Marino Marini
Tiziana Nucera
Grazia Lavia
Lucia Pasini
Lia Sanna
Lidia Kaly
Mario Napoli
Barbara Cella
Mario Pepe
Paolo Minetti
Marino Marini, Tiziana Nucera, Grazia Lavia, Lucia Pasini, Lia Sanna, Lidia Kaly. L'associazione inaugura l'attivita' del nuovo anno con sei personali che includono discipline come la pittura, il ready made, la scultura in cotto, le installazioni.
LIDIA KALY
objet trouve'
a cura di:
Paolo Minetti
Lidia Kaly nel campo dell’arte rappresenta un’anomalia, ci si avvede che non segue nessuna “corrente artistica”. Le sue opere sono lo studio e l’evolversi di quindici anni di intenso lavoro attorno alla sua ricerca. Quando Viana Conti, nella sua bella intervista sul catalogo di Lidia suggerisce una sintesi sulle riflessioni dell’objet trouvè ne riceve una risposta refrattaria. Evidentemente per l’artista non rappresenta e non sintetizza solo questo la sua operatività artistica.
Osservando e penetrando con lo sguardo le sue sculture, ci si accorge della sua esoterica naturalezza, misteriosamente sottolineata dai conturbanti titoli, ponendo all’istante riflessioni diverse sul divenire dell’arte. La cosa più importante dell’opera della nostra artista è il supporto del colore, dell’insieme dei materiali e della loro straordinaria musicalità. Le sue sculture “respirano” come un corpo vivo ma diventano trasparenti nel momento stesso in cui avviene una penetrazione nello spazio.
Il lavoro della Kaly non appartiene a nessuna corrente artistica, sull’onda trainante del vigente conformismo consumistico che ci circonda. Il suo è un linguaggio di grande individualità e quindi di un’artista che possiede l’inquietudine del vero ricercatore estetico moderno, il quale se che la sua arte non può essere uguale agli altri in quanto essa configge in continuo con l’arte che lo circonda.
Un’opera d’arte deve sfidare ciò che noi crediamo arte, deve opporre con forza una resistenza inflessibile contro l’estetica comunemente accettata.
Lidia Kaly vive e lavora a Genova. Passa dalla pittura alla fotografia per poi approdare alla scultura e di nuovo alla pittura.
Da molti anni studia il linguaggio dei materiali plastici e di avanguardia di tipo industriale per la loro applicazione a livello artistico. Il reperto, punto di partenza delle sue sculture, la spinge a ricostruire nuove fisicità che la portano ad esplorare campi talvolta sconosciuti. Le sue sculture sono permeate di significati e di rimandi a culture passate e/o futuribili.
I suoi quadri sono in parte la trasposizione della scultura sulla tela reinterpretata e sintetizzata, in parte una nuova ricerca su tavola e bulloni per oltrepassare la soglia della bidimensionalità. La tecnica pittorica usata si basa sull’utilizzo di colori naturali desueti.
Il desiderio di esplorazione la spinge ad una continua ricerca di nuovi percorsi che offrono sorprese di lavorazione ed esiti di sperimentazione.
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LIA SANNA
Cori
a cura di:
Mario Napoli
Attraverso l’analisi delle rappresentazioni del canto collettivo, arte che trae la sua sostanza dalla socialità, Lia Sanna ne ricava, per mezzo della schietta genuinità del cotto, una forte continuità di significati con il pregio di procedere in un cammino di originale chiarezza.
Cori: figure erette in un clima ricco di annotazioni psicologiche; il modellato, sensibile all’austerità fisica dei protagonisti, accentua l’umanità candida di queste figure.
L’artista tramite la sensibilità delle forme diventa protagonista, e nella sua ricerca spazio-temporale scaturisce quella scintilla di poesia che ne è la nota dominante. I temi odierni esibiti si prestano a letture da più parti, ma mai univoche. Nella ceramica di Lia, la genialità dei concetti trasforma la materia attiva in musicale dolcezza.
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LUCIA PASINI
Pittura
a cura di:
Mario Pepe
Come per gli espressionisti astratti, che hanno una visione libera da contingenze storiche e sociali, anche per Lucia l'arte consiste nell'atto stesso del dipingere. Al centro del lavoro è la sua individualità, che si pone in una condizione di rischio, mette in gioco la propria esistenza in senso psicologico e spirituale. Lo spazio del quadro diventa il luogo libero da convenzioni estetiche, in cui l'artista convoglia le proprie emozioni e la propria energia vitale. L'urgenza dell'azione si traduce in movimento gestuale che esprime significati esistenziali. L'artista sceglie di agire anche senza un progetto, lasciando che il quadro nasca e si riveli al momento.
La ricerca di Lucia Pasini è rivolta alla rappresentazione immediata della propria interiorità. La sua pittura si evolve da una prima esperienza “materica” vicina all'espressionismo astratto di Rothko, anche se le dimensioni più ridotte delle sue tele spostano l’equilibrio dall’invadenza espressionista verso una più meditata comunicazione intimista. Mentre Rothko sceglie di lavorare per tonalità cromatiche sovrapposte, eliminando i contrasti di colore e procedendo per successive velature sottilmente modulate, Lucia Pasini opera nette stesure materico-tattili con tecniche miste acrilico e olio su grumi di cera o di gessi, ottenendo in questo modo strutture plastiche semplificate. Il periodo “materico” di Lucia è ricco di rossi su sfondi scuri abissali con improvvise ferite di bianco accecante che verticalizzano lo spazio. E’ una pittura che provoca stati d’animo di grande equilibrio liberando forme che inducono alla contemplazione di paesaggi interiori puramente emozionali. I suoi lavori trasmettono informazioni percettive che stimolano una reazione di tipo gestaltico riuscendo a comunicare con la psicologia dell’osservatore. Con un procedimento che diviene totale invenzione, Lucia è capace di trasmettere agli altri la propria esperienza esistenziale come testimonianza dell’essere al mondo in un particolare momento e contesto.
La sua più recente produzione, pur sempre coerente con le premesse iniziali, si sviluppa semplificando notevolmente la costruzione pittorica, abbandonando lo spessore materico dell’intervento a favore di stesure di colore più delicate. Resta intatta la sua matrice fondamentalmente espressionistica, tesa a suscitare emozioni interiori, utilizzando la capacità dei colori di trasmettere delle sensazioni. Si direbbe che l’artista sperimenti una fase minimalista del suo segno, alla ricerca di costruzioni più essenziali, che ottiene passando sulla tela un pennello largo imbevuto in acqua dove ha sciolto le terre e le ocre. Il risultato ricorda gli acquerelli astratti di Klee, dove i colori si smorzano e le atmosfere rarefatte si ricollegano ai colori della natura da cui Lucia era partita.
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GRAZIA LAVIA
Abito Bianco...
a cura di:
Barbara Cella
L’essere donna ha da sempre significato il dover combattere contro falsi pregiudizi in un mondo e in una società prettamente maschile dove, soprattutto nell’arte e nella letteratura, poche erano le figure femminili che riuscivano ad emergere.
Ed è tra queste poche che Grazia Lavia incentra tutto il suo studio artistico.
“Abito bianco per andare a nozze con la tua morte”.
Parte da qui, da questa poesia di Alda Merini, il suo percorso formale che si esprime attraverso la ricerca di una materialità velata, non espressa, quasi negata nel candore abbagliante della sua opera.
E infatti i suoi vestiti sembrano “non essere” tanto sono eterei ma capaci, peraltro, di racchiudere in sé l’anima forte e fragile delle poetesse da lei tanto amate: Emily Dickinson che, vestendosi solo di bianco, per prima l’ha ispirata; Sylvia Plath, Virginia Woolf con la sua essenza profondamente femminista, la stessa Alda Merini. Donne che la accompagnano, prendendola sottobraccio, in un percorso comune di poesia e ricerca dove labile è il confine tra la parola e il segno.
Le sue installazioni sono prigioni trasparenti che racchiudono lettere, poesie, fotografie in bianco e nero rielaborate. Gli abiti solo all’apparenza sembrano involucri inanimati ma in realtà rivestono l’essenza di tutte loro che Grazia Lavia lega con corda sottile, allo stesso tempo vincolo e filo dei suoi ricordi.
L’artista mette in scena una poesia visiva esteticamente perfetta ma per nulla rassicurante, dove, dietro il candore apparente, si legge l’animo tormentato di chi, donna in tempi dove l’essere donna voleva dire venire rinchiuse in stretti vincoli sociali, non poteva fare altro che mettere su carta la volontà di affermazione e emancipazione dell’io.
E ritorna, alla fine del suo percorso, la contraddizione dell’eterno femminino con quel vestito nero che fa da punto e contrappunto alla visione che nell’immaginario sociale si ha di ogni donna, divisa tra il candore e i luoghi oscuri dell’anima, santa o strega senza alcuna possibilità di una via di mezzo.
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TIZIANA NUCERA
LA FIGURA E L'OMBRA
a cura di:
Barbara Cella
Quando l’arte è intesa a livello emotivo ed estetico essa si fa promulgatrice dei moti e della dualità dell’inconscio che vengono espressi attraverso rappresentazioni dove è presente un’attenzione al passato e alle proprie radici pittoriche, rielaborate per dare forma ad una pittura dal forte carattere espressivo e didascalico che richiama in parte la forza emotiva della corrente neoespressionista degli anni ’80.
Tutto ciò è parte del processo artistico di Tiziana Nucera il cui interesse e studio verso la figura umana è evidente in questo suo nuovo percorso che la pone come sensibile interprete di un’espressività incisiva e visionaria derivante da un’attenzione alla qualità evocativa della pittura la quale, scaturendo dal vissuto dell’artista, esprime e suggerisce un’emozione, un’immagine mentale, una fantasia.
L’artista parte dal disegno accademico come primo mezzo per esprimere la propria soggettività per arrivare poi alla scomposizione della figura umana giocando con la dualità dell’essere e della sua ombra, immergendola in stanze indefinite che fanno da scenario ad una rappresentazione dove il conscio e l’inconscio si combattono e dove è sempre presente una fonte di luce simbolo della verità a cui l’uomo costantemente anela.
La tela si fa scenario di una raffigurazione visiva in cui la pennellata è precisa e decisa a descrivere questo dualismo dell’io, segnata da una forma di malinconia in cui l’agire e la possibilità di confronto verso l’esterno sono sfumati in una percezione più individuale.
Le tonalità del colore sono scure, appena illuminate dal giallo e dal bianco a cui le figure tendono e che attraggono lo spettatore in un percorso visivo e psicologico che lo lasciano senza possibilità di catarsi.
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MARINO MARINI
opere grafiche
a cura di:
Mario Napoli
Con le sue prime prove nell’incisione, databili all’inizio degli anni Venti, dimostrò “di non essere facilmente suggestionabile dai clamori estetici che gli si levavano intorno; queste immagini testimoniano come egli non fosse minimamente influenzato dagli echi futuristi e cubisti che pure, a Firenze, avevano avuto e ancora avevano un discreto pubblico di sostenitori. In compenso, queste prime opere mostrano invece una certa ispirazione d’ascendenza secessionista, con l’inclinazione ad enfatizzare la forma, dandole rilievo e plasticità. Dagli anni Cinquanta – prosegue la nota che introduce la sezione disegni e incisioni che costituisce un corpo significativo della collezione del Museo Marino Marini di Firenze – in concomitanza con la ripresa della pittura, Marino introduce il colore nella sua grafica, e in particolar modo nelle litografie. Intorno al tema del cavaliere ruota anche l’attività grafica dell’artista, che tuttavia riprende, rinnova e rifonde tutte le altre immagini del suo repertorio: le Pomone, gli acrobati, i giocolieri, le danzatrici, i personaggi del circo e del teatro, e ancora altri cavalli e cavalieri. Insieme con la logica consequenziale della visione tragica, sembra convivere in Marini e nella sua vitalità, un irrinunciabile sentimento di fiducia; di ciò sino alla fine, fino alla soglia della sua morte, vi è una splendida e lancinante teoria di fogli, di incisioni e litografie, che giungono sino al 1980”.
Enzo Carli, nell’introduzione al catalogo di Marino Acquaforti 1914-1970 (Graphis-Toninelli), delineando efficacemente il quadro dell’imagerie mariniano, scrive che “colpisce nelle incisioni di Marino quella capacità di porsi, per così dire, in presa diretta con i suoi soggetti, o meglio – poiché si tratta di situazioni e di temi rielaborati e trasfigurati dalla fantasia – con l’emozione che il loro affacciarsi alla memoria suscita e inesaustamente rinnova: un’emozione che insorge dal profondo, da uno stadio che vorrei dir primordiale della conoscenza e che viene provocata dall’intensità di un gesto, dalla rivelazione di una forma o più forme che erompono nello spazio o in questo, ma più di rado, saldamente s’accampano e stanno, da un conflitto di forze, da un balenare di luci e d’ombre, o anche, semplicemente, da un ordito lineare o da un nudo profilo che si caricano di un possente, germinante significato espressivo che investe e sommuove tutta la sensibilità dell’artista”.
Un conflitto di forze, appunto che investe ciclicamente le varie tematiche mariniane di cui questa mostra – con cui Satura intende dare particolare rilievo all’attività incisoria di Marino Marini per il valore che questa tecnica riveste nella produzione creativa e sperimentale dell’artista – presenta una selezionatissima e calibrata “campionatura”.
MARINO MARINI
Pistoia 1901 - Viareggio (LU) 1980
Frequenta a Firenze l’Accademia di Belle Arti, allievo di Galileo Chini e di Domenico Trentacoste, scultore, questi, sensibile alle correnti artistiche straniere e in particolare alla lezione di Rodin. Inizialmente si dedica soprattutto al disegno ed alla pittura di stampo naturalista, modellando tuttavia alcuni ritratti che già si allontanano dallo stile celebrativo ed elegiaco allora in auge, e che precedono di pochi anni quel Cieco (1928) con cui Marino inaugura il suo vero curriculum di scultore; dell’anno successivo è invece Il Popolo, terracotta in cui si riscontra un addensamento di temi che poi saranno costanti, che esibisce come referenze culturali i sarcofaghi etruschi di Cerveteri, Chiusi e Cere. Sempre nel 1929 è chiamato da Arturo Martini a succedergli nell’insegnamento alla Scuola d’Arte di Monza (cattedra di scultura che Marino lascia nel 1940 per assumere quella all’Accademia di Brera a Milano). Compie un primo soggiorno a Parigi dove si interessa alle opere di Rodin e Maillol, conosce Picasso, Lipchitz, Braque, Laurens, nonché de Pisis, de Chirico e Campigli. Espone con gli artisti di Novecento (Milano e Nizza 1929; Helsinki 1930; Stoccolma 1931). Nel 1931 partecipa alla I Quadriennale di Roma, esperienza che ripete nel 1935 ricevendo il Primo Premio per la scultura. Durante questi anni Marino continua ad attingere alla tradizione arcaica ed antica reinventandola in chiave drammaticamente espressionista, circoscrivendo via via la propria ricerca artistica a due tematiche essenziali: il Cavaliere e la Pomona (pur non escludendo, successivamente, modelli “gotici” o cinesi). Nel 1938, anno del suo matrimonio con Mercedes Pedrazzini, espone alla Biennale di Venezia una serie di ritratti che si richiamano alla componente culturale dell’arte egizia o di certa ritrattistica romana, e che esprimono la vita autonoma di forme costruite con notevole solidità. Negli anni a seguire Marino si volge ad opere più compatte che si inseriscono nell’ambito della sua tematica formata essenzialmente ai nudi femminili, ai ritratti ed ai cavalieri, temi che percorrono tutta la sua produzione a partire dal 1926, e si dedica prevalentemente alla pittura, tante volte presente nelle sue sculture, linguaggio con cui, assieme all’incisione, l’artista dà forma ad immagini di altrettanta alta espressione.
Alla fine degli anni Quaranta, continuando ad operare lontano dalla retorica novecentista, si volge in direzione di una maggiore tensione dinamica. Durante il secondo conflitto mondiale vive in Svizzera, dove conosce Giacometti, Wotruba, la Richier, Haller e Banninger, ed entra in contatto con le realtà artistiche più avanzate in Europa. Terminata la guerra Marino torna a Milano, dove riapre lo studio e riprende l'insegnamento a Brera. Nel 1948 la Biennale di Venezia gli dedica una sala personale; incontra Henry Moore, con il quale stringe un'amicizia particolarmente importante per la sua produzione artistica, e Curt Valentin, mercante che lo fa conoscere sul mercato europeo e statunitense. Durante il soggiorno americano Marino conosce Arp, Feininger, Calder, Dalí, Tanguy. Si intensificano le esposizioni e i riconoscimenti ufficiali in ambito internazionale a partire dalla personale a New York nel 1950, al monumento equestre commissionato dalla municipalità dell'Aia nel 1958-59, alle mostre di Zurigo (1962), Roma (1966) e l’esposizione itinerante in Giappone (1978). A partire dagli anni Settanta prendono forma realtà museali a lui dedicate. Nel 1973 a Milano si inaugura il Museo Marino Marini nella Civica Galleria d'Arte Moderna. Nel 1976 la Nuova Pinacoteca di Monaco di Baviera gli dedica una sala permanente. Nel 1979 si inaugura a Pistoia il Centro di Documentazione dell'Opera di Marino Marini, che dal 1989 viene collocato nel restaurato Convento del Tau. Marino muore a Viareggio nel 1980. Nel 1988, si inaugura il Museo Marino Marini di Firenze, a seguito di una donazione di opere fatta dall’artista stesso al capoluogo toscano.
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Associazione Culturale Satura
piazza Stella, 5/1 - Genova