In mostra cangianti forme pittoscultoree dove niente e' lasciato all'improvvisazione, ma dove un'aggregante progettualita' assembla i piu' insignificanti scarti della societa'.
a cura di Antonio Gasbarrini
Le cangianti forme ermafrodite (pittura & scultura) di Marilena Troiano
di Antonio Gasbarrini
La sacralità misterica di una materia che proprio in quanto tale è già pre/forma naturale, ma anche energia (e l’élan, lo slancio vitale di Bergson insegna in proposito), non impedisce ad un’artista sensibile come Marilena Troiano di avvicinarvisi il più possibile. Non già per scalfirne l’aura – estremamente esigente nel reclamare la giusta, dovuta distanza dal tempospazio infinito separante l’indicibile e il non vedibile dalla profanazione voyeuristica di ogni sguardo indiscreto –, ma per riproporne, con la mediazione della transustanziazione estetica (della bellezza cioè), le pieghe e gli anfratti più intimi, non spiegabili con la sola esplorazione ultramicroscopica delle invisibili particelle subatomiche.
E, se nell’impredicibile regno dell’infinitamente piccolo, sono il caso, l’anarchia e la probabilità a dominare l’esistenza infinitesimale o eterna (penso ad un fotone girovagante tra un universo e l‘altro nel corso delle loro inarrestabili espansioni, big crunch permettendo), in queste cangianti forme ermafrodite pittoscultoree o scultopittoriche – se si preferisce – dell’artista lucana, niente è lasciato all’improvvisazione indeterministica, dove il rapporto tra causa ed effetto delle “presunte” leggi di natura viene meno: qui, un’aggregante progettualità, assembla negli spenti crateri-grotte di Mnemosine, i più insignificanti scarti memoriali della società, consumistici, in particolare.
Nelle sue opere maturate nell’humus culturale del neo-espressionismo tedesco (Kiefer in particolare) e del neo-umanesimo utopico di Joseph Beuys (artisti studiati e conosciuti negli anni della sua formazione in terra germanica dove è vissuta per molti anni), è la lacerazione, la non rimarginabile ferita di un demenziale stupro inferto alla Natura (umana, vegetale, minerale e spaziale, tanto per intenderci) a fare da leitmotiv in questa mostra personale all’Angelus Novus.
Già i titoli dati alle sue opere (Germinatoio, Forza vibrante, Rigenerazione, Sinergie, Recupero, Utopia, Anamorfosi…) – ed i titoli non sono mai neutrali – chiariscono molto bene il movente poetico di una ricerca protesa a catturare emblematici frammenti memoriali di quel mistero, all’interno di una sagomata superficie poligonale tridimensionalizzata che richiama subito alla mente sezioni irregolari, quasi ritagliate dai “regolarissimi” solidi platonici descritti nel Timeo («Ora bisogna dire quali siano i quattro bellissimi corpi dissimili tra loro, dei quali alcuni sono capaci, dissolvendosi di generarsi reciprocamente. E se lo scopriamo abbiamo la verità intorno all’origine della terra e del fuoco, e dei corpi che secondo proporzione stanno in mezzo»).
Mentre per Platone nello spazio a tre dimensioni quattro triangoli equilateri danno vita al tetraedo (il germe del fuoco), otto all’ottaedro (aria), centoventi triangoli solidi congiunti insieme all’icosaedro (acqua), il triangolo isoscele è a sua volta il generatore del cubo o “tetragono equilatero” (terra), e, con la quinta ed ultima combinazione, il dodecaedro, il deus ex machina «se ne giovò per decorare l’universo», infinite sono, invece, le non-idealistiche, frattaliche combinazioni geometriche ravvisabili negli screziati altorilievi pittoscultorei di Marilena Troiano.
Frattaliche in quanto un ancestrale richiamo ai selvaggi profumi perduti della Terramadre (plastica e metallo, anche se possono odorare, giammai profumeranno) annidati ora nella vulva-ferita in cui sono assemblati materiali poveri vegetali (arbusti, pigna, semi, frutta, bacche, rametti…) e artificiali (plastiche, lattine, strutture di bambola…), assurgono a reperti metonimici in cui il particolare dei singoli detriti e scarti, rimanda alla “scassata” immagine di un armonioso, euritmico Tutto entropicamente evocato.
I tellurici dislivelli della spiegazzata cartapesta incollata su tela, assecondano e rafforzano plasticamente queste non-euclidee superfici riconducibili alla cosiddetta “Geometria della natura” tanto cara al suo scopritore, il matematico Benoit Mandelbrot, superfici addolcite dai riverberi luministici di colori pressoché monocromatici, sempre caldi, però, nelle loro piccole variazioni pigmentali a base di terre.
Una convergente assonanza dialettica tra pittura e scultura, non-bidimensionalità della superficie, vuoto e pieno, visibile e invisibile, luci ed ombre particolarmente aggrovigliate nei crateri in cui sono stati inghiottiti gli “oggetti dimenticati” (scarpa di contadino inclusa, quella stessa scarpa dipinta da Van Gogh ed assurta nella filosofia di Martin Heidegger a paradigma della messa in opera della veritài), impone, nel guardante, un indugio prolungato nei pressi di ogni singola opera-evento per carpirne al meglio gli indovinati esiti della forma sì, ma anche i risvolti linguistici attestati su una modernità lessicale assai lontana da ogni cerebrale concettualismo.
L’autenticità dell’opera, quando è tale, non deriva dalle buone intenzioni dell’artista, ma dalla sua effettiva riconoscibilità da parte del fruitore. Le croste e le non-opere abortite sul nascere, una volta esibite, arretrano e si nascondono per la vergogna diventando invisibili ad un occhio esperto, mentre le “opere-opere” catturano subito l’attenzione anche di sguardi smaliziati o sofisticati.
Ecco perché l’ermafrodita ibridazione pittoscultorea dell’artista lucana consente a quell’indugio di scoprire tutta la poesia celata dentro l’apertura-feritoia dove delle mini installazioni poveriste sussurrano sottovoce i disarmanti versi scritti con i graffiti incisi sulle sconnesse pareti di grotte scavate nei sassi.
Per non tacere poi delle boccioniane linee-forza di tesi spaghi fissati con qualche punta di ceralacca sull’aggettante superficie, generanti un cortocircuito immaginifico tra una rammemorante memoria impacchettata, e quelle stipate schegge testimoni di un tempo futuribile ed “a venire”, ma già a portata di sguardo: il tempo dell’arte e della poesia di Marilena Troiano, appunto.
Inaugurazione mercoledì 4 giugno 2008 alle 17.30
Angelus Novus
via Sassa 15, L'Aquila
Orario visite: 17-20
ingresso libero