L'artista fu un protagonista della Pittura Analitica degli anni '70. La materia-colore, il telaio, la monocromia sono per lui elementi primari dell'azione ed inesauribili campi da investigare. Sono in mostra le sue ultime tele monocrome unite e compresse in un nuovo quadro da bulloni di ferro. A cura di Marco Meneguzzo
A cura di Marco Meneguzzo
Dopo Tomas Rajlich e Claude Viallat, la Fondazione Zappettini propone un altro protagonista della Pittura Analitica degli Anni Settanta. Enzo Cacciola, che è stato uno dei più radicali artisti di quell'epoca, continua ancora oggi la sua personale indagine pratica e teorica sulle possibilità della pittura e dei suoi mezzi. La materia-colore, il telaio, la monocromia sono infatti ancora oggi per lui non solo gli elementi primari dell'azione ma inesauribili campi da investigare anche concettualmente. Le sue ultime opere, tele monocrome unite e compresse in un nuovo quadro da bulloni di ferro, saranno visibili in via Nerino 3 fino al 30 maggio. La mostra è curata da Marco Meneguzzo
ENZO CACCIOLA è nato ad Arenzano (Genova) nel 1945.
Tiene la sua prima mostra personale nel 1971 a Genova presso la Galleria La Bertesca concenfrando l’attenzione sulle dinamiche dei rapporti piano-forme-colore. Nel 1973 inizia ad operare su nuovi materiali alternativi all’olio su tela e crea i primi pezzi materici prendendo in esame esclusivamente la superficie e i suoi dati linguistici. Nel giugno 1975 partecipa alla mostra Pittura analitica curata da Klaus Honnef e Catherine Millet con quadri in cemento tali da rilevare le problematiche relative allo spazio d’analisi offerto dalla matericità dell’opera. La partecipazione a documenta 6 (Kassel, 1977) segna una parziale rottura con il lavoro precedente, in ragione di una reinterpretazìone in chiave concettuale dell’operato (e della funzione) dell’artista.
A partire dal 1979, su queste basi, intraprende un percorso di riflessione e di ricerca che lo conduce a lavorare ed esporre oltreoceano, fra Washington, Città del Messico e Panama City. Nel 1981 si confronta con le tematiche della Transavanguardia partecipando alla mostra Pittura in radice di Achille Bonito Oliva e aprendosi così alla figurazione, che tuttavia è percepita e resa soprattutto nei suoi aspetti volumetrici e spaziali. Un passo ulteriore in direzione della compenetrazione fra figurativo e concettuale è compiuto con l’esperienza di Short memory painting (Milano, 1982), curata da Viana Conti, rivolta a registrare le “incursioni” dell’artista che inserisce la sua figura e la sua ottica in alcuni capolavori dell’arte otto- e novecentesca.
Nel 1986 riprende la ricerca sulla materia che cerca di misurare in chiave intimistica scandendo il ritmo dell’interiorità sulla partitura segnica della superficie. Intorno alla metà degli anni Novanta si situa il suo ritorno alla pittura di matrice concettuale, pittura in cui si trovano sedimentate e risolte molte delle esperienze pregresse: il cemento del concettuale, le forme di una lunga frequentazione dell’astratto geometrico, le asperità di una superficie memore dei travagli della Transavanguardia, un inedito connubio fra materia e geometria in grado di sondare e palesare l’intima natura algebrica, razionale, del reale. Gli ultimi lavori, presentati in mostre collettive, rivelano un’apertura a soluzioni compositive guidate dal concetto dell’accumulazione. Attualmente la sua sperimentazione è rivolta all’impiego di materiali nuovi concepiti per l’uso industriale.
Di recente la Fusion Art Gallery di Torino gli ha dedicato un'esposizione personale (2007). Tra le ultime mostre collettive cui è stato invitato ricordiamo Dalla Pittura analitica quattro protagonisti (Galleria 911, La Spezia, a cura di Giorgio Bonomi, 2007), Pittura analitica. I percorsi italiani 1970-1980 (Museo della Permanente, Milano, a cura di Marco Meneguzzo, 2007), Arte 70: Pittura Analitica Italiana (Bergamo Arte Fiera, a cura di Stefano Raimondi, 2008), Pittura analitica. Ieri e oggi (Arte Genova, a cura di Giorgio Bonomi, 2008), Pittura aniconica (Casa del Mantegna, Mantova, a cura di Claudio Cerritelli, 2008).
Alla Fondazione Zappettini ha già esposto in occasione di una mostra personale (Chiavari, 18 novembre 2006-6 gennaio 2007).
Vive e opera a Rocca Grimalda (Alessandria).
OGGETTO E METAFORA
Marco Meneguzzo
Di fronte ad opere che concedono assai poco alla narrazione – quasi tutte le opere astratte, e massimamente quelle astratto analitiche – l’atteggiamento che solitamente si tiene oscilla tra due polarità lontanissime: si considera l’opera per quel che materialmente è e si vede, oppure la si considera come metafora assoluta di qualcosa, solitamente del fare artistico, se non addirittura dell’arte. Sarebbe errato assumere una di queste posizioni, mentre appare molto efficace assumerle entrambe contemporaneamente: l’una, infatti, non esclude l’altra proprio per quel loro essere su piani diversi, che insieme comprendono (in senso etimologico: prendere dentro) l’opera, questo tipo di opere che di per sé vogliono essere per definizioni ineffabili, cioè indicibili.
In questo senso Enzo Cacciola ha concesso assai poco alla narrazione: quando l’ha fatto, nel 1977, in occasione di “documenta 6”, si è sottratto alla visione facendo esporre un quadro di scuola tizianesca del XVI secolo, e spiegando in una lettera (esposta anch’essa) le tattiche “per sopravvivere all’interno della categoria arte”. Come a dire che la strategia dell’artista può anche escludere la presenza dell’oggetto/opera (azione radicale da pieni anni settanta…), ma soprattutto che nel suo caso la narrazione, o ancor peggio il racconto, non sono compatibili col concetto/opera. Ci interessa relativamente poco quanto salato Cacciola abbia pagato quell’atteggiamento, che coerentemente lo ha tenuto lontano dalla scena artistica per molti anni, ciò che ora ci importa è notare come con quell’atto l’artista abbia escluso dal suo orizzonte proprio tutto ciò che “sta in mezzo” a quei due poli operativi ed ermeneutici di cui abbiamo parlato sopra.
L’operatività compete all’artista, l’ermeneutica può anche essere delegata (benché negli anni settanta questa facesse parte integrante dell’essere artista) con buoni risultati: l’ermeneutica, cioè l’arte dell’interpretazione, del lavoro di Cacciola, non può non passare che tra i due fuochi dell’oggettualità fisica e della metafora sull’arte, tralasciando appunto ciò che “sta in mezzo”.
L’attenzione all’oggetto fisico, alla fisicità si percepisce immediatamente, sia nelle opere degli anni settanta – solitamente una stesura volutamente anonima di cemento – sia in quelle attuali, dove elementi diversi sono fermati e tenuti insieme da una materia colorata e morbida come il silicone, e dalla forza meccanica di viti e bulloni. Le superfici, dunque, per quanto simili nelle scelte cromatiche, sono costrette a stare insieme da una forza esterna, che nelle sbavature del multigum (la materia molle che si interpone tra di esse), mostra di essere quasi violenta…ma con questo aggettivo ci stiamo già addentrando nel territorio della metafora, ché l’aspetto oggettuale si è esaurito nella mera descrizione (anzi, questo aspetto dovrebbe limitarsi alla pura ostensione dell’oggetto, all’indicare l’opera senza tentare di descriverla, e già questo farebbe parte della sua interpretazione…).
Metafora di cosa, dunque? Dell’arte, ma ancor più dell’artista. Per l’arte, per l’opera si può parlare in questo caso di una superficie che è contemporaneamente la chiarezza del colore ma anche l’oggetto, il supporto: da un lato, dunque, l’astrazione pura, dall’altro il suo corrispettivo oggettuale, come a dire che non si dà concretezza all’idea senza scendere a compromessi con la materia (e qui la materia è costretta, pressata, fissata, fermata); per quanto riguarda invece l’azione dell’artista, è proprio questa manualità meccanica a dare contezza del suo fare, quasi che, per sopravvivere nella “categoria arte” - come aveva scritto negli anni settanta – non ci si potesse che mimetizzare dietro l’umiltà del lavoro: del muratore, quando si parlava di cemento, del meccanico oggi. Non sembri irriverente questo pensiero: nel momento della teorizzazione, oggi come negli anni settanta, Cacciola coscientemente si eclisserebbe.
La Fondazione Zappettini si è costituita nel 2003 a Chiavari con lo scopo di assicurare la conservazione, la tutela e la valorizzazione dell’opera e del patrimonio artistico di Gianfranco Zappettini. Tra le principali finalità della Fondazione vi è quella di favorire una migliore conoscenza sia in Italia che all’estero, tramite la promozione di mostre antologiche, pubblicazioni d’arte e di iniziative di ricerca e di studio, dell’opera dell’artista. La Fondazione ha sede in una villa liberty nel centro di Chiavari e ha in donazione un’imponente collezione di opere del maestro dagli anni ’70 a oggi. Nel maggio 2005, è stato inaugurata la seconda sede nel prestigioso spazio nella centralissima via Nerino a Milano, in un palazzo settecentesco a due passi da piazza Duomo. L’obiettivo è costituire il maggiore centro di studi sulle arti visive degli anni ’70, con particolare attenzione verso la “pittura analitica”. Questo centro di documentazione, oltre all’attività espositiva, garantisce un servizio aggiornato di informazione bibliografica, fotografica e audiovisiva e fornisce anche una consulenza specializzata, oltre che ai singoli studiosi, a redazioni di riviste e periodici, a case editrici e ad altre associazioni promotrici di mostre sia in Italia che all’estero. L’archivio della Fondazione e la sua collezione sono destinati a creare infine un vero e proprio museo, rappresentativo dei più significativi autori della pittura analitica, punto di riferimento internazionale di questo specifico settore.
Inaugurazione mercoledì 2 aprile ore 18
Fondazione Zappettini
via Nerino, 3 Milano
dalle 15 alle 19, sabato e festivi chiuso
Ingresso libero