Room Arte Contemporanea
Milano
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Marco Rambaldi
dal 25/6/2008 al 30/7/2008

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Marco Rambaldi



 
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25/6/2008

Marco Rambaldi

Room Arte Contemporanea, Milano

"Le varie modalita' di aggressione dei linguaggi artistici tardo-novecenteschi e contemporanei si pongono, nelle opere di Rambaldi, all'insegna dell'ironia. E' grazie all'apporto salvifico di un sostanziale disincanto che quei linguaggi possono sussistere e agire senza la pena di una loro stanca reiterazione" (Sandro Sproccati).


comunicato stampa

Le varie modalità di aggressione – piú ancora che di adibizione – dei linguaggi artistici tardo-novecenteschi e contemporanei si pongono, nelle opere di Marco Rambaldi, all’insegna dell’ironia. È grazie all’apporto salvifico di un sostanziale “disincanto” che infatti quei linguaggi (e le loro implicate rinunce) possono sussistere e agire senza la pena di una loro stanca reiterazione, o ripetizione diversa, o variazione identica, come avviene pressoché senza tregua – da trent’anni a questa parte – nelle prassi dell’arte cosí detta “di ricerca”: tra i fasti ormai consunti del neoconcettualismo, della body-art, della video-arte, della public-art, dell’istallazione oggettuale sibillina e attonita... tra i tripudi malinconici di tutte le estenuazioni estenuatissime di ciò che fu un tempo la “rappresentazione per immagini”.

Ma la qualità sorprendente degli interventi di Rambaldi risiede nel fatto che l’ironia non si limita, in essi, a denunciare il contrappasso di ogni abdicazione, e cioè dice non tanto e non solo il ridicolo della recente accademia anti-accademica, quanto piuttosto riesce a rendere speculare l’inevitabile umorismo (involontario per definizione) della sconfitta della rappresentazione (e perfino del lógos in generale) nella civiltà nostra, postmoderna, con l’umorismo ugualmente irresistibile del vuoto totale che essa stessa civiltà, o postciviltà, ha spalancato come una voragine d’assurdo sotto i propri piedi, per precipitarvi tutta fino al suicidio complessivo cui stiamo assistendo giorno dopo giorno. Semplicemente: si tratta di un disincanto autentico, di uno scetticismo dell’ironia accolto fino in fondo, e non comicamente esibito come maschera grottesca di quella persistente e ingenua fede nell’arte che, sebbene palesemente priva di sostegni, continua ad alimentare i sussulti convulsivi del cadavere dell’avanguardia del secolo passato.

Già nelle prime opere di Rambaldi che ho avuto occasione di vedere, intorno agli anni 1996-1999, nella serie delle Intersezioni, per esempio, la base ironica su cui veniva a riformularsi il rapporto tra objet trouvé e suo (nuovo) contesto estetizzante implicava un paradossale “restauro della rappresentazione” proprio (ironicamente) contro le modalità linguistico-espressive (ready-made) di cui le operazioni neo-avanguardistiche si avvalgono. Come per un svista di montaggio, l’oggetto d’uso veniva a perdere ogni logica di funzio-nalità economica, trasformandosi in oggetto di mera contemplazione estetica: ma non già per via (duchampiana) della sua astratta collocazione nell’ambiente di una galleria o di un museo, bensí per l’impatto umoristico del suo mostrare a gran voce la ricaduta esemplare dello sviluppo tecnologico-economico capitalistico nel potlach delle merci impazzite (del quale – è ovvio – i prodotti dell’arte stessa non rappresentano che il fatale suggello): la bicicletta la cui ruota posteriore rimane bloccata sprofondando nella fusione dell’asfalto della strada; il ventilatore da soffitto collocato troppo in angolo e le cui pale sono pertanto incastrate nei muri della stanza; il meraviglioso errore di allestimento-ristrutturazione della casetta di montagna, per il quale il tavolo e le sedie della cucina finiscono murate dentro uno spigolo dell’edificio... Qui non si tratta solo di metalinguaggio e di riflessione sulla sconfitta o la messa “fuori uso” dell’arte nell’età contemporanea; agisce piuttosto un cortocircuito di flebile ma percettibile ascendenza magrittiana, per il quale l’opera sfrutta la propria stessa incapacità di produrre discorso per ribadire la mancanza di senso da parte del mondo che aspira a descrivere: mettendone a nudo (in piena vista) l’imbecillità sostanziale, altrimenti resa invisibile dall’assuefazione al sentire comune e dalle tecniche simulacrali di accecamento collettivo.

Se nel mondo dominato dal modo di produzione capitalistico fatalmente si attua la riduzione a merce di qualsiasi valore, oltre che di qualsiasi prodotto, ecco che in tale mondo il manufatto (o meccanofatto) inutile, e privo di ulteriore valore che non sia quello che gli deriva dalla convenzione sociale che chiamiamo “arte”, non potrà che ironicamente mostrare l’immagine di se stesso ripetuta all’infinito: in un rispecchiamento strano che elimina l’oggetto da riflettere e mantiene di esso soltanto l’immagine riflessa. La stessa immagine ironica del (nostro) mondo che forse con coscienza Charles Chaplin allestisce nel suo “gioco di specchi” (Il circo, 1928) e che a suo turno Orson Welles sicuramente con coscienza ripete (rispecchiandola) nella sequenza finale de La signora di Shanghai (1948). E che ritroviamo infine nelle gioco di fotografie speculari, poste l’una di fronte all’altra, ossia l’una a non essere che il riflesso dell’altra, nell’attuale mostra di Marco Rambaldi.

Ma qui si va oltre: poiché in tale mostra il rito sociale della fruizione dell’opera, insieme a quello della sua costruzione, viene smascherato per mezzo di un’opera-istallazione che incorpora il primo nel secondo. Lo spettatore, ignaro, entra nella galleria e si accinge alla contemplazione dell’arte, ma non trova sul muro che una fotografia che rappresenta il muro stesso. A quel punto il suo interrogarsi sul significato dell’opera – o meglio: il suo dare già per scontato che non riuscirà ad intenderlo, visto che l’opera non può piú avere alcun significato, essendo essa solamente il feticcio residuale della coazione a ripetere che la fonda in quanto svago sociale e in quanto merce – viene trasformato in immagine da una fotocamera che produce scatti a intervalli regolari dal centro della sala. Tale immagine costituirà la nuova fotografia da appendere al muro in una seconda mostra, dove nuovamente una fotocamera riprenderà il fruitore nell’atto del proprio sacrificio ai piedi dell’altare (feticcio) dell’arte. E cosí via, verso una mise-en-abîme idealmente interminabile, che distrugge l’opera mentre la elabora, e che fa della ricerca dell’arte (assente), dunque della sua inattualità, del suo categorico e definitivo ou-tópos, il significato (il solo significato) dell’opera medesima.

Io guardo qualcuno guardare chi guarda guardare qualcuno che guarda ciò che non c’è; o anche solo ciò che c’è come preludio indispensabile a un ludus procrastinato all’infinito: il muro della galleria, muto, bianco, inutilmente ospitale. L’intendimento originario di Duchamp giunge al suo esito conclusivo. La metonimia contestuale del ready-made viene letteralizzata e trasposta in ruolo attivo del fruitore. Se è lo spazio della galleria, e dunque l’aspettativa di senso che esso determina, ovvero se è il predisporsi al gioco da parte di un pubblico avvertito delle regole, che conferisce all’oggetto di fabbricazione umana il proprio (eventuale) valore artistico, allora l’opera non potrà edificarsi che a partire dal mero atto di lettura (di riconoscimento) dell’opera stessa. L’osservatore – il portatore del desiderio di agnizione – legge nella foto (nell’immagine) del muro l’assenza dell’opera, il vuoto che è l’opera, proprio in quanto segno/simulacro della sua impossibilità e altresí dell’attesa che le dà inizio.

E se ne L’arte della pittura di Vermeer (1665) lo scostamento di una spessa cortina di stoffa – sipario che schiude il luogo della rappresentazione – da parte di una mano invisibile (la mano dell’artista fuori campo, giacché esterno per definizione allo spazio linguistico che da lui dipende) consente al fruitore di entrare nell’atelier, di farsi voyeur, e di deflorare con lo sguardo il mistero sacro dell’arte, ossia di vedere il pittore all’opera con la sua tela sul cavalletto e la modella sullo sfondo, in questa versione postuma ed estrema della messa in scena dello scenario di produzione, Rambaldi – aperto ogni sigillo simbolico e rotto ogni imene protettivo – procede oltre nella tematizzazione dello sguardo del fruitore. Facendo esplodere la metafora vermeeriana nella sua “lettera” beffarda e paradossale, colloca quello sguardo (desiderio di interpretazione, desiderio dell’opera) nell’opera come soggetto, lo espone fino al punto da utilizzarlo come base materiale del processo di costruzione linguistica. Ma, cosí facendo, il fruitore assume infine tutta la propria responsabilità. Unico garante dell’esistenza dell’arte e della sua ammissibilità socio-culturale, egli è assorbito dall’opera e trasformato nell’opera. Egli è l’immagine di lei, essa è l’immagine di lui. In un dispositivo speculare – vale a dire narcisistico – infallibile.
Sandro Sproccati

inaugurazione giovedì 26 giugno 2008 ore 18:30

Room Arte Contemporanea
via Stoppani, 15/c - Milano
Ingresso libero

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