Salvo Imprevisti. I 20 Paesaggi che costituiscono il nucleo centrale della mostra sembrano a prima vista mantenersi dentro uno dei generi piu' tradizionali e antichi della pittura, attraverso una sorta di sovversione interna e di violazione degli stessi mezzi espressivi. A cura di Luigi Meneghelli.
a cura di Luigi Meneghelli
Sabato 28 febbraio 2009 presso gli spazi della galleria Atlantica di Vicenza inaugurerà la mostra personale di Salvo, a cura di Luigi Meneghelli. Tutto il lavoro di Salvo può essere visto come una paradossale congiunzione temporale che salda passato e presente, infanzia ed eternità della storia. Il passato non è mai una dimensione lontana, che sorge dalle profondità del tempo, ma è proiettato in avanti, in una sorta di “poststoria”.
Così, i 20 “Paesaggi” che costituiscono il nucleo centrale della mostra (tutti databili tra i primi anni ’90 e le prove estreme di “Costignole” e “S. Nicola Arcella”) sembrano a prima vista mantenersi dentro uno dei generi più tradizionali e antichi della pittura, ma ci riescono solo attraverso una sorta di sovversione interna, di violazione degli stessi mezzi espressivi. Salvo fa fare alla pittura quello che essa normalmente non è in grado di fare: la fa vibrare, scivolare, danzare. Egli impiega una tavolozza “scandalosamente pura, squillante”, piena di “disprezzo” per le sfumature, i compromessi, gli impasti: lo scopo è ottenere delle immagini che siano dichiaratamente “in-naturali”, quasi metafisiche o surreali, dove le luci sorgono dal di dentro, come se fossero endogene, emesse dalla materia stessa.
Basterebbe guardare “Il villaggio” (2005) o “Senza Titolo” (2008), in cui case e colonne di templi greci sfuggono ai tagli netti delle architetture e creano fantasmagoriche atmosfere solari. E’ una pittura che tralascia ogni particolare realistico, ogni dettaglio, anche se i soggetti spesso sono quotidiani, familiari (case, strade, monti): essi piuttosto perseguono delle straordinarie capacità metamorfiche, trasformando l’albero in montagna, la montagna in nuvola, la nuvola in batuffolo di cotone librato nel vuoto. Anche ciò che può apparire come composizione elementare e infantile è in realtà una ricerca dell’essenzialità e della forma sintetica che era propria dei nostri maestri del Quattrocento. Salvo è un “primitivo”, perché reclama il ruolo della soggettività nella realizzazione della “sua” realtà. I suoi sono paesaggi sognati, sono Eden del desiderio. Ed è per questo che risultano invariabilmente come allucinati, improbabili, “imprevisti”: degli autentici sgarbi percettivi.
Salvo è l’artista che si fa demiurgo, costruttore di un universo di magia, inventore di una dimensione ludica della visione. Identico discorso vale anche per i temi mitologici (del ’77-’78): ci troviamo sempre di fronte all’ “infans” che si diverte a fare il verso al mondo degli adulti, alle loro ostentazioni di sapienza e classicità. In mostra troviamo “Cavaliere tra le rovine al crepuscolo”, “Apollo e Dafne”, “Ercole e Bacco in trionfo”: architetture e personaggi che sembrano modellati in una “sostanza aerea, madreperlacea, lunare”, con prospettive troppo profonde, viadotti troppo alti, figure sproporzionate. E’ una pittura fuori scala, in quanto racconto soggettivo dell’artista, risultato del suo sguardo, anche se filtrato attraverso la grande pittura rinascimentale. Fino ad arrivare al “Trionfo di San Giorgio (da Carpaccio)” del ’74, che pare una sequenza filmica con tanto di comparse, cavalli sontuosamente bardati, esecuzioni ostentate. La pratica pittorica appare sommaria, impacciata, quasi goffa; non interessa la fedeltà al modello, quanto la stilizzazione, la sua appropriazione sospesa e visionaria.
Ed è così anche nei tanti “d’après”, nei tanti “San Giorgio e il drago”: Salvo entra nella Storia delle immagini, non da citazionista passivo o da riverente copista, ma da sfrontato incursore, capace di inserire il proprio volto al posto di quello dell’eroe leggendario, come del resto aveva fatto con i primi fotomontaggi, dove aveva preso di volta in volta le sembianze di un bandito, di un cacciatore, di un fruttivendolo, o nelle storiche lapidi, dove aveva inciso a caratteri epigrafici il proprio nome. C’è sempre stato in lui il bisogno di affermare la propria individualità nell’universalità dell’opera, di rivendicare per sé un ironico diritto all’eternità. Il che, tradotto nei “Paesaggi” attuali può significare l’accettazione a lasciarsi trapassare dagli eventi e dalle cose, per prolungarsi e coestendersi con essi. Essere ovunque nel mondo e avere il mondo dentro di sé; ripercorrere codici antichi per batterli sul loro stesso campo. Salvo imprevisti o “capricci”, che comunque l’artista ama alla follia.
Inaugurazione sabato 28 febbraio 2009, ore 18
Galleria Atlantica
Via Piave 35, Altavilla (VI)
Orari: martedì - domenica 16-21; lunedì chiuso
Ingresso gratuito