo in America avendo noi ben presente la riconsiderazione complessiva del suo cursus produttivo all’interno del quale i nuovi innesti culturali hanno via-via fornito ulteriore lievito alle premesse tutte vesuviane della sua pittura senza stravolgerne la natura originale, sorgiva e pregnante.
Salvatore Emblema s’è, così, inserito da protagonista nel contesto della produzione artistica internazionale: la materia corposa e pulviscolare della sua terra d’origine è stata da sempre l’irrinunciata fonte ispirativa e sostanziale delle sue cose: i sassi, le terre, le pomici, le sabbie, gli arbusti delle pendici del Vesuvio hanno fornito consistenza, spessore e colore ad una delibazione creativa che, intanto, scopriva l’esigenza dell’approfondimento delle ragioni spaziali, di cui la ‘detessitura’ – cioè la sottrazione sistematica e composta di fili all’ordito della tela – consentiva di avere una prospettiva di attraversamento e di specchiamento esistenziale, capace di rivelare, al di là della superficie, altri mondi, altre consistenze non solo spaziali, ma anche temporali e psicologiche, introducendo il fruitore nei penetralia della storia attraverso i varchi creati nella porta della materia .
Lungo tale percorso umano ed artistico Salvatore Emblema è venuto man mano affermando la propria personalità che s’è imposta alla attenzione del pubblico e della critica mietendo successi a catena attraverso la presentazione periodica di mostre d’alto profilo presentate in prestigiosissime sedi nazionali ed internazionali.
Forse, come accade spesso a chi sa guardare molto avanti, ha finito col dover fare anche i conti con una certa solitudine intellettuale, quasi rinverdendo il brocardo del nemo propheta in patria e potendo contare, pertanto, sulla prossimità morale e sulla condivisione di quanti hanno saputo leggere nella sua opera un orientamento originale ed affatto personale lungo le rotte di quelle scansioni stilistiche difficilmente classificabili ed indirizzate, complessivamente, nell’ordine prospettico d’una linea espressionista-astratta-informale.
Gli artisti che si accostano a Salvatore Emblema in questa occasione di omaggio alla memoria storica della sua personalità hanno certamente dei punti di contatto con la sua delibazione creativa ed anche con il profilo delle sue scelte etiche ed esistenziali.
Un carattere distintivo, ad esempio, sul piano morale, è, per alcuni, la solitudine, la condizione di appartamento creativo al riparo dalle voci e dai rumori della città. Per altri, più distintamente, l’adesione al Maestro di Terzigno è nella linea della pratica d’una pittura fatta di materia e ricondotta alla condizione di traccia vitale e di impressa della storia.
Non manca, d’altronde, in tutti gli artisti una vibratilità del tratto, un’insistenza segnica che connota subito le opere come intense manifestazioni di robusta carica espressionistica, che, in qualche autore, diventa addirittura il tratto imprimente e caratterizzante.
Ciò che appare utile sottolineare, in aggiunta, in relazione al complesso generale delle opere di tutti questi artisti, è che esse riescono a creare un filo di continuità con l’opera di Salvatore Emblema, senza dirsene dipendenti e manifestando tutto il carico di idee, di sensibilità, di conoscenze delle singole personalità che le hanno prodotte.
E’ come se, paradossalmente, quel mucchietto di fili sottratti alle tele da parte di Emblema nel suo processo di ‘detessitura’ – quello che s’addensava sul pavimento del suo atelier a lato del muro ove andavano percolando i residui di colore che sgocciolavano dall’alto – fosse stato raccattato e fatto proprio da altri artisti in una fase di raccolta d’un ideale testimonio, per riannodare altri fili creativi e dare corpo ad altre rimodellazioni materiche lungo un asse di irrinunciata continuità etica, piuttosto che nel segno d’una soggiacenza magistrale ed esemplaristica.
Chi l’ha conosciuto, d’altronde, Salvatore Emblema, sa che era disponibilissimo al dialogo, che aveva sempre voglia del confronto delle idee e dello scambio intellettuale, che era figura aliena dal compromesso spicciolo e che guardava con schiettezza e lealtà alla vita, non mancando mai di esprimere con disinvolta sincerità le proprie idee anche al costo d’essere incompreso e frainteso.
E’ tanto più importante, allora, aver potuto mettere insieme ciò che abbiamo definito un manipolo d’artisti per continuare a dialogare – evidentemente a distanza – con la personalità di Salvatore Emblema, di cui la presenza fisica ci è stata sottratta dall’ineluttabile processo disgregativo del tempo, ma di cui rimane intonsa e perfetta la consistenza morale della figura e l’attestazione d’un percorso creativo di assoluta rilevanza ed originalità.
Qualche altra osservazione, in aggiunta, merita d’essere prodotta per dare un ulteriore segno delle ragioni che ispirano questa occasione di omaggio e di memoria storica: va sottolineato, infatti, il ruolo svolto da “Il Ponte” che è sempre stato non solo un indiscusso e diuturno ancoraggio per Salvatore Emblema, ma anche un punto di riferimento per il dibattito artistico in Campania, animando occasioni di incontro tra gli artisti e momenti importanti di scambi di esperienze.
Non cadremo nella trappola di tracciare un solco di separazione netta tra figurazione ed aniconismo, dividendo, così, in due gruppi estranei ed incomunicanti le opere degli artisti secondo un discrimine che attesti proditoriamente l’appartenenza all’uno o all’altro versante solo in base al fatto che l’opera di ciascuno conservi o no delle referenze oggettuali più o meno distinte.
Osserviamo, infatti, che, al di là dell’opzione iconica, tutte le opere degli artisti di cui discutiamo mantengono ed affermano una consapevole scelta di campo per una dimensione oggettiva in cui si esprime l’irrinunciata adesione alla datità delle cose e della storia e la rinuncia vibrata verso ogni forma di incongrua astrattezza .
D’altra parte, in proposito, per avere una più ampia prospettiva d’approccio, possiamo provare a far perno sulla constatazione che quest’ancoraggio oggettivo/cosale identifica il profondo sentire di ciascuno di questi artisti lungo l’arco completo della propria evoluzione produttiva.
E, proprio da ciò, d’altronde, trae conforto la nostra considerazione critica che colloca l’atto d’omaggio tributato da questi autori ad Emblema non certo sul gradiente di un’adesione formale ai modi dell’artista di Terzigno, ma sicuramente sul piano inclinato d’una partecipe condivisione di quelle prospettive d’approccio al reale che hanno ispirato il maestro scomparso.
Che la produzione di Emblema abbia, infatti, conseguito un profilo identitario, sommariamente definibile entro i confini critici d’una appartenenza alla linea espressionista-astratta delibata secondo puntuali scansioni informali, non è affatto incompatibile con il suo proprio abbrivio d’esordio avvenuto in termini decisamente realistico-figurativi, ma, man mano, nutriti di ansiti vigorosamente materici .
Tali notazioni sull’evoluzione emblemiana dalle ragioni figurativo-oggettuali a quelle astratto-informali, al di là degli effetti del suo rapporto con Rothko, motivano ampiamente l’individuazione del gradiente di ampia apertura entro il quale si collocano variamente gli artisti in questo torno d’omaggio.
Sarà utile, perciò, quasi ripercorrendo l’ideale filo di svolgimento dell’evoluzione creativa del maestro di Terzigno, muovere da alcune puntuali sottolineature figurative che alcuni artisti, di quelli di cui qui discutiamo, propongono a partire da una rappresentazione del reale fenomenico, avendo cura di non lasciare mai tralignare il dato saliente dell’ ‘oggettività’ nella mera trascrizione ‘oggettuale’.
Altro dato da sottolineare è quello della irrinunciata disposizione analitica della figura umana che gli artisti perseguono. Tale orientamento creativo, volto al privilegiamento della figura umana non solo contribuisce a disegnare il perimetro della referenza ‘oggettiva’ prescelta come stella polare per l’orientamento creativo, ma va anche a sintonizzarsi idealmente – e questo è motivo d’interesse, per noi, in questa prospettiva d’omaggio ad Emblema – con la produzione d’esordio del maestro di Terzigno, in particolare coi suoi ritratti eseguiti – con alta pregnanza materica – con l’impiego, ad esempio, delle foglie secche e delle polveri stesse delle pendici del Vesuvio.
Non manca, inoltre, nel gruppetto d’artisti che qui additiamo, e che consideriamo accorpabili all’insegna dell’opzione figurativo-‘oggettiva’, una vibrante sensibilità espressionistica che oscilla tra le più crude proposizioni che ne offrono Alfano e Piccirillo, le più ermetiche lezioni di Scotto, della Guarino e di Di Costanzo, i suggerimenti ‘concettuali’ di Sy O e le speculazioni iperfigurative di Mario Falace.
Elio Alfano propone, ad esempio, la sua scottante testimonianza d’un gesto che manifesta il portato d’un’energia compressa e sotterranea che anima la materia e la intride di una carica emotiva davvero straordinaria; Piccirillo, di contro, con più marcata attenzione al dettaglio, con la cura meticolosa ed attenta alle campiture, non manca di caricare di note intensamente affettive il proprio d’un’immagine che si profila sullo sfondo secondo una logica che, anche nel segno, oltre che nella cromia, si articola secondo opzioni deliberatamente timbriche.
La Guarino va, poi, sfaldando le profilature organiche del suo assetto figurativo, scoprendo ulteriori opportunità discorsive all’interno d’una lettura analitica delle forme, trovando quasi sponda, così, nell’opera di Stefano Di Costanzo, in cui, invece, un’eco lirica più attentamente conservata dispone l’empito complessivo degli accenti espressionistici a flautarsi in scansioni più morbide cui giova l’accorta compitazione della cromia svolta secondo derive non aliene da sensibilità tonali. Anche il contributo di Tito De Rosa propone un’indagine sulla natura delle cose: la sua pittura, in particolare, suggerisce l’esigenza del mantenimento d’una distanza che non è estraneazione, evidentemente, dalle cose stesse, ma bisogno di preservarne il dato dall’azione invasiva d’un approccio azzardato.
Queste considerazioni appena svolte consentono di avere un’opportuna introduzione all’opera di Aniello Scotto, in cui, tuttavia, giova osservare la più intensa vocazione drammatica, che esalta l’empito contenutistico, volgendo la pittura del Nostro a farsi dirimente altamente preziosa e profonda nella trasmissione di un pensiero che sembra quasi faticare a rimanere compresso nei limiti della tela e nei confini dell’opera. Per altro verso, poi, l’opera di Mario Falace, fa eco a questo particolare rapporto con l’immagine che, con acutissima intelligenza del ‘reale’, Scotto va delibando. In Mario Falace, infatti, il tema creativo d’una affermata sensibilità ‘oggettivante’ va a disporsi all’incontro con quella disponibilità al contatto segnico con le cose che, ad esempio, gli Iperrealisti modellano secondo una delibazione tecnica che non esita ad introdurre il confronto stesso fotografico come campo non solo di sfida, ma anche di vera e propria mediazione creativa. Di tutto ciò, come abbiamo cercato di definire anche in altra sede, spiegando ed argomentando le ragioni di una ‘differenza’ tra l’iperrealismo d’oltreoceano e la ‘iperfigurazione’ europea , Mario Falace suggerisce una personalissima prospettiva d’approccio, attingendo una dimensione contenutistica intensa e vibrante che colpisce per la forza morale che la presiede.
Profondità contenutistiche, infine, sono riscontrabili nell’opera stessa di Sy O, l’enigmatica personalità di artista che coniuga le esigenze d’un incontro mediativo tra le espressioni di varie esigenze e culture figurative, mettendo in linea secondo un basso continuo di intensa caratura ‘concettuale’ il grafismo orientale – soprattutto di marca nipponica – con le sensibilità linearistiche del più prossimo Oriente, senza trascurare l’impatto descrittivo della temperie occidentale con i suoi richiami non solo ad un irrinuncato ancoraggio alle cose, ma anche all’immanenza del dato progettuale nell’opera come fattore vivificante e fermentante delle ragioni stesse creative secondo quell’insegnamento che muove da Duchamp ed ha poi permeato anche altre ‘famiglie’ stilistiche del secolo appena trascorso.
Una imprimente esigenza espressionistica, d’altronde, presiede anche le delibazioni creative degli artisti che, pur rinunciando alla più stretta referenza ‘oggettuale’, non dichiarano affatto abrogato l’ancoraggio ‘oggettivo’.
Una figura come quella di Rosario Mazzella giunge opportuna come interfaccia tra i due gruppi di artisti che stiamo qui presentando, dal momento che la sua istanza figurativa va tracimando nella pura delibazione materica non rinunciando mai egli né al richiamo della realtà fenomenica della cosa né alla pura espressione sensoriale del suo dato materico, che si manifesta, evidentemente, ‘al di là’ della consistenza categoriale dell’oggetto o – lontanando vieppiù – della sua definibilità eidetica.
Una diversa delibazione di queste stesse cose è quella che offre la pittura di Vittorio Fortunati, che enuclea spunti di analisi critica della materia, disponendosi ad interpretarne non solo il dato corrusco degli addensamenti e delle stratificazioni sedimentate dal tempo, ma la ratio stessa che la presiede, fornendone, comunque, una descrizione non proclive al fascino d’una prospettiva ante rem, ma rispettosa, piuttosto, del dato – anche qui ‘oggettivo’ – dell’esperienza maturata lungo il corso conoscitivo cui la materia stessa si lascia sottoporre quando l’intervento analitico dell’uomo ne distilla le particelle dell’ordito più minuto alla ricerca della causa prima e nella perfetta coscienza della sua imperscrutabità definitiva determinata non dalla prevalenza d’una sfera sovrordinata di natura metafisica, ma dal suo stesso assetto problematico.
Dopo aver definito questa sorta di ‘corridoio’ che consente di trovare una percorribile congiuntura tra la vocazione ‘espressionistica’ maggiormente vissuta in prospettiva di adesione alla rappresentazione dell’oggetto e quella che lo rinnega ma non lo esclude, vivendone, perciò, il dramma della scomposizione frammentata (Rosario Mazzella) o della ricerca della ratio (Fortunati), possiamo, forse, avere le coordinate giuste per un approccio non effimero agli altri artisti che si collocano – con diversa sensibilità, ciascuno – lungo il gradiente d’un approccio creativo che enuclei il dato materico come sostanza della pittura, sub specie, di volta in volta fenomenica o eidetica.
E qui giungono, evidentemente, opportuni e calzanti i nomi delle personalità di Elio Mazzella, ad esempio, che mette in rilievo le stratificazioni della materia, additandone le successioni e le armonie interne, come lungo un processo di ininterrotta sequenza frattale; di Sergio Spataro che rimodella con forza una propria immagine dell’universo, articolandone liberamente le parti in un sommovimento arroventato delle sue parti; di Pasquale Coppola, che libera attraverso la rappresentazione delle tracce dei suoi gesti l’energia che s’annida in un vissuto problematico ed intenso; di Enzo Angiuoni, che cerca una traccia sempre più sottile delle cose ed avverte lo straniamento d’una irraggiungibilità dell’assoluto, di Antonio Auriemma che va delibando una sottile suggestione lirica, individuando un collegamento possibile tra ansiti ancora di natura informale e nuove esigenze post-moderne, linea questa, sulla quale possiamo osservare attestata in qualche modo anche la prova fornita da Luigi Grossi; di Augusto Ambrosone che della materia rivela gli aspetti più intriganti e poetici che s’addensano nei grumi apparentemente impenetrabili del suo darsi;
di Umberto Canfora che sembra catturare una misura delle cose, con la sua analisi appassionata degli anfratti alla ricerca d’una ritmica o, se si vuole, d’una sorta di ortogonalità degli orditi; di Domenico Falace che si misura con il tentativo di fornire della materia la sua prospezione più dilatata ed estenuata, carpita lungo la frammentazione diafana delle sue vaporizzazioni celesti; di Gianni Rossi che accentua la ricerca degli aspetti logico-geometrici immaginando che possa essere utile investigare sulle cause della disposizione delle cose, non sicuro se sia il caos primigenio l’origine d’un ordine che a noi appare per mera casualità dispositiva o se non sia, piuttosto, proprio da una condizione d’ordine primordiale che abbia avuto a sostanziarsi la datità delle cose all’insegna della frammentazione indistinta, sovrapposta e confusa; di Bruno Palmieri che propone il suo attento e calibrato percorso di scavo nelle pieghe delle cose, riconducendoci, così, alla dirimente problematica, ove confluiscono e, contemporaneamente si differenziano, i piani dell’oggettività e dell’oggettualità.
Scelgono, tra le altre cose, un confronto con la dimensione della sfera altri due artisti, Giovanni Ferrenti e Renata Petti. Partono da premesse, evidentemente, non sovrapponibili, ma l’indagine sulla sfera non è solo il momento di verifica di una concezione puntiforme ed atomistica della materia, ma anche il terreno di confronto con un modo di leggere l’esistente ed immaginarne la linea della sua possibile evoluzione. E, così, se Renata Petti sembra aderire ad una esigenza di immersione della sfericità nella dimensione planare, Ferrenti sceglie, invece di dilatare ed espandere la puntiformità della sfera nella puralità radiale, di cui, tuttavia, non restituisce percorsi rettilinei ed unitari, ma la traccia di un percorso nello spazio che sembra svolgersi seguendo la ‘curva del tempo’.
Ad una carica intensamente vibrante negli esiti della sua vocazione volumetrica e spaziale occorre far riferimento per il contributo di Luigi Mazzella, che mette in evidenza le doti di una valentia consumata nel misurarsi costantemente con la tridimensionalità creativa.
Ad un ancoraggio più intenso al mondo delle cose ci riporta Salvatore De Curtis, che segnala con evidente passione l’ancoraggio necessario alle cose della terra, che abbrunando le tonalità non s’immerge nel buio della notte, ma procura, piuttosto, il giusto gradiente di contrasto per i barbagli di luce che affiorano improvvisi e saettanti dalla sua pittura umorale. La pittura di Romualdo Schiano, che si nutre di sortite cromatiche che travalicano la dimensione della campitura scegliendo di non conformarsi alla pura e semplice gestualità, consente, poi, di rapportarci all’ambiente più propriamente vesuviano, cui il ‘rosso pompeiano’ dell’artista, d’altronde, apertamente allude.
E se la scelta di Schiano verso una comprensione delle ragioni interne che fanno della ‘vesuvianità’ una sorta di categoria dello spirito è, in realtà, un’opzione di sensibilità culturale, di ansiti personali, di afflati rinascenti lungo l’ordine storico della disposizione delle cose nel corso del tempo, altre vie seguono altri artisti nell’additare, con non minore vivacità, nella via ‘vesuviana’ un sentiero di non incongrue opportunità creative.
Pensiamo, qui, ad esempio, alle tracce di violente combustioni che sostanziano la ricerca di Giovanni Cuofano ed alle complessità espressive di Franzese che quasi segnalano le tracce di proietti piroclastici, non meno che alle forme addensate e poeticamente struggenti di Anna Crescenzi o alle delibazioni grafemiche di Amhed Alaa Eddin che ha introiettato le ragioni vesuviane nel proprio d’una lettura improntata all’arabesco del dato di natura. Va poi ricordato l’impegno creativo di Ciro Cioffi che costruisce un vortice saettante ed intenso in cui si sostanziano le ragioni morfologiche e concettuali d’un vissuto territoriale all’insegna del vulcano.
E su questa lunghezza d’onda non possiamo non collocare anche l’opera di Ciro Scarpati, che privilegia, nel rapporto con la natura, un’istanza lirica, che si rivela pregnante attraverso il comporsi equilibrato di particelle apparentemente distinte, ma capaci di comporsi in un tutto organico. Le terre vesuviane, insomma – cui soprattutto questi ultimi artisti (ma non sono i soli) sembrano voler fare riferimento importante come banco di prova e luogo spirituale della sperimentazione creativa – sono l’estremo aspetto d’una scansione logica che va al di là del dato problematico della diretta influenza di Emblema sul suo ambiente circostante.
Fino a che punto, insomma, è invocabile una paideia emblemiana, l’intervento magistrale, ciò che ha potuto additare una via? Difficile dare risposta a tale domanda, anche se il dato oggettivo di molte amicizie personali, caratterizzando gli afflati intersoggettivi tra alcuni artisti ed Emblema, non lascia del tutto impraticabile l’ipotesi di referenze anche esemplaristiche vissute nel segno d’una stima e d’una indiscussa relazione col Maestro di Terzigno.
Il dato importante da rilevare è che, sul piano storico, l’area vesuviana, nel suo complesso, ha saputo offrire una forte spallata all’esigenza di rinnovamento: dalle declinazioni ancora tardottocentesche di un De Corsi o di un Sannino (e ci limitiamo soltanto ad una campionatura) sarebbero stati i Prisco o i Rea in letteratura o i Montarsolo e gli Emblema nelle arti figurative quelli che avrebbero dato un senso nuovo a ciò che potremmo definire la coscienza contemporanea della ‘vesuvianità’.
Gli artisti che hanno partecipato con entusiasmo all’omaggio ad Emblema hanno fornito certamente un tributo intelligente ed affettuoso al Maestro scomparso, ma hanno anche, al tempo stesso, scritto una pagina di non scarso rilievo lungo il solco tracciato d’una rinnovata coscienza ambientale nel rapporto tormentato e difficile, ma anche ricco ed emozionante, con la grande montagna del Vesuvio.
Inaugurazione ore 18
Organizzazione: Associazione Culturale Il Ponte Nocera Inferiore
Presentazione in catalogo di: Rosario Pinto
Ufficio Stampa: Museo Emblema tel/fax: 0818274081
Ufficio stampa: rosch@fastwebnet.it
info@salvatoreemblema.it
Museo Emblema
Via Vecchia Campitelli, 37 - Terzigno (NA)
Orari e periodi d'apertura: ore 10.00 - 13.00 e 16.00 - 20.00 solo previo appuntamento. l'ingresso è gratuito.