Fotografie. "La verita' dell'Afghanistan e' custodita dal popolo afgano e Seamus Murphy gli riconosce tutta la sua magnificenza." "Verso la meta' degli anni Settanta ho viaggiato da solo nelle montagne del Nepal, con lo zaino in spalla, confidando nell'ospitalita' dei pastori e degli abitanti dei villaggi himalayani per il vitto e l'alloggio." (Kevin Bubriski)
Seamus Murphy
a darkness visible: afganistan
a cura di ken damy e lorenzo merlo
in collaborazione con il museo ken damy e il mountain photo festival di aosta
organizzato da Alessandro Ottenga
La verità dell’Afghanistan è custodita dal popolo afgano e Seamus Murphy gli riconosce tutta la sua magnificenza.
Dopo l’opera meticolosa e suggestiva perseguita per così tanti anni per giungere al cuore della faccenda, Murphy non si lascia scoraggiare dalla guerra in Afghanistan. Non può farlo. La guerra fa parte integrante dell’esperienza afgana proprio come le stagioni, le montagne e il tempo. Questo paese è la terra natale di milioni di racconti di guerra che, fondendosi alla storia, vengono a costituire una lunga saga.
Ma i racconti di guerra non sono altro che la storia della gente o dei popoli, dei loro fallimenti, punti deboli e punti forti e della loro lotta per continuare a vivere e mantenere la propria dignità di fronte alle sfide estreme poste dal conflitto. Murphy lo sa. E capisce perfettamente. L’umanità essenziale di questa consapevolezza, associata al suo naturale impegno sull’argomento, si riflette in tutta la sua opera. Nelle sue foto gli afgani appaiono sempre superiori a quella parte della loro vita che è la guerra.
Di recente l’Afghanistan è diventato un soggetto di grande attualità per gli editori che si interessano di fotografia e il rispettivo pubblico. Gli attentati terroristici dell’11 settembre hanno riportato questo paese alla ribalta della consapevolezza occidentale.
Il successivo coinvolgimento degli eserciti degli alleati e della NATO in Afghanistan, la lotta contro Al Qaeda e i Talebani e la caccia ad Osama Osama bin Laden garantiscono che tale interesse possa continuare, almeno per un po’.
Il destino dell’Afghanistan è ormai legato alla sicurezza futura della gente in Europa e America. Nei paesi occidentali, i leader politici e i capi militari ammettono candidamente che questo conflitto sarà un’esperienza decisiva che determinerà sia il risultato della guerra con i fondamentalisti islamici di tutto il mondo sia la sorte della stessa NATO. Ci sono tutti gli ingredienti per fare di questo paese una meta ambita dai fotografi. Ma non è sempre stato così. Ben poco lasciava pensare che ci sarebbero stati tali sviluppi nella guerra afgana quando Murphy ha messo piede a Kabul per la prima volta, era il 1994. L’Afghanistan era in preda
a una guerra civile talmente violenta ed estesa che tutte le infrastrutture del paese erano implose. Assolutamente distrutta, annichilita e rovinata, l’autorità centrale non c’era più.
Vigeva invece il potere delle armi e di chi le imbracciava. Niente lasciava presagire che ci potessero essere cambiamenti imminenti. Il coinvolgimento degli Occidentali in Afghanistan era finito nel momento in cui l’ultimo soldato russo aveva lasciato il paese, ben cinque anni prima. Era una voragine, il vuoto, il buio. E nessuno avrebbe potuto immaginare che un giorno
le vite quotidiane degli afgani potessero di nuovo interessare agli Occidentali. Murphy ha continuato il suo andirivieni dall’Afghanistan, molto prima che il paese tornasse a essere al centro della rinnovata attenzione degli editori, per motivi molto più semplici dell’investimento professionale.
Nonostante la vita dura, la sfortuna e le crudeltà, a Murphy piaceva quel posto e provava empatia per il suo popolo: apprezzava negli afgani le qualità di stoicismo, capacità di opporsi, belligeranza, senso dell’umorismo e speranza che li caratterizzano.
Nel corso di innumerevoli avventure intraprese nell’arco di 13 anni per portare alla luce l’indomito Afghanistan, sia umano che geografico, Murphy ha infranto la visione miope che si aveva di questo paese per rivelare i luoghi e i volti della gente, una guerra e una vita che altrimenti non avremmo mai avuto occasione di scoprire. Alcuni viaggi nell’entroterra sono durati solo pochi giorni, altri hanno comportato settimane di trekking, spostamenti, rafting e cavalcate in condizioni spartane.
L’oscurità dell’Afghanistan non sta nel male o nella guerra, ma nel manto dell’ignoranza che avvolge la nostra comprensione di questo paese, una cecità che lo ha ridotto a poco più di uno sfondo per statistiche stantie, immagini trite e ritrite e frasi fatte su cui poggiano le fuggevoli notizie della stampa mondiale. Pochi hanno cercato – e ancor meno sono riusciti a raggiungere il risultato che Murphy ha perseguito con la sua pazienza e persistente volontà di raggiungere lo scopo. Molto più di un’abile testimonianza di un popolo, un’epoca e un luogo, la sua opera ha aperto la strada a qualcosa di più profondo ed etereo ed è riuscita a cogliere la più difficile di tutte le rivelazioni: lo spirito di un paese.
Anthony Loyd da Afterword in A Darkness Visible: Afghanistan, Saqi Books 2008
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kevin bubriski
portrait of nepal
a cura di ken damy e lorenzo merlo
in collaborazione con il mountain photo festival di aosta
organizzato da Alessandro Ottenga
Verso la metà degli anni Settanta ho viaggiato da solo nelle montagne del Nepal, con lo zaino in spalla, confidando nell’ospitalità dei pastori e degli abitanti dei villaggi himalayani per il vitto e l’alloggio.
Parlavo nepalese e ho scoperto che mi bastava molto poco per vivere felice: un buon piatto caldo vicino a un bel fuoco e abbastanza spazio per stendere il mio sacco a pelo sotto il riparo roccioso dei pastori.
Verso la fine degli anni Settanta avevo già vissuto e lavorato per ben quattro anni in remoti villaggi nepalesi, recandomi di rado nella capitale del regno, Katmandu.
Le cose più banali della vita moderna – automobili, elettricità, acqua corrente – erano diventate pallidi ricordi di altri tempi. I rituali della vita di montagna costituivano la mia realtà quotidiana e gli amici e i conoscenti del villaggio erano le persone a me più care.
Non ero pronto per il dolore della separazione che ho avvertito quando sono ritornato negli
Stati Uniti.
Avendo mantenuto pochi contatti con i villaggi di montagna che ormai consideravo come la mia casa, i vividi ricordi degli anni trascorsi in Nepal si sono stemperati mano a mano che cercavo di reinserirmi nella vita moderna.
Le fotografie che avevo scattato erano il mio unico, solido legame: proprio come le foto di famiglia che si tengono nel portafoglio, mi ricordavano le persone che mi erano care quando ero lontano.
Nel 1984 sono ritornato in Nepal, con fotocamera, treppiede, contenitori per le pellicole, un assistente e due portatori, ho viaggiato in lungo e in largo per il paese per quasi tre anni, scattando immagini per questa mostra e per il mio libro.
L’equipaggiamento ingombrante che mi portavo appresso ha reso impossibile il ripetersi della mia precedente esperienza in solitario; questa volta viaggiavamo muniti di tenda, cibo e fornello, per cui potevamo vivere tra le montagne senza dover dipendere dalle scarse riserve alimentari degli abitanti dei villaggi.
L’uso della fotocamera mi poneva al centro della vita del villaggio; bufali, capre
e bambini curiosi mi passavano accanto, di tanto in tanto inciampando nel treppiede.
A volte mi arrabbiavo per il distacco che provavo per il fatto di trovarmi sotto il telo nero, concentrato sulla scena che si rifletteva al contrario sulla lente da quattro per cinque pollici, invece di vivere fino in fondo le grida degli animali, le gelate brezze della montagna e le conversazioni che si svolgevano intorno a me.
Ero anche consapevole dei limiti che derivavano dal considerare sempre la gente che mi ospitava, i sentieri del loro villaggio e i panorami di montagna come mere immagini per la mia fotocamera.
Ma questo secondo viaggio ha portato i suoi frutti.
Il ritmo lento e rituale della vita delle montagne era perfettamente in linea con le procedure metodiche richieste dall’uso di una fotocamera di grande formato. In molti casi, la macchina registrava persone che si erano preparate meticolosamente e che presentavano l’immagine di loro stessi che volevano mostrare agli altri.
In altri casi, coglieva di sorpresa soggetti che erano poco consapevoli o poco a conoscenza del processo fotografico.
Ho ristabilito vecchie amicizie e rivissuto antiche esperienze mano a mano che mi trovavo davanti all’obiettivo amici del villaggio del mio precedente viaggio.
Per gli altri la macchina fotografica è stata un mezzo per fare conoscenza, il primo incontro tra abitante del villaggio e visitatore, dove le fotografie diventano il risultato della reciproca consapevolezza.
Usando l’obiettivo per mettere a fuoco i vari volti – alcuni noti, altri nuovi, alcuni soli,
altri insieme a parenti o amici – sentivo che ero testimone di un’entusiasmante rivelazione visiva.
Una volta ritornato negli Stati Uniti, dopo aver visto i risultati sviluppati e stampati, mi sono reso conto che avevo colto l’essenza privata, unica e misteriosa di ognuno di quei soggetti per portarla in un mondo ignoto, lontano dai villaggi di montagna.
La consapevolezza che non solo la macchina fotografica, ma anche il mondo moderno stava facendo incursioni sempre più frequenti persino nelle zone più remote del Nepal mi ha spinto
a documentare un’epoca e uno stile di vita che sta inesorabilmente scivolando nel passato.
Kevin Bubriski 1993
Immagine: Seamus Murphy
Inaugurazione 13 dicembre 2008
Museo Ken Damy di Fotografia Contemporanea
via Corsetto Santa Agata, 22 - Brescia
Orari: dal martedì al sabato dalle 15.30 alle 19.30