Velan - Centro d'Arte Contemporanea
Simone Bergantini
Gianluca Capozzi
Barbara DePonti
Francesca De Rubeis
Piotr Hanzelewicz
Antonio La Grotta
Jacopo Miliani
Cristiana Palandri
Daniela Perego
Francesca Referza
Giunto alla quattordicesima edizione, Versus conferma l'intento di mettere a confronto giovani artisti provenienti da localita' diverse. Le opere scelte si muovono fra varie tecniche artistiche, passando dalla fotografia alla pittura, dall'installazione al video. A cura di Francesca Referza.
a cura di Francesca Referza
Per la seconda edizione di Versus a mia cura ho inteso accentuare la volontà del format, ormai giunto alla quattordicesima edizione, di porsi come territorio di dialogo a distanza tra giovani artisti operanti con modalità espressive diverse e tuttavia in qualche modo accomunabili. Non richiedendo Versus alcuna chiave di lettura tematica, se non appunto, come indica il titolo, la contrapposizione delle diverse individualità artistiche, mi sono innanzitutto sentita in dovere di invitare artisti che appartenessero ad una geografia dell’Italia che fosse il più possibile aderente alla situazione artistica attuale, sempre più delocalizzata, per cui Torino, Milano e Roma, ma anche Firenze, L’Aquila, Pescara e Avellino. Inizialmente postami come confine entro cui muovermi nello scegliere le opere degli artisti l’elemento formale del bianco e nero, mi sono poi leggermente allontanata dal proposito iniziale, salvo poi sorprendermi nel trovare comunque inaspettati punti di contatto tra le diverse opere. Il risultato finale è dunque sul filo di un bianco e nero non rigoroso che, in modo straordinario, proprio perchè non deciso a priori, lega l’uno all’altro i diversi lavori dei nove artisti in mostra. Pittura, scultura, fotografia, video e installazione dunque si confrontano e si incontrano, più che scontrarsi, come in un gioco di specchi riflessi, effetto accentuato anche dalla collocazione in un’unica stanza di tutte le opere.
Simone Bergantini (Velletri (RM), 1977) è un fotografo dallo sguardo sorprendentemente profondo. Vissuto fin da piccolo a contatto con il mondo dell’arte, ha acquisito in modo del tutto naturale la capacità di guardarsi attorno con spirito critico fino al punto di decidere, un giorno, di prendere tra le mani una macchina fotografica. Il primo progetto di Simone Bergantini, La città plausibile del 2001 testimonia perfettamente la capacità dell’artista di coniugare attenzione consapevole a particolari provenienti dal passato con una visione completamente contemporanea sulla città. Dopo quella prima serie di foto, Bergantini ha affrontato altri temi ed altre modalità espressive, dai reportage ai dittici di Un mondo senza qualità fino al volutamente non finito Atlantide, del 2006. Agata e Ivan sono due fotografie del 2007, facenti parte di un ciclo di immagini intitolato Seminario sull’infanzia, primo capitolo di una trilogia sull’uomo. I due scatti sono in effetti un dittico: due capannoni industriali fotografati mettendone in evidenza profondità, struttura e ariosità. Sembrerebbe fotografia industriale, se non fosse per due piccoli particolari che, in primo piano e al centro, quasi in corrispondenza del punto di fuga dello sguardo, attraggono e trattengono l’attenzione generando un senso di inquietudine. L’infanzia è in queste immagini al tempo stesso evocata e negata. Gli oggetti inanimati abbandonati sul cemento, di solito legati ad emozioni positive per i più piccoli, sono in questo caso il segno di un’infanzia ferita e sconfitta. Quella che vive ai margini della società e che si sottrae giorno per giorno agli occhi dei più. Non c’e` tuttavia dramma, solo constatazione. Simboli dell’infanzia abbandonati a terra, al centro del silenzio calmo di scheletri di architetture industriali che sembrano nude cattedrali.
Di Gianluca Capozzi (Avellino, 1973) ho selezionato nove acrilici su tela tutti del 2008 e tutti rigorosamente in bianco e nero: After, Concentration, Deep in my dreams, Just a memory, I was in the kitchen, Man machine, Minutes, Music e Pin Up. Le forme – scrive l’artista a proposito della propria pittura - si perdono in tanti angoli, in tante parti da ripercorrere come un viaggiatore. Perdersi in queste forme è come entrare in uno stato più ampio di coscienza in cui la realtà ordinaria, rappresentata nell’opera, si spoglia della sua “normalità” e si veste di sensazioni ed emozioni che la dilatano. Prendere le distanze dalla realtà entrandoci dentro. Punto di partenza dell’artista campano è la fotografia, successivamente sottoposta ad una rielaborazione pittorica che, a volte ludica, a volte malinconica, cambia la percezione dell’immagine fino a renderla altro rispetto all’originale. Il mio lavoro – specifica Gianluca Capozzi - parte dalla foto che viene trasferita a matita sulla tela e poi intervengo con il colore.
Animato da una irrequietezza artistica ma anche caratteriale, Gianluca Capozzi inizialmente ha utilizzato foto da lui scattate durante i suoi viaggi, vicini e lontani. Particolari di tranquille giornate di mare, oppure affollati interni di autobus, uno scorcio della torre littoria di Torino, ma anche visioni dall’alto della brulicante piazza di Marracash con i suoi colori e rumori, calcolatori dal design retrò che sembrano ormai giocattoli ingombranti, ma anche mezzi in movimento come aeroplani e macchine resi irreali da colori edulcorati e geometriche forme decorative quasi mimetizzate sulla superficie del quadro. Pur continuando ad usare un formato di piccole dimensioni che materializza perfettamente l’idea di frammento della visione ricercata da Capozzi, la serie presentata a Torino si distingue dalla precedente per via dell’uso di fotografie degli anni Trenta. L’esigenza dell’artista campano di lavorare molto lentamente trova in questa serie in bianco e nero una corrispondenza naturale. La pittura raffinata di Capozzi infatti ha sulle fotografie originali in bianco e nero l’effetto di creare una distensione/dilatazione del tempo. Le sue sembrano immagini sospese, fluttuanti frammenti di visioni del passato, nitide nei particolari, ma confuse nella situazione d’insieme. Un po’ come accade con i ricordi. La selezione involontaria della nostra mente ci fa spesso ricordare solo dei dettagli, non il resto. L’idea del frammento è parzialmente confermata dai titoli scelti da Capozzi, a volte singole parole estremamente aderenti all’immagine, altre volte invece frasi che sembrano essere state estrapolate da un discorso più organico. Mancanti di un prima e di un poi, ma in qualche modo comunque comprensibili.
Quello di Barbara DePonti (Magenta (Mi), 1975), è un lavoro in cui livelli di lettura successivi si sovrappongono: dall’aspetto specificatamente tecnico, a quello più strettamente artistico, a quello evidentemente architettonico. Il dato che colpisce per primo è sicuramente quello tecnico: si intuisce l’originalità di ciò che si vede senza tuttavia immediatamente comprenderne il procedimento. L’artista milanese disegna edifici e strutture architettoniche attraverso le piegature, realizzate a mano con rigore e meticolosità. Usa appositamente la carta da spolvero, più morbida e porosa, e, a seconda dei lavori, la copre con un colore acrilico sul fronte o sul retro. Nel primo caso i solchi tracciati dalle piegature sono visibili grazie alla caduta del pigmento, nel secondo caso, invece, le linee assorbono il colore e la superficie assomiglia molto ad un disegno architettonico a china sporco. Alcuni lavori sono stati retroilluminati per cui il risultato, specie se visto in lontananza, assume un aspetto molto simile a quello di un disegno visto sul monitor del computer.
Il risultato ottenuto attraverso la tecnica studiata da Barbara DePonti è di estremo fascino per via della sintesi tra gli estremi: rigore geometrico da un lato e morbidezza nell’uso del colore sfumato, assorbito naturalmente dalle piegature, dall’altro. I soggetti che fuoriescono da questo disegno apparentemente geometrico sono tutti elementi architettonici, particolari urbanistici o recuperi del recente passato industriale. La cosa che va sottolineata è che la DePonti non lavora per episodi, bensì per cicli: per esempio, i due lavori scelti per Versus XIV, Milano-fiera e Milano-torre, entrambi del 2006, sono la torre di raffreddamento attualmente inserita nella sede direzionale della società Pirelli ed il nuovo polo fieristico progettato da Massimiliano Fuksas, rispettivamente esempi di recupero e nuova progettazione di quel complesso processo di ridefinizione delle aree abitative ed ex industriali che tutte le grandi aree metropolitane, non solo in Italia, stanno da qualche anno affrontando. Un lavoro analogo a quello fatto per Milano, è stato realizzato dall’artista su Torino: la sede del mercato progettata da Massimiliano Fuksas a Porta Palazzo, il Palavela di Gae Aulenti, la risistemazione del piazzale Valdo Fusi, l’Atrium e le due strutture olimpiche di Piazza Solferino, cinque luoghi emblematici della recente radicale trasformazione della città subalpina.
Aldilà della immediata corrispondenza con gli edifici originali, individuabile anche grazie ai titoli, c`e` una componente di visionarietà nei lavori della DePonti che ne allontanano il rischio di trasmettere una certa freddezza. Una visionarietà paragonabile ai capricci di Piranesi, altrettanto bui eppure perfettamente visibili nelle linee essenziali. I lavori dell’artista milanese contengono anche una parte importante di astrazione che deriva loro dall’emergere come dal vuoto. Sono assoluti, solitari, sembrano opporre una resistenza quasi umana al destino di essere risucchiati dal tempo e lo fanno con gli unici strumenti che hanno: linee e piani intersecati.
Francesca De Rubeis (Ortona (CH), 1978), interessata da sempre agli oggetti più semplici del quotidiano, nei lavori più recenti è passata a riflettere sul ruolo della donna all’interno della società occidentale. Pur usando con disinvoltura tutti i mezzi espressivi, dal disegno alla pittura, dalla fotografia al video, la De Rubeis è fondamentalmente pittrice, dal momento che usa la fotografia, con la quale fa ricerca, sostanzialmente come uno strumento pittorico e lo stesso dicasi del video, come la frequenza dei tagli che lei apporta, testimonia.
Del 2005 sono due grandi disegni quasi in scala 1:1 di un ferro da stiro e di una cucina realizzati con una matita grassa. Sempre nel 2005 ha disegnato una cucina ad angolo per il Museo Laboratorio di Città Sant’Angelo su carta da spolvero. La giovane artista abruzzese ha nel tempo accumulato e conservato i tovaglioli da tavola da lei effettivamente usati e considerati, per via dei segni di cibo lasciati sul tessuto, come una forma di autoritratto. Bloccati in una cornice a cassetta, diventano una specie di reliquia. Panni stesi sono una serie di lavori ad olio su carta del 2006, in cui semplici panni di stoffa colorata disposti su comuni stendipanni assumono l’importanza di forme architettoniche. Panni appesi, invece, sono una serie di acrilici del 2007 in cui l’artista fissa sulla carta i suoi vestiti personali, riuscendo a dar loro l’autonomia di una presenza animata.
Abito (2008) sono infine sei trittici fotografici in cui la De Rubeis ritrae in tre pose diverse ragazze abruzzesi coperte da una tovaglia cucita a mano e facente parte della dote familiare. Quello che colpisce chi guarda le donne è la forte somiglianza somatica delle ragazze ritratte con donne nordafricane, somiglianza fisiognomica accentuata dal fatto che le tovaglie coprono le donne a mò di burka. A questo filone di indagine sulla tradizione della donna abruzzese appartengono anche quattro disegni a carboncino grasso color seppia che raffigurano volti di ragazze con i fazzoli in testa (in italiano, ampio fazzoletto da mettere attorno al collo o sul capo), sorta di ragazze michettiane dei nostri giorni. La presenza dei panni e dei tessuti nei diversi lavori della De Rubeis, pur partendo da un elemento autobiografico, è diventata un vero e proprio filo conduttore nella ricerca delle radici socio antropologiche del contesto vicino e lontano in cui l’artista vive. Per Versus XIV ho scelto Rosa (2007), un video sulle ossessioni alimentari femminili da un lato e su certe convenzioni religiose ancora molto radicate in alcune comunità, dall’altro.
Una stanza chiusa – scrive Francesca De Rubeis - un tavolo con una tovaglia bianca ricamata a mano, una luce chiara diffusa, una donna seduta, giovane e scarna. Le ostie sparse nel banchetto, le mani le tengono alcune. Il susseguirsi a ritmo sempre più veloce, una ad una, le ostie nella bocca. Ingozzamento, come estrema purificazione, soddisfazione. Un rompere gli schemi di un gesto che da secoli si ripete e riempie il nostro vissuto.
Nel video si alternano, attraverso frames estrapolati come se fossero foto, due figure di donna. Entrambe sono vestite di bianco e siedono ad un tavolo coperto da una tovaglia cucita con un prezioso quanto sottile ricamo ad uncinetto chiamato tombolo. Entrambe, più o meno compulsivamente, ingoiano quantità via via crescenti di ostie con gesti ossessivi e meccanici, sottolineati da un suono ripetitivo, ottenuto dalla rielaborazione del rumore del treno sulle rotaie.
Il nostro comune amico Matteo Fato ha ben sintetizzato l’arte della De Rubeis - Tutto appare come legato da un filo rosa. Filo che viene usato anche per “stendere” istanti di quotidianità, immagini di vissuto, per poter essere osservati e quindi conservati da chi vuole ascoltare. Un vissuto che si allaccia anche al rapporto con la sacralità (a volte insensata) degli stereotipi religiosi. Ricerca legata all’ esplorazione della bellezza scovata nelle tradizioni popolari, che rappresentano inconsciamente le basi del nostro pensare, e del rapporto che ognuno di noi ha con essa.
Paolo – spiega Piotr Hanzelewicz, (Lodz (Polonia), 1978), - è un ragazzo. La riduzione a tratti grafici della sua persona, pur astraendo il vivente dalla vita, lo colloca in una dimensione che presenta da un punto di vista cronologico prima un approccio di tenera attenzione, cura e delicata purezza, più avanti autodeterminazione e determinazione degli incidenti che la vita pone ed impone al vivente. La riduzione grafica diviene ossessione nella ricerca di una sintesi capace di esprimere l’elemento esistenziale, seppur così distanziato dal respiro, dal cibo, dal vino e dalle sigarette. Il paradosso dunque di cercare germi nell’asetticità e purezza comprensiva nella sporcizia.
I 12 lavori del polacco Piotr Hanzelewicz sono una selezione di un progetto grafico Paolo (2005-2008) che l’artista porta avanti da qualche anno e che è a tutti gli effetti un work in progress per la potenziale infinita declinazione grafica che è possibile fare del soggetto ritratto. Pur partendo da un dato biografico, il progetto Paolo non ha in realtà una connotazione soggettiva, nascendo dall’urgenza in qualche modo utopica dell’artista di tradurre situazioni di tensioni legate all’individuo, in quanto essere umano, in una neutralità emotiva che passa attraverso il controllo del segno.
É come se , attraverso l’analisi dei tratti somatici di Paolo, condotta in maniera quasi ossessiva a partire da una foto in cui il bambino tiene in mano un coniglietto, l`’artista tentasse di indagare la propria identità prima personale e poi artistica cercando in qualche modo, di disegno in disegno, di mettere ordine dentro e fuori. La sequenza dei lavori scelti per Versus XIV ha un punto di inizio nelle tre versioni di Paolo (Blue, Brown & Gray, Orange) in cui la sottolineatura di colore a tecniche miste di parti del bambino o dello sfondo, è il sintomo di una prudenza iniziale poi abbandonata a favore di una più radicale sintesi del ritratto, affidato praticamente solo ad un profilo in rilievo come in Paolo (bianco).
Dunque se apparentemente l’utilizzo di tecniche diverse potrebbe sembrare una pretestuosa ostentazione delle proprie capacità di declinare in modi diversi lo stesso soggetto, in realtà la molteplicità dei risultati grafici non è che una conseguenza dell’urgenza da parte dell’artista di trovare un mezzo, tra i tanti possibili, per arrivare all’obiettivo perseguito, con un approccio quasi di tipo neoplatonico per cui attraverso la materia si arriva alfine all’idea. Questo work in progress – conferma a tal proposito Hanzelewicz - tende ad un’indagine sull’idea attraverso la materia.
Da sempre attratto dal mondo della fotografia, Antonio La Grotta (Torino, 1971) ha abbandonato la facoltà di architettura per affrontare un corso di studi che gli ha consentito di lavorare come fotografo professionista. Dopo un esordio rigoroso fatto di pellicola, bianco e nero e camera oscura, Antonio La Grotta è poi definitivamente passato al computer. Così, lo stesso artista racconta l’installazione dal titolo Urne (2007) presentata a Versus XIV: l’urna, metafora della fine e dell’inizio di un viaggio, è quell’ultimo tentativo dell’uomo di vivere anche dopo la morte, attraverso una memoria collettiva e del singolo che inevitabilmente svanisce. La decorazione fatta di simboli, di colori, delle urne, espressione della cultura collettiva, viene a disgregarsi, a perdersi, ad annullarsi sino a diventare trasparente, incolore, immateriale: una metafora della nostra memoria collettiva che scompare, come conseguenza di un sovraccarico di segni e di simboli, espressione della cultura occidentale. Sedici scatole, tutte uguali, di forma e dimensione, di colore/incolore, come dei moduli che si ripetono. All’interno una fotografia di un materasso, il giaciglio, la memoria divenuta del singolo individuo. Una fotografia che ci suggerisce quel processo inesorabile volto alla cancellazione della stessa e con esso la memoria del singolo individuo.
Quello di Antonio La Grotta è un lavoro sulla memoria che spesso nasce da oggetti di recupero trovati per caso o ricercati tra i ricordi del proprio passato. Buon compleanno per esempio è un lavoro fotografico nato dal ritrovamento casuale dei numerini solitamente utilizzati per le torte nei compleanni. 33 fotografie di formato quadrato, sono disposte su una parete su sei file regolari. La successione numerica nell’ultima fila si interrompe non a caso in corrispondenza del numero 33. A terra, di fronte alle fotografie, ci sono mille margherite commestibili, fatte di ostie e zucchero. Il fatto che siano mangiabili da un lato consente a chi guarda di interagire direttamente con il lavoro, dall’altro, in parallelo con le immagini delle candeline spente presenti nelle foto, sottolinea la caducità dei fiori e, per estensione della vita stessa.
Caratteristiche tecniche ricorrenti nelle fotografie di Antonio La Grotta funzionali al contenuto dei suoi lavori sono da un lato la desaturazione che smorza i colori originali, dall’altro la riduzione della luminosità. L’altro aspetto sempre più evidente negli ultimi lavori dell’artista torinese è la necessità di pensarli nello spazio, passando così dalla bidimensionalità della fotografia al volume dell’installazione. Urne, è un’installazione composta da 16 piccoli cubi di plexiglass trasparente in cui sono conservate 16 fotografie di porzioni di tessuto di materassi diversi, tutti caratterizzati da un motivo di tipo floreale. Le fotografie, a loro volta incorniciate nel plexiglass, sono in realtà estraibili, e quindi riconducibili ad una dimensione più tradizionalmente bidimensionale. Sono in effetti una metafora della foto ricordo del defunto. L’idea della morte, del passare del tempo e quindi della necessità di trattenere il passato attraverso la memoria è affrontata da Antonio la Grotta in modo del tutto piano e privo di dramma. Il modo in cui concepisce e realizza le sue foto, consente all’artista di attenuare la durezza del contenuto, in qualche modo sublimandolo, senza tuttavia trasformarlo.
Nel video When the snow melts, 2006, di Jacopo Miliani (Firenze, 1979), un gruppo di palloncini bianchi a forma di pupazzi di neve suona una danza sussurrata in un paesaggio coperto di neve. In Quando la neve si scioglie, titolo significativamente evocativo, oltre che narrativo, c’e` un’inquadratura fissa su un angolo di un bosco alle spalle del quale corre una strada su cui transitano veicoli. Al rumore prodotto dalle macchine si sovrappone un suono quasi ipnotico che sembra pervenire dai cinque palloncini-pupazzi, presenze surreali che creano disorientamento in chi guarda. Il loro essere altro rispetto al paesaggio naturale intorno è appunto sottolineato dal sonoro che li fa assomigliare a dei fantasmi, simulacri di presenze umane. Testimonianze di una dimensione solitamente invisibile che pure esiste e vive a latere di ciò che è visibile.
Il mio lavoro – scrive Jacopo Miliani - nasce dall’impossibilità di tradurre il concetto di assenza. Nel momento in cui cerco di definire il vuoto lasciato da una presenza non posso evitare il riferimento ad essa. Scomparire, nascondere, evocare, dissolvere sono gesti che racchiudono in sé la nostalgia di eventi passati o futuri, la cui realtà viene costantemente messa in discussione. Nella mia produzione artistica utilizzo diversi media, oggetti, immagini come tracce di una narrazione che si attiva al cospetto dello spettatore. Attraverso installazioni sonore, disegni, assemblage o immagini fotografiche e tramite l’utilizzo costante di citazioni e riferimenti storico-culturali cerco nello spettatore il riconoscimento di determinati immaginari che non si aprono ad un vero e proprio processo di identificazione, ma restano sospesi nella narrazione.
I video di Jacopo Miliani sono il risultato di una sovrapposizione di elementi singolarmente decodificabili, ma che nell’insieme danno vita ad un testo narrativo complesso, di cui, come dichiara lo stesso artista, il senso rimane come sospeso. Ingredienti piuttosto ricorrenti del lavoro videografico di Jacopo Miliani sono: un sonoro fortemente connotato in senso musicale o viceversa quasi assente, se non in forma di rumore, inquadrature centrali e piuttosto basse che danno un senso di oppressione o comunque di forte vicinanza e che quindi mettono a disagio, la presenza di personaggi surreali (il bambino vampiro del video Down Down Down, il personaggio con la testa coperta in Promo o volutamente tagliata dall’inquadratura come accade alle due figure che aprono il video Personal, l’ambigua presenza che fa da colonna umana alla perfomance danzante del bambino vampiro di Down Down Down ), infine una componente fortemente performativa che ha connotati piuttosto scenografici. I video di Jacopo Miliani tendono a mettere in discussione le normali categorie della visione, attraverso il non detto e il non fatto. Nei suoi video accade poco o nulla eppure la tensione rispetto a ciò che si vede rimane alta dall’inizio alla fine. La narrazione c`e`, ma è inversa rispetto ai canoni tradizionali proprio perchè mira a creare dei cortocircuiti. La sensazione spesso è quella di aver assistito ad uno spettacolo di magia, ad una specie di illusionistico gioco di prestigio della visione.
Considero tutto il mio lavoro – spiega Cristiana Palandri (Firenze, 1977), che per Versus ha proposto tre sculture dal titolo Ho perso la testa - come un unicum continuo ed ininterrotto disegno. Disegno che si dispiega e si dirama con esiti lontani da esso, che è messa a nudo e al tempo stesso divagazione su di me e sulle mie ossessioni, paragonabile ad un flusso di coscienza tradotto in metamorfizzazioni attraverso un uso eterogeneo di media e di materiali. E per disegno intendo, sia le opere meramente legate al disegno in quanto tale, sia le sculture che nascono come prolungamento tridimensionale di questo, e a loro volta le performance in quanto prolungamento delle sculture. Nel guardare le immagini dell’installazione Zero (2008) presentata da Cristiana Palandri presso la galleria Daniele Ugolini di Firenze, ho pensato che il lavoro fosse al tempo stesso forte e delicato e che rappresentasse appieno la personalità dell’artista, giunta ad una nuova consapevolezza.
In un intervista rilasciata a Teknemedia nel 2007 l’artista aveva in effetti dichiarato - Mi interessa la delicatezza e la fragilità che sono aspetti femminili, ma voglio che i miei lavori siano forti e d’impatto. E comunque in esse convivono sempre i doppi equilibri come in me. Mi piace che la mia opera possa essere considerata repellente e forte [...] Anche i capelli aprono molte strade e parlano di bellezza, fragilità, morte, forza, memoria, vita, femminilità.. Partendo dal presupposto che per la Palandri essere artista non significa altro che essere se stessa senza tuttavia la necessità di una identificazione tra l’opera e la persona, Zero è la seconda installazione, dopo Flumina pilorum (fiumi di capelli), concepita appositamente per lo spazio in cui è stata collocata. Elemento ricorrente in diverse opere dell’artista fiorentina, e in qualche modo suo segno distintivo, è appunto l’uso dei capelli. A parte l’iniziale utilizzo di capelli propri per cui il lavoro conteneva perfino il DNA dell’artista, la Palandri ha via via sviluppato la sua ricerca legata all’uso di questo media organico, al tempo stesso, come lei stessa spiega, fragile e duraturo, setoso e quindi apparentemente innocuo eppure insidioso. La Palandri, aldilà delle implicazioni simboliche ovviamente collegate a quello che da secoli è considerato un elemento di seduzione femminile, utilizza i capelli come forma tridimensionale del segno della grafite e quindi del disegno, punto di partenza del suo lavoro. E allora una massa di capelli altro non è che una scultura in divenire, strutturalmente elastica, che muta naturalmente nel tempo come tutte le forme organiche. La ricerca della Palandri, qualsiasi mezzo utilizzi, unisce in una sintesi sorprendente l’inconsciamente personale, a volte quasi una sorta di automatismo psicanalitico, all’organico universale, che può assumere indifferentemente forme zoomorfe o biomorfe. Le Tricofere per esempio sono una serie di autoritratti costituiti interamente da capelli che vengono annodati oppure fissati fra di loro con smalto spray, senza nessun altro supporto. Le Diatomee, invece, nome preso in prestito da alghe unicellulari microscopiche, sono disegni eseguiti con inchiostro nero su tavolette di legno poi ricoperte da uno strato di cera.
Nella performance Oversight, realizzata nella primavera del 2008 al MLAC di Roma, l’artista è intervenuta su un’altra persona trasformandola, attraverso l’utilizzo di capelli, ossa animali, piume, bende e sostanze organiche, in un organismo in metamorfosi. Ho perso la testa 1, 2 e 3, opere scelte per Versus XIV, sono una serie di sculture costituite da forbici e capelli, materiale inorganico e materiale organico, controllo e durezza in opposizione a libertà e morbidezza. Le forbici, diversamente avvolte, limitate e annodate dai capelli, sono poggiate su piccoli cuscini, a loro volta posti su tre sgabelli appositamente disegnati dall’artista. Questi sostegni, con la loro ariosità, danno alle tre sculture di capelli e metallo una dimensione installativa che interagisce con lo spazio e che, assomigliando a dei ragni sospesi, rimandano comunque, fin dal primo sguardo, a quell’idea di organico che abbiamo sottolineato essere costante nell’opera della Palandri.
Di Daniela Perego (Firenze, 1961), fotografa e video artista fiorentina di nascita, ma romana d’adozione, ho scelto Nebbia, video del 2005 presente, insieme a Loro (2003) e Livia (2002), nella galleria on line della Saatchi gallery di Londra. Nel video, in un paesaggio autunnale reso ulteriormente onirico dalla presenza della nebbia che sgrana la visione e sfuma i contorni, una figura vestita di bianco di spalle si allontana a ritmo lento dal primissimo piano fino a scomparire del tutto. Salvo poi, inaspettatamente, tornare indietro correndo. Punto di partenza dei video successivi è Inizio del 2004, in cui una figura femminile in primo piano ma di spalle, si muove lentissimamente dalla spiaggia su cui si trova fino all’immersione totale nelle acque immobili di un lago come – spiega l’artista - nel tentativo di andare da un'altra parte, in un'altra dimensione. Il ritmo è lento e l’immagine, fortemente saturata, è quasi illeggibile.
Nel video Non voglio (2005) torna l’effetto sorpresa di Nebbia quando l’immagine in lontananza di una stoffa arancione visibile tra il cielo assolato e la sabbia e che risulta praticamente impossibile da identificare, si rivela essere una figura femminile quando si solleva per darsi alla fuga fino a sparire del tutto dietro l’orizzonte di sabbia. Non ti vedo, invece, video presentato nel 2006 al National Centre for Contemporary Arts di Mosca, consta di due proiezioni, poste l’una di fronte all’altra in un’unica stanza in cui, da un lato c`e` l’immagine fissa di una strada immersa in un paesaggio autunnale, dall’altro la stessa immagine vede la presenza di una figura femminile ferma a bordo strada, noncurante della pioggia e, come indica il titolo del video, come invisibile agli automobilisti. Infine Attraverso (2007) è un progetto realizzato in quattro versioni e per ora momentaneamente sospeso, in cui l’artista resta immobile, di spalle per diverso tempo in mezzo ad una situazione di folla rispettivamente a Firenze, Roma, Londra e New York, tutte città che, per motivi diversi, hanno un significato preciso per la Perego. Se la situazione ambientale in questi ultimi video è cambiata, essendo passata da un paesaggio naturale ad uno urbano, le caratteristiche di attesa, di sospensione e il generale effetto di spaesamento che l’artista provoca, permangono. Vorrei essere aria è una frase formulata dalla Perego durante una conversazione amichevole in cui le avevo chiesto di esprimere il suo lavoro in sintesi, frase che, a mio avviso, sottolinea l’aspirazione all’immaterialita` (e la sua inevitabile negazione), costantemente espressa dall’artista nei video attraverso elementi formali e simbolici.
Gli artisti in mostra:
Simone Bergantini, (Velletri (RM), 1977). Vive e lavora tra Milano e Roma.
Gianluca Capozzi, (Avellino, 1973). Vive e lavora ad Aiello del Sabato (AV).
Barbara DePonti, (Magenta (Mi), 1975). Vive e lavora a Milano.
Francesca De Rubeis, (Ortona (CH), 1978). Vive e lavora a Pescara.
Piotr Hanzelewicz, (Lodz (Polonia), 1978). Vive e lavora a L’Aquila.
Antonio La Grotta, (Torino, 1971). Vive e lavora a Torino.
Jacopo Miliani, (Firenze, 1979). Vive e lavora a Milano.
Cristiana Palandri, (Firenze, 1977). Vive e lavora a Firenze.
Daniela Perego, (Firenze, 1961). Vive e lavora a Roma.
Inaugurazione 25 settembre 2008
Velan - Centro d'Arte Contemporanea
via Modena, 52 - Torino
Orari: da martedì a venerdì 16-19. Lunedì e sabato su appuntamento.
Ingresso libero