Galleria degli Archi
Comiso (RG)
via Calogero, 22
0932 968025 FAX

Arturo Barbante
dal 30/5/2008 al 29/6/2008
mar-dom 17- 21

Segnalato da

Galleria degli Archi




 
calendario eventi  :: 




30/5/2008

Arturo Barbante

Galleria degli Archi, Comiso (RG)

Esposte le recenti opere su carta, acquerelli, acrilici, tecnica mista e altre materie dell'artista poliedrico che si esprime con la pittura e la grafica. La mostra e' curata da Carmelo Arezzo, Francesco Ereddia.


comunicato stampa

a cura di Carmelo Arezzo, Francesco Ereddia

Dal 31 maggio 2008 i locali della Galleria degli Archi(RG) accoglieranno la mostra Arturo Barbante|Carte a cura di Carmelo Arezzo, Francesco Ereddia. Saranno esposte le recenti opere su carta,acquerelli, acrilici, tecnica mista e altre materie di Arturo Barbante. Artista poliedrico e raffinato grafico, che si è anche adoperato,con naturale predisposizione creativa, per la sua città di Vittoria, spendendosi frattanto tra una militanza civile e culturale e il ritrovato impegno personale verso la pittura,la figurazione. L’esposizione rimarrà aperta fino al 30 Giugno 2008.

Sarà una deformazione prodotta dalla mia attività pluridecennale, cioè la ricerca storica, che mi porta a cercare di inquadrare nel tempo e nello spazio fatti concreti e reali suffragati dall’interpretazione di documenti anch’essi reali.
Sarà fors’anche quell’altra mia più antica deformazione, provocata da una formazione di base prevalentemente materialistica e storicistica che, come un habitus mentale ormai per me imprescindibile (o, se si preferisce, come un limite ormai da me invalicabile) mi induce inevitabilmente — di fronte a un’espressione qualsiasi dell’arte (letteraria, musicale, figurativa) — a vederla come ‘sovrastruttura’ e a cercarne le ‘strutture’ (socio-economiche e politiche) che l’hanno prodotta.

Sarà, insomma, questa mia ritrosia di fronte all’estetica pura, che da secoli si sforza di offrire canoni e parametri per l’individuazione nell’arte del “bello” e del “sublime”, secondo elucubrazioni di kantiana memoria (consistendo il “bello” nella ‘forma’ dell’oggetto e il “sublime” trovandosi non nelle cose, bensì nell’uomo: ma il problema, rispetto alla nostra schematica e semplicistica affermazione, è posto da Immanuel Kant in maniera ben più complessa e non senza qualche contraddizione). Senza dire di una certa qual mia diffidenza (forse dettata da pura incapacità o comunque reale mia difficoltà di comprendere) verso gli artisti e le correnti (non solo) pittoriche che nello scorcio del Novecento hanno decretato la morte dell’Arte con la maiuscola, avviando quella rete aggrovigliata di tendenze, correnti e movimenti in cui è assai difficile orientarsi: l’arte informale e quella del new dada, il nouveau realism e l’arte concettuale, l’arte povera e la minimal art. E chi più ne ha più ne metta.

Sarà per le ragioni sopra esposte e/o per altre che a me stesso sfuggono. Fatto sta che “non mi faccio persuaso” (come direbbe il Montalbano di Camilleri) che un artista — un pittore, mettiamo — possa essere correttamente interpretato senza cercare di indagare la sua personalità artistica e la sua produzione all’interno di un cerchietto ideale. Un piccolo cerchio che, a rappresentarlo graficamente, costituisce simbolicamente il punto d’incontro delle due coordinate — sì, proprio quelli, gli assi cartesiani di scolastica memoria — cui nelle battute iniziali di questa mia nota accennavo in maniera un po’ vaga e, temo, quasi criptica: l’una quella dello spazio e l’altra quella del tempo.

Guardando i suggestivi acquerelli di Arturo Barbante, quindi, puntiamo subito all’individuazione delle due coordinate di cui dicevamo, evitando con la massima cautela i funambolismi cerebrali della critica kantiana o, se si preferisce, idealistico-trascendentale o, ancora — secondo l’icastica e felicemente evocativa definizione di un illustre storico della letteratura italiana, Carlo Muscetta, anche lui supercilioso nei confronti delle critiche d’arte sospese fra il cielo e la terra — “trasminchiale”.
E a proposito di “terra” e della necessità inderogabile di starci con i piedi saldamente piantati sopra, il retroterra artistico e culturale di questa nuova produzione pittorica e grafica di Barbante va ricercato, a nostro modesto parere, e nel New Dada prima da noi citato — movimento statunitense degli anni Cinquanta che puntò sugli oggetti di consumo quotidiano e sul rapporto che questi hanno con la sensibilità dell’artista — e, soprattutto, nella filiazione di quello, la Pop-Art, che esplose negli Stati Uniti negli anni Sessanta e dilagò poi nel resto del mondo.

C’è un filo rosso che collega intimamente gli hot-dog così ricorrenti nella produzione di Barbante — ognuno di essi è una sorta di informe torre di Babele alimentare, così alti, stratificati sono quei tramezzini, così pantagruelici nella loro quasi ripugnante ridondanza di sughi che debordano d’ogni parte — ai prodotti alimentari della pop-art, quelli che la pubblicità della società dei consumi proponeva
allora (e oggi ancor più di ieri) e che l’artista si divertiva a rappresentare facendo il verso al linguaggio pubblicitario. E lo stesso discorso vale anche per i quarti di animale appena macellato: grondanti di sangue, essi ci mettono in maniera desolante di fronte alla nostra natura essenzialmente carnivora. Cibi enfatizzati dall’arte del nostro artista, tanto quanto lo sono dalla pubblicità dei giornali e della televisione. Destinataria di essi una parte dell’umanità ipernutrita e ipervitaminizzata; mentre ogni anno muoiono di fame più di cinque milioni di bambini.

Come tutti gli artisti della pop-art — nell’immaginario mondiale gli emblemi di essa sono le bottigliette di Coca-Cola dipinte realisticamente in file sovrapposte e l’immagine leggendaria, quasi un’icona universale, di Marilyn Monroe, due capolavori del caposcuola Andy Warhol —, così anche Barbante parte dalla pubblicità per smascherare la sfrontata mercificazione dell’uomo moderno. Usando lo stesso linguaggio degli spot, manipolando abilmente immagini, oggetti e simboli già prodotti a scopo industriale, pubblicitario o economico.
Così è per le scarpe sportive, ‘riprodotte’ con mano veloce e stilizzate con tratti semplici ma sicuri e geniali da Barbante. Perché — è appena il caso di sottolinearlo —, non è che chiunque riproduce un tramezzino o una scarpa o roba simile è un artista. Se non ha il genio dell’artista, se non ha la creatività, se non ha il dominio della forma e del colore, è destinato a restare “un semplice untorello”, per usare la definizione di Antonio Gramsci. Nelle mani e nel pennello dell’artista Arturo Barbante quelle scarpe diventano icone, anzi veri e propri feticci della nostra società posseduta dal demone del fitness e del benessere fisico ad ogni costo. Si trasformano, da naturale accessorio d’abbigliamento e da elementi complementari, in esseri, quasi, dotati di una forma e di una vita propria: d’altronde, non è stata di recente inventata (pardon, creata) la “scarpa che respira”?

Così è anche per i lottatori e i tuffatori del nostro artista: groviglio di corpi, gli uni, corpi isolati e statuari, gli altri; ma che rivelano tutti, sotto il tenue velame di una pelle sottile e trasparente (quasi una pellicola, che mi fa pensare a quella in cui avvolgiamo per congelarli i prodotti alimentari), la stessa sanguinolenta carnalità di muscoli e tendini dei quarti d’animali appena macellati.
E gli altri esseri umani? Barbante li rappresenta come gruppi anonimi o senza volto, interiormente soli: o, al più, in compagnia di un cane, garanzia di sincero affetto e istintiva lealtà. Esseri che l’artista incontra e vede ogni giorno, nello spazio vitale in cui vive e opera. E di questo ‘spazio’, che è quello a cui noi di questa terra apparteniamo, cioè quello degli Iblei, la carruba — riprodotta dal pittore in tante tonalità di colore (tranne quello suo naturale) — è l’emblema più caratteristico e caratterizzante.

Essa ci riporta istantaneamente all’infanzia, a quel periodo del dopoguerra italiano caratterizzato da un tenore di vita “semplice e genuino”, come eufemisticamente si esprimono tanti ipocriti laudatores temporis acti, cioè, diciamo noi fuor di metafora, dalla povertà. Questo frutto povero ci fa pensare ai tanti sciuscià iblei, ai calzoni tenuti su dallo spago, alla voluttà di prenderla a morsi, sudati, sporchi e affamati dopo interminabili scorribande. Ma oggi è purtroppo anch’essa fagocitata dall’industria alimentare e destinata a prelibatezze e raffinatezze dolciarie d’ogni sorta, per di più in nome di fantomatiche tradizioni gastronomiche e al fine di recuperare antichi (ma in realtà fasulli, frutto piuttosto della mistificazione turistica e industriale) “sapori” iblei. Anch’essa, la ‘povera’ carruba, “inghiottita”, in fondo, dal vortice, dal pozzo nero del consumismo.
Francesco Ereddia

Arturo Barbante
Vive a Vittoria, dove è nato nel 1944 e dove ha insegnato fino al 2001 Disegno e Storia dell'Arte negli istituti medi superiori. Si è occupato di tradizioni popolari e di folclore, traendone spunto per proporre, anche a fini di promozione turistica, manifestazioni come Il corteo di re Cucco, nella frazione di Scoglitti, e Il Presepe monumentale notturno, a Vittoria. In tutti questi anni ha contribuito significativamente alla vita culturale della sua città, dando vita a manifestazioni e mostre, tra cui l'allestimento nel Museo Polivalente di Vittoria della Mostra didattico-documentaria sulla città. Cura costumi e scenografie della Sacra Rappresentazione del Venerdì Santo, che si tiene ogni anno in occasione della Pasqua a Vittoria. Altro campo nel quale si è impegnato è la grafica per l'editoria e la pubblicità.

vernissage sabato 31 maggio 2008 - h 19,00

Galleria degli Archi – Comiso (RG)
orari da martedì a domenica dalle 17 alle 21 (Fuori orario su appuntamento)
biglietti ingresso libero

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Gabriele Vaccaro
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