Felix Willer. Opere grafiche e un video montato da Amilcare Fossati, il tutto ispirato a Tex Willer e al West, che costituiscono il centro dell'ultima produzione dell'artista.
La mostra che apre oggi, che porta il titolo Felix Willer , viene affiancata a quella già in essere Come il moto dei frutti fatta insieme a Donatello, e, oltre a recenti sculture e dipinti, comprende anche una parte del ciclo delle Isole che ho iniziato poco più di venti anni fa e il cui corpo più sostanzioso ha visto la luce tra il 1997 e il 2000. Di seguito ne parlo diffusamente in tre diverse presentazioni. Per quanto riguarda il nuovo ciclo, appunto, Felix Willer la genesi è abbastanza semplice: dopo 35 anni ho avuto tra le mani le storie di Tex Willer. Storie nuove ma sempre con quei personaggi, Willer, i suoi pards, i suoi nemici di sempre, primo tra tutti Mefisto, che ripetutamente tornavano nelle sue avventure dal nord al sud degli Stati Uniti e fino in Messico. Prima dei vent’anni ero un buon lettore di fumetti. Quando mi sono trasferito a Tortona questi contenitori di storie sono rimasti in Sicilia, tanti sono andati perduti, altri regalati. Ho deciso di dedicare un ciclo di lavori a Tex, ai suoi amici e nemici, ai cavalli, alla polverosa libertà dei deserti assolati, al West.
Tex Willer dipinto da Feliscatus non poteva che diventare Felix Willer. Stavolta il video, che ha lo stesso nome della mostra, appunto Felix Willer, ha le musiche di Mahler, la Sinfonia n.1 in RE maggiore Titano. Il montaggio video è sempre di Amilcare Fossati.
Desidero ringraziare Fulvio Ferrari, Stefano Gilardone, Alessando Asti con Magic, Fabrizio Furia con Zephir Blu e Luca Dettoni che hanno partecipato. Ringrazio inoltre il Comune di Sale, il Centro Ippico La Selva, Il Centro Commerciale Oasi e Alfio Contarino per gli spazi che mi hanno concesso e la loro disponibilità.
L’isola scaturì dalla prima memoria di lunghi viaggi, ma anche dall’altra, più strutturata, con tante e tante barche modellate, negli anni, da onde varie, corte e lunghe, piene d’impeto sul nascere poi messe a tacere da interruzioni di parte nel gorgoglio dei cirri; barche smunte, levigate dalla spuma dei sobbalzi, raspate e piallate da onde infine molli e pesanti, scrostate a destra e a manca dagli approdi traballanti e provvisori in terre inospitali, o meglio, divenute tali; barche smarrite nel profondo blu, nel “profondo imbalsamato rosso” e argento vivo legato a forza con legni sfatti; Blow-up e tutti i colori di ogni soleggiato deserto, una bella donna e una voce che ho scordato; quante cose datate! Anche il felino Gattopardo, l’annunciatrice bianca, un uomo assiso e ormai senza voce, Zabriskie Point: tanta polvere e botti sconfitti inutilmente lenti; un disco di carta bianca, e ancora un altro, le immagini coperte dal freddo e affidate ad una mano che non aveva saputo sorridere ad un futuro scalzo. Anche le mie, mani, fuori tempo, una sola volta, quando disegnai dei gusci di noce in un quadro che, davvero rinsavito, mai portai a termine. Ho sepolto Friedrich sotto massi di cartapesta ed elmi unni giganti, archi e frecce, spade e asce, scudi sbalzati, maschere d’oro; tutto ciò l’ho lasciato ammucchiato sulla spiaggia fangosa e grigia ad aspettare le ultime vestigia di una memoria lontana. Barche, barche consumate, appunto, dai viaggi, inzuppate di mare, vissute e strizzate come vecchie spugne: stanche di viaggiare. Che potevano riprendere ad esplorare luoghi acuminati o solitari, a vivere in nuovi luoghi d’acqua, vicini al mare neanche tanto, lontani non più del necessario. Albero del mare, rullante ebbrezza di salsedine respirata calpestando un cimelio paludoso dopo l’altro; cartoline di tramonti veneti bruciate e adombrate dal sole, secche alghe di fondi di battigia o di sabbia calda di scirocco e mummie di cani sulla spiaggia; e mosche, mosche più mosche, e caldo; dipinsi e disegnai cani e denti, e variopinte colature di peli di cane con pennelli di peli di bue con le mani forzute dei vent’anni, a piedi scalzi sulla spiaggia grande perché vuota, piena di leggere radici di canne e di vocianti gabbiani, avvoltoi di un deserto di sale candeggiato.
Indugiando, forse tanto, forse poco, a volte niente, dopo il mezzodì in alcuni giorni presi a caso, mi separavo da consenzienti case e prati che correvano e sfumavano, si diluivano in confusi alti, molto alti, e bassi, molto bassi, di spirito. Lenti. Mi immergevo, invitando buie profondità marine a risucchiarmi, e in quella nuova, ben trovata dimora, mi facevo cullare da secchi rumori, intermittenti battute di caccia per ruote di metallo su percorsi obbligati, anch’essi di metallo.
I viaggi corti sui quali, arrivando da molto lontano, allunava una parte dei miei umettati viaggi lunghi.
Conoscevo la strada; nessuno, nessuno, neanche con tutto l’aiuto possibile di un soffice deragliamento rallentato e indolore, avrebbe potuto portarmi ad un altro destino senza il mio consenso, e così dormivo tranquillo in compagnia di pesci abissali dagli occhi illuminati che non sognavano mai.
Spari di legno come incruente fucilate della tenerissima, famosissima battaglia del sughero. Questa continuamente si ripeteva uguale a se stessa, ma con protagonisti e vittime redivive sempre diversi che, nel cadere al suolo, accrescevano la loro vitalità e la capacità di morire ancora una volta, accasciandosi in modo sempre più veritiero. Pistoleri vestiti di nero dall’aria truce: improvvisata maschera forgiata da letture avventurose, tenuta stretta da una spiccata voglia di conquista e suggellata da un’agile e saltellante immaginazione.
Indiani venuti da miniature di quartieri; sentieri di guerra percorsi da gessi colorati volatili che talvolta scavavano in se stessi un solco per agevolare il passaggio di una lacrima di struggimento o di contentezza. Ciottoli-cimeli di Cooper conquistati sparando coi canini proiettili che tornavano indietro per ricaricare un’arma loquace. Bum! Pizzicotti, pani fritti stretti in un morso cannibale. Voci concitate che chiamavano a raccolta i gruppi sparsi, corse, cadute, mani sporche.
Il pomeriggio il gioco ricominciava. Gli stessi gessi variopinti usati per arabeschi estemporanei sopra scarti inerti di drappi stesi sulle onde verdi e gialle: arte infante al vento! E il vento che se ne impossessava la depositava sui prati bucati dal sole: arcobaleno sull’erba. Finita è la tempesta per lucertole e formiche. Danzavano e cantavano e si mordevano la lingua nel dire troppo in fretta che battevano i denti per rendere omaggio al ricordo del freddo. Era il grande freddo del Canada a farle stare, frementi di gioia, l’una accanto all’altra per scaldarsi.
La pulce, con lunghi salti, disegnava nell’aria campate senza piloni e senza cavi, su cui il sospiro di sollievo di un canarino esercitava le sue grandi doti di equilibrista, funambolo nei lunghi ponti aerei. E lì, nell’aria, si addormentava per sciorinare il suo candore color limone da far cadere, nota su nota, rotolando sui bagliori di minuscole lucciole diurne che si spegnevano per annunciare la loro presenza altrove, in campi di battaglia per pronipoti, di quando in quando folletti lillipuziani, saggi e fantasiosi.
Tutto questo la pulce raccoglieva; e ancora mattoni vibranti come armoniche a bocca, materia vivace ma non troppo per città musicali.
Sonoro rimprovero: “Non dovevi tornare così tardi”. In uno stridore, improvviso come un bombardamento a sorpresa sul pendio di una ritirata, un avaro mandriano in divisa astratta marchiava a fuoco mucche gialle, compagne di un viaggio, da buttare alla fine di un giorno
Alberi del mare su isole di barche. Isole di barche sul mare e alberi sulle isole del mare. Isole di ricordi impigliati nei vicoli della memoria su cui voi, alberi del mare, avete sparso come chiodi a quattro punte la forza del vostro coraggio inespresso, forza fatta di vita già fossile, che strizza e tiene fermo quel tempo sangue nero della terra e ogni futura voglia. Alberi del mare, l’ardire della stasi, la memoria del tempo già sepolto: sudario rosso, urticante vento sapido e tradito. Isole incrostate di medaglie all’indolenza, al dormiveglia nell’annullamento dei sensi, isole di accumulo nate per nascere senza passato né futuro poste lì ad attestare una forma in più per la pittura dell’eutanasia. Isole buie sotto temporali estremi e dilatati, infinitamente lunghi da un estremo all’altro. Sotto le pietre il futuro di un tempo senza quiete e senza moto alcuno. Sopra la sabbia di innumerevoli altre barche distrutte, un’isola picchetto di secchi tratti neri che mai batteranno ciglio. Sopra di essa il nero dell’albero nero, vivo come tale, che domina l’orizzonte. E via così, sopra una delle tante eternità, tirata a lucido e senza senso alcuno.
Inaugurazione: Mercoledì 30 luglio alle ore 11
Centro Commerciale Oasi
Strada Provinciale per Viguzzolo, 2 - Tortona (AL)
Orario: 11-14,30 17-21
Ingresso libero