Thomas Behling
Ulrik Happy Dannenberg
Christian Holtmann
Heiner Preissing
Max Schaffer
Antonio Velasco Munoz
Claudia Bernareggi
Questa esposizione collettiva nasce dalla collaborazione con la Gadewe (Galerie des Westens) di Brema gestita da Tom Gefken. In mostra opere di: Thomas Behling, Ulrik Happy Dannenberg, Christian Holtmann, Heiner Preissing, Max Schaffer, Antonio Velasco Munoz. A cura di Claudia Bernareggi.
Questa esposizione collettiva nasce dalla collaborazione con la GADEWE (Galerie des Westens) di Brema gestita da Tom Gefken – artista che gode di ampia fama all’interno del circuito artistico tedesco ed egli stesso parte della scuderia della Galleria Bianca Maria Rizzi: una prolifica collaborazione, che ha come obbiettivo primo un interscambio culturale tra le realtà artistiche di Milano e della città tedesca. Lo scorso novembre ha visto l’inaugurazione di una mostra collettiva che presentava oltralpe i nomi di Zelimir Baric, Mihailo Beli Karanovic, Kinki Texas e Valentino Menghi, alla quale si risponde oggi con quasi altrettanti artisti, estremamente differenti tra loro nello stile e nella poetica, ma tutti con una carriera artistica già oggi rilevante e con buone prospettive. Antonio Velasco Muñoz (Siviglia, 1969), artista andaluso residente in Germania da ormai nove anni, realizza i propri lavori partendo dall’analisi artistica dei fenomeni psichici della memoria. Gli album fotografici, i video, gli oggetti prelevati dalla sua infanzia divengono materiale da cui prende vita uno studio approfondito sull’elaborazione del ricordo, in cui l’oggetto stesso diviene un mezzo concreto da cui trarre lo stimolo per una riattivazione temporale. Non è tanto dunque l’intento di ri-rappresentare un evento, quanto l’atto più poetico di percorrere, attraverso oggetti transizionali, un tempo ormai concluso e riviverlo come un vero e proprio déjà vu. Da un lato dunque le tele, indici e obiettivi sulla scena da ricordare, e al loro fianco gli oggetti, i vestiti, elementi prelevati da quella stessa realtà, che fanno leva su tutti i sensi per stimolare quella proustiana memoria spontanea che fa riapparire nel presente quello che è ormai stato sepolto nel tempo perduto.
Figlio di una generazione fortemente influenzata dalle immagini, globalizzata dagli eventi mediatici e dalla maestà tecnologica che ricopre tutti gli aspetti della vita inserendoli nella sfera del quotidiano, Christian Holtmann (Rheine, 1970) si presenta con un atteggiamento di reazione e al contempo di ritorno all’ordine, partendo dall’affrontare queste pratiche utilizzando i loro stessi mezzi per dar vita ad un ritratto del mondo contemporaneo. Non si può includere l’opera di Holtmann in uno stile preciso, trovare un filo conduttore prestabilito, né determinarne un percorso, per il semplice fatto che non esiste, come non esiste un’unica direzione all’interno dell’informazione mediatica. La produzione dell’artista tedesco sarà dunque invasa da immagini che si rifanno ad eventi di cronaca (ovviamente non inibiti dalla censura), ai protagonisti degli eventi politici contemporanei, a scene prelevate dall’entertainment, alle vittime dei conflitti, ed assieme alle scene di film, prese come archetipi della vita reale che manifesta l’assurda inscindibilità tra reale e artificiale.
Se Holtmann sfrutta gli scenari della vita quotidiana per attuare una rivoluzione nei confronti della poca veridicità della trasmissione mediatica, Max Schaffer (Santiago del Cile, 1985) contempla lo stesso universo per far emergere ciò che nel comportamento umano vi è di più assurdo e inspiegabile. L’aspetto quotidiano della vita viene interpretato sotto l’aspetto più surreale, talvolta mesto, talvolta ironico, conducendo lo spettatore all’interno di un contesto che assume toni di volta in volta sempre più fantastici. In realtà, tra le righe di questa bizzarra interpretazione, vi sono la piena consapevolezza e l’audace realismo che soggiacciono ad ogni atto ironico: Schaffer si scontra con i quesiti esistenziali di ogni uomo, con i desideri e le aspettative che ciascuno di noi conserva per la propria esistenza, e li trasforma in frammenti che ricolloca in un universo parallelo, forse per prenderne le distanze e riconsiderarli con un atteggiamento più lucido.
Altrettanto ironico appare Thomas Behling (Hannover, 1979), il quale opera attraverso la manipolazione e l’alterazione di opere preesistenti solitamente recuperate al mercato delle pulci. Il gioco grottesco che attua l’artista all’interno delle sue produzioni mira a demistificare sia l’utilizzo che di questi oggetti d’arte ne veniva fatto, sia le aspettative che derivavano dalla narrazione originale. Secondo una logica che per certi versi ci ricorda le vecchie manipolazioni dadaiste e nello specifico duchampiane dell’oggetto, Behling, pur rispettandone l’iconografia, gioca sull’ambivalenza tra l’austerità di un’opera e il metterla esplicitamente in ridicolo, come Duchamp stesso fece con la Monna Lisa di Leonardo da Vinci.
Heiner Preißing (Langenfeld, 1945) ci conduce invece in una dimensione più surreale, dove tutte le componenti dell’opera sembrano assemblate con una logica che ha molto dell’onirico. I protagonisti spaziano da figure fiabesche a personaggi della vita reale di cui sembra venga riportato il ritratto; le stesse scene rappresentate non hanno, almeno apparentemente, nessun legame di logica nè narrativa né temporale, le atmosfere sono fluttuanti e anche le regole prospettiche, come quelle fisiche, non sembrano rispettate. Nonostante questo brulicare caotico di situazioni e figure, le composizioni dell’artista non si rivelano come inni alla piena irrazionalità, ma, al contrario, pare che di ogni elemento venga studiata la collocazione con disciplina e criterio: dove il caos rimane limite di uno sguardo poco approfondito, uno schermo oscurante su di una narrazione che deve essere decifrata necessariamente da un approccio intellettuale.
Può, infine, un’immagine divenire il primo stimolo per un’esperienza estetica totale? Come la riproduzione di oggetti può sfruttare tutto il suo potenziale ed influenzare lo spettatore ai livelli di un’opera musicale? Quali caratteristiche formali dovrebbe avere, per ispirare uno stato d’animo e generare una molteplicità di quesiti che portino a vivere quest’opera nella sua interezza?
L’opera di Ulrik Happy Dannenberg (Wanne-Eickel, 1963) ha i presupposti per diventare un vero e proprio esperimento estetico, a partire dalla scelta del soggetto, il dolce, che per le sue caratteristiche è ispiratore di sensazioni piacevoli, e poi ancora del materiale, la resina sintetica, capace di raggiungere una piena somiglianza col soggetto rappresentato. Ed è dalla piena aderenza alla realtà, ma al contempo dalla consapevolezza che l’oggetto rappresentato non sia, in realtà, quello originale, che inizia l’ondata di quesiti sulle sue caratteristiche. Il suo gusto sarà il medesimo? E come sarà al tatto? La somiglianza riguarda solamente l’aspetto visivo o vuole raggiungere la totale qualificazione di ciò che è stato rappresentato? Quello di Dannenberg diviene un gioco non tanto basato sulla somiglianza delle sue immagini a qualcosa di conosciuto, quanto sull’esperienza estetica totalizzante che trova nell’atto del vedere il suo punto di partenza.
Claudia Bernareggi
Immagine: Antonio Velasco Munoz
Inaugurazione 4 giugno 2009
Galleria Bianca Maria Rizzi
via Molino delle Armi, 3 - Milano
Mar, gio, ven, dalle 15 alle 19.30, Mer dalle 13 alle 19.30, Sab dalle ore 11 alle 13 e dalle ore 15 alle 19.30
Lunedì e al mattino su appuntamento
Ingresso libero