La mostra e' tutta materializzata intorno al linguaggio. La sua strategia linguistica sembra galleggiare tra presenza e assenza; la parola, materia cristallizzata, appare sul punto di sciogliersi e vivere autonomamente prendendo la forma del trasalimento dell'anima.
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Pinksummer: Artaud ha scritto a proposito del suo teatro: "Popolare
lo spazio per coprire il vuoto, è ritrovare il cammino del vuoto".
Artioli e Bartoli in uno straordinario saggio su Artaud hanno
ricondotto la metafisica linguistica artaudiana a quella situazione
di sospensione che ricerca il punto vibratile in cui ciò che è forma
comincia a svanire, materia dissociata che produce energia,
soffio, distruggendo il feticismo del testo e il nesso tra
significato e significante. Tale parola non è raptus incontrollato,
ma conoscenza delle leggi della vita che oscillano tra pieno e
vuoto con un ritmo duale centrifugo e centripeto. Questa tua
seconda personale da pinksummer è materializzata dal e sul e intorno
al linguaggio. La tua strategia linguistica sembra galleggiare tra
presenza e assenza; la tua parola, materia cristallizzata, appare
sul punto di sciogliersi e vivere autonomamente prendendo la forma
del trasalimento dell'anima. Il primo spettatore di questa mostra
sembri essere tu: nella scena teatrale artaudiana concepita in modo
circolare il vuoto sta al centro, nel punto in cui si trova lo
spettatore, il pieno sta ai margini, in procinto di essere
inghiottito dal nulla.
Cesare Viel: Ho sempre avuto una forte attrazione per il vuoto e i
precipizi. Da bambino mi affascinava esporre una bambola al di là
della ringhiera del mio balcone, al sesto piano. Restavo a guardare
il corpo del giocattolo sospeso nel vuoto, tenuto solo dalla mia
mano. Provo sempre un brivido creativo quando vedo i tuffatori che si
lanciano dal trampolino più alto e, nel giro di qualche secondo, si
trasformano in proiettili perpendicolari che bucano la superficie
dell'acqua. E' come trovarsi sul bordo di una diga e osservare da una
parte il lago d'acqua, dall'altra il muro verticale di contenimento,
e sentire la forza immensa dell'energia lì presente. Da adulto ho
capito che queste esperienze sono profondamente collegate al duplice
stupore per l'esistenza – la sua meravigliosa e sconcertante gratuità
– e per il linguaggio che ci contiene, ci descrive, cerca di render
conto di questo vuoto, di perimetrare questa sensazione di
precipizio. Il linguaggio è forse come la mano del bambino che tiene
in pugno il giocattolo sospeso nel vuoto, mentre osserva se stesso,
il giocattolo, l'orizzonte dellospazio in cui è immerso, tutte le
cose intorno, il contesto complessivo - e imprendibile – di questa
situazione.
Le parole possono far vedere tutto questo, anche quando
non è più presente. Il linguaggio crea le immagini e nello stesso
tempo può dissolverle. Questa capacità del linguaggio di costruire e
dissolvere, far vedere eandare al di là del vedere, è per me un
nucleo di energia potentissima.Dentro il linguaggio c'è una tensione
ad uscire da se stesso, e c'è per questo anche una mancanza, un
vuoto, che attrae. I primi spettatori di questo spettacolo
dell'esistenza e del linguaggio non possiamo che essere noi stessi
mentre facciamo questa esperienza, e poi cerchiamo di farla vedere
anche agli altri, stupiti che non ce l'abbiano indicata subito come
la cosa più importante. Perché non ce l' hanno voluta raccontare
questa esperienza del vuoto in sé quando eravamo bambini? Per non
spaventarci, per proteggerci? Perché è inspiegabile, paradossale,
insopportabile da gestire? Non si finisce mai di fare i conti con il
vuoto, con la mancanza di fondamenti. Artaud lo ha capito e
attraversato fino in fondo.
P.: Platone nel "Fedro" muove da un discorso sull'amore e sulla
bellezza per rivendicare il valore ontologico della parola
affermando che il discorso del retore è basato sull'opinione e sul
criterio della verosimiglianza e pertanto può dire tutto e il
contrario di tutto, mentre il discorso del filosofo è basato sulla
conoscenza dell'oggetto intorno al quale si parla e sulla conoscenza
dell'animo degli uomini che il discorso deve persuadere. In questo
senso Socrate, nel dialogo platonico, distingue l'oralità dalla
scrittura: "Il vero libro del filosofo non è quello che egli scrive
sulla carta, bensì quello che egli scrive nell'anima degli uomini".
Paragona la scrittura a un gioco, quello del "giardino di Adone", in
cui per festeggiare Adone si seminavano in vaso dei semi che
fiorivano e sfiorivano in pochi giorni senza produrre frutti, mentre
l'oralità al lavoro dell'agricoltore che porta alla raccolta del
frutto, frutto che genera altri semi, e dunque l'oralità per Platone
è linguaggio immortale. Il tuo linguaggio, anche rispetto al lavoro
performativo, sembra cercare l'identità tra oralità e scrittura, in
entrambi i casi tu cerchi una distanza dalla tua parola, l'hai già
abbandonata a se stessa: anche in presenza del gesto, la parola è già
stata pronunciata e tu rimani muto. La parola aleggia nell'aria come
eco, ormai lontana da te.
Cesare Viel: Fin dai miei primi lavori mi sono accorto che ero
trascinato dalla parola. La parola mi diceva e mi oltrepassava.
Dentro la dimensione indicale della scrittura a mano – del gesto e
dell'azione dello scrivere – scaturisce un moto perpetuo di
potenzialità del linguaggio. Dalla parola scritta alla parola detta –
la grana della voce – il gioco di rimandi è infinito. Quando faccio
un lavoro di parola non so mai che cosa nasca prima, se l'oralità o
la traccia scritta del pensiero. Vengono insieme, sopraggiungono, si
presentano insieme, e nello stesso tempo sono già divise dentro. Sono
già spezzate, attraversate nella loro contingenza. Non cerco di
ricomporle – l'oralità e la scrittura – pretendendo da loro una
prestazione unitaria e monolitica: un'astratta e unica voce. Mi fanno
presente il loro diritto di esistere. Allora cerco di rispettare le
loro differenze, il loro molteplice - e amoroso - rapporto. Cerco di
far emergere la loro reciproca sconnessione. La parola si manifesta
in molte forme: scritta, vista, pronunciata, cantata, pensata,
rimossa, ascoltata, letta, agìta. E' subito presa in un'
interminabile relazione plurale, singolare, privata e pubblica. L'eco
è ciò che resta della parola che non è più tua ma ti chiede
ugualmente di essere ripresa, ancora e ancora, per riproporla in un
circuito che non vuole finire mai.
P.: Rispetto alla sospensione creata dal linguaggio in questa tua
mostra, ci viene da guardare verso l'inespresso, o meglio verso
l'inesprimibile inteso come impossibilità a esprimere descritta con
meravigliosa eloquenza lirica dal Dante del Paradiso, ma con
altrettanta pregnanza e concretezza da Wittgenstein nel Tractatus, il
quale cercando una struttura linguistica logicamente perfetta basata
su un rigido parallelismo con la realtà, traccia un limite davanti al
nostro pensiero: "su quello di cui non si può parlare occorre
tacere", la saggezza sta dunque nel silenzio e l'etica nella parte
non scritta del Tractatus. Ammesso dunque che esista il
soprasensibile, esso non può essere espresso dal nostro linguaggio
essendo il linguaggio il confine invalicabile del nostro mondo
costituito da fatti. Al di là di quel limite non può esistere
espressione, e ammesso che esista essa non ci appartiene. In quel
limite qualcuno ha intravisto il misticismo di Wittgenstein: il
mistero della fede. In questa tua mostra la parola sembra tentata di
incamminarsi oltre a quel limite, lo fa intuire a chi ascolta, a chi
legge, e proprio in chi ascolta, in chi legge essa trova la
concretezza del limite e nel contempo la sua possibilità.
C. V.: Qui, per me, si affaccia la questione centrale del corpo – e
intendo anche quello dell'arte -. A volte il corpo vuole dormire fino
a tardi - restare a lungo nel buio -, a volte si alza all'alba e
cerca il contatto con la prima luce del giorno. La motivazione di
questi comportamenti è del tutto esprimibile? Resta in fondo, dopo
tutto ciò che riusciamo a spiegare, un residuo che si fa sentire, che
continua a resistere e che non si può dire. E' questa resistenza a
dirsi che mi interessa. Ciò che non si può esprimere lo si indica, lo
si mostra, ha detto Wittgenstein. Il corpo agisce l'inesprimibile, e
il linguaggio è un corpo. Ciò che non si può dire è lì davanti a noi,
e noi lo vediamo. Come al mattino la prima luce del giorno. L'arte va
là, e insiste, dove si annida l'inespresso. Tutta la mostra lavora
intorno – e grazie – a questa dimensione.
P.: Come si articolerà il tuo progetto da pinksummer?
C.V.: Tre nuove opere: "Avvicinandoti a distanza" che affronta la
dimensione verticale e frontale; "Ti sento passare" quella allargata;
"Mi trovavo a casa" quella circolare, intima e avvolgente. Ruotano
attorno a un evento personale, intenso. Un passaggio del limite, un
incontro col vuoto, con un'assenza, con un silenzio che si
trasferisce e vive nel linguaggio: camminare sui suoi margini per
indicarne la forza fantasmatica e rigeneratrice. Nucleo carico di
energia che si relaziona con lo spazio, e si consegna apertamente
alla lettura, all'ascolto, pubblico e plurale – sia letterale – sia
metaforico – degli altri.
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Pinksummer: Artaud wrote the following pertaining to his theatre:
"Populating the space to cover emptiness, is finding the path back to
emptiness". Artioli and Bartoli, in an extraordinary essay on
Artaud, brought Artaudian metaphysic linguistics to a situation of
suspension that searches for the vibratile point in which what is
shape begins to vanish, dissociated matter that produces energy,
huff, destroying the fetishism of text and the link between signified
and signifier. Such words are not uncontrolled raptus, but knowledge
of the laws of life that fluctuate between fullness and emptiness
with a dual centripetal and centrifugal rhythm. This second "solo"
show of yours at pinksummer is materialized from, on and around
language. Your linguistic strategy seems to float between presence
and absence; the word, crystallized substance, seems to be on the
point of dissolving and yet live autonomously, taking the shape of
the sudden freight of the soul. You seem to be the first onlooker of
this show: in the Artaudian theatrical stage, conceived in a circular
way, emptiness is at the centre, at the point where the spectator
stands, while fullness is on the outskirts, on the verge of being
swallowed by nothingness.
Cesare Viel: I've always had a strong attraction for emptiness and
for precipices. Since I was a child I was fascinated by exhibiting a
doll on the other side of the railing of my balcony, on the sixth
floor. I stood, staring at the body of the toy suspended in
emptiness, just being held by my hand. I always feel a creative
shudder when I see divers jump from the highest springboard and, in a
few seconds, transform themselves into perpendicular projectiles that
pierce the surface of the water. It is like being on the edge of a
dam and looking, from one side, at the lake of water, and on the
other the vertical wall of restriction, and feeling the immense force
of the energy that is there. As an adult, I understood that these
experiences are deeply connected to the double amazement for
existence – its wonderful and disconcerting gratuitousness – as well
as for the language that contains us, describes us, and tries to
translate this emptiness, to limit this feeling of precipice. Perhaps
language is like the hand of the child that holds the toy suspended
in emptiness, while observing himself, the toy, the horizon of the
space in which he is immersed, everything around, the whole – and
uncatchable – context of this situation. Words let you see all of
this, also when it is no longer present. Language creates images and
at the same time it can dissolve them. This ability of language of
building and dissolving, of letting seeing and going beyond what can
be seen, is for me like a core of very powerful energy. Inside
language there is a tension to escape from itself, and for this
reason there is also a loss, an emptiness that fascinates. The first
onlookers of this show of existence and language cannot be but us
having this experience, and then us trying to show it to others,
amazed by the fact that they have not immediately pointed it out to
us as the most important thing. Why didn't they want to tell us about
this experience of void itself when we were children? Not to frighten
us, to protect us? Because it is inexplicable, paradoxical,
unbearable to manage? We never stop dealing with the void, with the
lack of foundations. Artaud understood that and went through to the
bottom of it.
P: Plato in "Phaedrus" moves from a talk about love and beauty to
claiming the ontological value of the word, affirming that the speech
of the rhetorician is based on the opinion and on the criterion of
likelihood, so we can say everything and the opposite of everything,
while the speech of the philosopher is based on the knowledge of the
object of which we speak, and about the knowledge of the mind of men
who the speech must persuade. In this sense Socrates, in the platonic
dialogue, distinguishes orality from writing: "The true book of the
philosopher is not what he writes on paper, but what he writes in the
soul of men". He compares writing to a game, that of the "garden of
Adonis", in which, in order to celebrate Adonis, seeds were sowed in
a pot to blossom and wither in a few days without producing fruits,
and orality to the work of the farmer who tends to harvest, fruit
that produces other seeds, and therefore for Plato orality is
immortal language. Your language, also considering your performatory
work, seems to seek an identity between orality and writing, in both
case you seek for a distance from your own word, you have already
abandoned it to itself: also in presence of a gesture, the word has
already been pronounced and you remain mute. The word fluctuates in
air like an echo, by now far from you.
C.V.: Since my first works, I've been aware that I was taken in by
words. Words told me and exceeded me. Within the indical dimension
of handwriting – of the gesture and the action of writing – a
perpetual movement of language potentials come out. From the written
to the spoken word – the grain of voice – the game of returns is
infinite. When I create a work with words I never know what comes
first, if the orality or the trace written in the thought. They
arrive, come up, present themselves together, and at the same time
are already split up. They are already broken, crossed by in their
contingency. I do not try to reassemble them – the orality and the
writing – expecting that they form a unitary and monolithic
performance: an abstract and a unique voice. They show me their
right to exist. And so I try to respect their differences, their
manifold - and loving - relationship. I try to make their reciprocal
incoherence emerge. Words are shown in many shapes: written, seen,
pronounced, sung, thought, dismissed, listened to, read, acted. It is
immediately taken into an endless plural, singular, private and
public relation. Echo is what remains of words that are no longer
yours but that however ask you to be taken, again and again, to
repropose them in a never ending circuit.
P.: Regarding the suspension that language creates in your show, we
tend to look towards the unexpressed, or better towards the
inexpressible, meant as the impossibility to express described with
wonderful lyrical eloquence by Dante in the Paradiso, but as well and
with as much significance and concreteness by Wittgenstein in the
Tractatus, who, looking for a perfectly logical linguistic structure,
based on a rigid parallelism with reality, traces a bound in front of
our thought: "about what we cannot talk, we must keep silent".
Therefore, wisdom is inside silence and ethics in the unwritten part
of the Tractatus. Admitted, then, that the supersensible exists, it
cannot be expressed by our language, the language being the
impassable boundary of our world made by facts. Beyond that limit
there can be no expression, and admitted that expression exists, it
doesn't belong to us. In that limit someone has foreseen
Wittgenstein's mysticism: the mystery of faith. In your show the word
seems tempted to start off beyond that limit, letting listeners, and
whoever reads, sense it, and exactly in who listens, in who reads it,
it finds the concreteness of the limit and at the same time its
possibility.
C. V.: Here, for me, comes the central question of the body –and here
I intend that of art too-. Sometimes the body wants to sleep until
late - staying long in the darkness -, sometimes it wakes up at dawn
and seeks contact with the first daylight. Is the reason for these
behaviours completely expressible? After all we can explain, a
residue that wants to be heard, that continues to resist and cannot
be told stays at the bottom. It is this resistance to tell itself
that interests me. What can't be expressed we indicate, we show,
Wittgenstein said. The body acts the inexpressible, and language is a
body. What can't be said is in front of us, and we see it. Like, in
the morning, the first daylight. Art goes there, where the
unexpressed is nested, and insists. The whole show works around –
and thanks – this dimension.
P: How will you articulate your project at pinksummer?
C. V.: Three new works: "Avvicinandoti a distanza" that deals with
vertical and frontal dimensions; "Ti sento passare" that deals with
width; "Mi trovavo a casa" that deals with a circular, intimate and
deceiving one. They revolve around an intense, private event. A
crossing of the limit, a meeting with the void, with an absence, with
a silence that moves to and lives inside language: walking on its
edges to indicate its phantasmal and regenerative force. A nucleus
loaded with energy that relates with space, and openly gives itself
up to be read, the listened to, publicly and plurally – both
literally and metaphorically– of the other.
Inaugurazione Giovedì 29 Maggio 2008 h. 18.30
Pinksummer
piazza Matteotti, 28R - Genova
Orari: Martedì/Sabato 15-19.30 e su appuntamento
Ingresso libero