Mediatore tra Oriente e Occidente. La mostra propone 20 opere scelte, realizzate tra il 1953 e il 1972, gli anni di una maturita' ormai piena dell'artista. La sua pittura e' segnata dapprima dalla "scrittura bianca" (la white writing) fondata sulla calligrafia orientale e poi evoluta nella scrittura di colore, a volte in una costruzione spaziale densa e composita, altre volte in una semplicita' grafica disarmante.
Sono passati più di quarant’anni dalla prima presenza di Mark Tobey alla Galleria Blu di Milano. Fu infatti nell’ottobre del 1968 che un’opera dell’artista americano comparve in una rassegna che aveva come titolo “L’Immortale” e che presentava importanti maestri internazionali come Arp, Ernst, Fontana, Goetz, Magnelli, Matta, Picasso.
Ora a Mark Tobey - una cui opera è attualmente presente nella mostra “Morphologie autre. Omaggio a Michel Tapié” in atto alla Blu fino ai primi di maggio - è dedicata una mostra personale che propone venti opere scelte, realizzate tra il 1953 e il 1972, negli anni di una maturità ormai piena. La storia di questo grande maestro internazionale (può senza dubbio essere considerato il decano degli espressionisti astratti americani) si incrocia e si intreccia con quella di Pollock, Kline, de Kooning, Motherwell, Rothko e Still, con i quali partecipa nel 1956 alla rassegna “American Painting” alla Tate Gallery di Londra, che fa conoscere per la prima volta al pubblico europeo gli esponenti della nuova arte americana della cosiddetta Scuola di New York. Attorno a lui prenderà poi consistenza (quasi in contrapposizione con la proposta neworkese) quella che viene definita Scuola del Pacifico, che ha come suoi riferimenti e stimoli le filosofie orientali, fondate sull’approccio meditativo all’uomo e alle cose e quindi su suggestioni di carattere intimista.
La prima comparsa di Tobey in Italia si era avuta alla Biennale di Venezia del 1948, cui sarebbero seguite altre presenze nelle esposizioni del 1956 e del 1958, edizione quest’ultima che gli valse il Gran Premio Internazionale per la pittura. In quell’occasione, nel catalogo della Biennale, Frank O’Hara parlava della sua pittura facendo riferimento alla sua “predilezione per la linea in opposizione alla massa” (la massa come elemento tipico della cultura e dell’arte dell’Occidente, la linea di quelle dell’Oriente) citando il confronto che egli aveva cercato con alcuni maestri della pittura orientale e che Tobey stesso riassumeva sottolineando di essere giunto “a scoprire da me stesso che si può ‘vedere’ un albero non solo in termini di luce e di massa, ma anche come linea dinamica”. Su questi presupposti si è poi sviluppata tutta la sua arte, segnata dapprima dalla “scrittura bianca” (la white writing), fondata sulla calligrafia orientale, e poi evoluta nella scrittura di colore, a volte in una costruzione spaziale densa e composita, altre volte in una semplicità grafica disarmante.
La mostra è accompagnata da un catalogo introdotto da un saggio di Heiner Hachmeister, del Comitato Mark Tobey di Muenster, che definisce Tobey “mediatore tra Oriente e Occidente” e sottolinea i “contatti” italiani del maestro americano, da quelli iniziali con Piero della Francesca e i suoi affreschi di Arezzo a quelli con Piero Dorazio, i cui “lavori degli anni ’50 - scrive - anche se alimentati concettualmente da fonti costruttiviste, sono stati senza dubbio influenzati da Tobey, almeno per quanto riguarda la loro superficie visiva.” Ma anche, da non trascurare, gli influssi sulla prima produzione di Tancredi.
Mark Tobey nasce a Centerville, Wisconsin, nel 1890. Dopo aver frequentato i corsi dell‘Art Institute of Chicago (1906-1908) si trasferisce a New York, dove lavora come illustratore di moda. La sua prima personale è del 1917, ma già l’anno successivo, con la sua conversione alla fede Baha’i, la sua pittura va alla ricerca di una dimensione spirituale. Dal 1922 è a Seattle per insegnare alla Cornish School of Allied Arts e qui comincia a studiare la calligrafia cinese. Dopo un viaggio a Parigi (1925) le sue strade si dirigono verso il Medio Oriente, dove affronta le culture (e le scritture) persiane e arabe, e da dove rientra a Seattle. Un lungo soggiorno in Inghilterra, come artista residente alla Dartington Hall, una scuola progressista nel Devonshire, tra 1931 e 1938, gli consente altri importanti viaggi, tra cui si situa, nel 1934, durante un viaggio in Oriente, un periodo di meditazione e di studio in un monastero zen fuori Kyoto. Matura qui quella “scrittura bianca”, che gli darà una riconoscibilità universale e che sarà presentata nel 1944 alla Willard Gallery di New York. Anche i musei si accorgono di lui e seguono quindi importanti esposizioni a Portland (1945), Chicago (1946), San Francisco (1951). Nel 1955 è da Jeanne Bucher a Parigi e nel 1957 presenta i primi dipinti a inchiostro Sumi. Il gran Premio per la pittura della Biennale del 1958 lo porta definitivamente in Europa. Si trasferisce infatti a Basilea nel 1960 dove rimarrà fino alla morte (1976). Intanto lo celebrano importanti musei come il Musée des Arts Décoratifs di Parigi (1961), il Museum of Modern Art di New York (1962), lo Stedelijk Museum di Amsterdam (1966) e la National Collection of Fine Arts di Washington (1974).
Immagine: Calligraphy, 1968, tempera su carta, cm 35,5 x 26
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Inaugurazione: lunedì 11 maggio 2009, ore 21
11 maggio – 17 luglio 2009.
Galleria Blu, via Senato, 18 Milano
Orari: da lunedì a venerdì 10.00-12,30 / 15.30-19.00, sabato 15.30-19.00 (chiusa domenica e festivi).