Il nuovo ciclo artistico di Vaccari (sculture e quadri realizzati negli ultimi due anni) e' profondamente diverso da cio' che conoscevamo e risente dei cambiamenti cui e' andata incontro, di recente, la pittura contemporanea.
WAINER VACCARI
TESTI DI VITTORIO SGARBI E LUCA BEATRICE
VACCARI
Vittorio Sgarbi
Grandi spazi di colore, regolari, uniformi, come vedute zenitali, come isole nel mare. Tra i mari e le isole c'è talvolta similitudine e accordo di toni; toni che denunciano una chiara conoscenza dell'Espressionismo nordico, ma anche di esperienze - De Stael soprattutto - che si sono mosse fra l'astrattismo informale e la figurazione.
L'impressione è quella di trovarsi davanti a una cartografia immaginaria riferibile chissà a quale terra della fantasia, fatta di colori e di forme. Ecco quello che in un primo momento poteva sembrarci casuale è invece dettato da una sottile e precisa strategia; e infatti, nel loro insieme, questi segni finiscono per definire figure, sorprendenti nel loro emergere, all'improvviso, davanti ai nostri occhi. Un processo che sembra non definitivo, malgrado l'indiscutibilità dei suoi esiti. Basterebbe dimenticare per un attimo la funzione di certi segni, e l'anomalo opus sectile tornerebbe subito all'indistinto, le isole a essere isole, i mari a essere mari. È un effetto ottico, certamente virtuosistico, ma non involuto nel compiacersi di un mestiere pittorico, sicuramente finissimo.
La sorpresa si fa stupore. Pareva giunto a scelte definitive, Vaccari, a una sicurezza e una compiutezza ormai non più
discutibili, a un punto di non ritorno nel suo cammino artistico.
Cercava uno spazio tutto suo, come aveva affermato,in cui rappresentare liberamente i propri spettacoli, oltre le Alpi e i boschi gotici. L'aveva trovato, creando un mondo fantastico che aveva plasmato fino a renderlo una cosa sola con se stesso; un piccolo paradiso fatto di natura incontaminata, di una strana popolazione dalle forme massicce e dai tratti orientali, impegnati in ritualità misteriose, puri come in una favola, sensuali talvolta fino alla provocazione, sereni nel loro complesso, ma non privi di pungenti inquietudini.
Aveva trovato il suo mondo artistico, Vaccari, "manieristico" nella sua radice più remota, "fumettistico" nel suo prendere le distanze dalla rievocazione accademica della storia e nel rapportarsi al mondo della comunicazione moderna.
Aveva trovato il suo mondo, Vaccari, anche per una vena lirica tutta particolare, per una sensibilità onirica inconfondibile, delicata e piccante, giocosa, mai asettica, mai chiusa nel piacere esclusivo della contemplazione, sempre disposta a coinvolgere l'osservatore nel piacere della creazione; ma Vaccari ha voluto rinunciare all'isola felice, al suo e ormai anche nostro paradiso. Non più nature incontaminate, non più massicci e sensuali orientali, non più misteriosi riti, non più storie senza storia, non più favole per gli occhi, non più pitture dal mestiere antico e raffinato, dalle stratigrafie solide e complesse. È calato il sipario su quel mondo, chissà se per sempre.
Vaccari ha deciso d'intraprendere una nuova esperienza e lo ha fatto certamente perché ne avvertiva la precisa necessità .
I paradisi hanno talvolta il difetto di essere troppo prevedibili nella loro beatitudine, niente ti mette alla prova, niente ti stimola a reagire, a ricominciare. Insostenibile la perfezione: a un certo punto Vaccari deve aver pensato che i paradisi sono fatti per i santi o per gli dei, non per gli uomini. Così, il nostro artista si deve essere sentito come l'Ulisse dantesco e decide di abbandonare in segreto il suo eden, probabilmente in punta di piedi per non incrinare il dolce silenzio di quelle terre, per non disturbare i sonni beati dei suoi abitanti. Un grande coraggio: nuovi scenari dell'immaginazione da affrontare, appassionanti, imprevedibili, faticosi. Dove prima c'era il mestiere esibito, sovrabbondante, ora c'è quello dell'essenzialità espressiva, di un'apparente durezza che vuole attraversare i limiti tra
distinto e indistinto, non meno sofisticato, ma "mascherato".
Una nuova necessità emerge, esistenziale non meno che lirica, quella di un'immediatezza maggiore fra creazione ed espressione, senza che il mestiere antico fermi la vis intuitiva. Ma è stata così imprevedibile la metamorfosi di Vaccari? Forse no, forse esistevano già i segnali. Nessuno potrebbe obiettare sulla coerenza di Vaccari: e perché avrebbe mai dovuto fermarsi?
Non solo nella vita, non solo nel suo modo di vedere l'arte, ma anche nelle opere Vaccari aveva fatto capire che non si
sarebbe fermato. Penso, ad esempio, al periodo intorno al 1999, un momento di congiunzione fra la precedente e l'attuale produzione. Opere particolarmente ispirate, ancora inseribili nel mondo più caratteristico di Vaccari, con significative novità alle quali dare più attenzione.
I massicci orientali c'erano, ancora, puliti e levigati come i loro crani, un po' monaci, un po' clown; si radunavano avanzando chini in fila indiana; un ennesimo rituale dalle ragioni misteriose, certamente buffo.
C'era ancora un'ironia dada in quei dipinti di Vaccari, il piacere del divertimento non sense, spiazzante nel metterci di fronte alle nostre presunte certezze, irriverente nello sbeffeggiare la nostra necessità di comprendere sempre tutto. C'era una sensualità penetrante e istintiva fra le varie raffigurazioni e fra queste la gigantesca memoria nuda, santa e prostituta come un personaggio felliniano, in un dipinto significativamente chiamato Ti riconosco sempre. Nessuna volgarità in Vaccari, quella stessa donna, strabocchevole montagna di carne, rigida nel sostenersi lungo i braccioli di una poltrona, non lascia troppe speranze ai suoi minuscoli aspiranti (Siamo tornati). In Ti riconosco sempre le cose cambiano radicalmente: un unico viluppo lega la donna ai monaci che appaiono più numerosi e grandi di quanto erano in Siamo tornati. Un unico corpo simile a un oggetto di design, un monumento "costruttivista", un unico simbolismo a spiegare in sostanza l'origine del mondo in modo analogo a quanto aveva fatto Courbet. Ma dove il realismo di Courbet non lasciava spazio a immaginazioni, qui nessuno sviluppo alla storia viene negato: si limiteranno i monaci ad adorare, terminando un po' mestamente il loro pellegrinaggio. Tutto è possibile, basta che ognuno di noi si lasci guidare dall'immaginazione. Altrettanta leggerezza si avvertiva in dipinti non meno divertenti del dittico Siamo tornati - Ti riconosco sempre, ma privi di effetti narrativi, ad esempio nelle Teste che escono da un fondo di tessuto, spaventosi freaks di Tod Browning che Vaccari tratta come deliziosi gingilli, come bottoni di un vestito in un "ingrandimento" di Gnoli. Come gli orientali in ronda, anche noi sembravamo riconoscere sempre la pittura di Vaccari, attraente, intrigante, disponibile a farci fantasticare come quella ragazzona giunonica, dea madre e amante allo stesso modo. Era certamente mutato il contorno visivo in cui le ronde agivano, ma qualcosa era cambiato. Non più boschi incontaminati, non più scenari da favola, ma sfondi sempre più essenziali, metafisici, tendenti al timbro uniforme sia quando si presentavano in una forma tendenzialmente astratta (Allegro, Ronda rossa), sia quando sostenevano una rappresentazione più realistica (l'asfalto zebrato della Ronda di giorno). Altre volte le ronde si muovevano in una contiguità di piani assai sottile (Ritornano, Interno), nella quale solo il contrapporsi del colore riusciva a distinguerne uno dall'altro, altre volte ancora gli sfondi erano caratterizzati da geometrie ancora più nette, angolari (Terzetto, Senza titolo, Sono sempre stati lì).
C'era poi un altro elemento che emergeva nei dipinti del 1999, non altrettanto nuovo come i fondi uniformi, ma comunque netto come mai era stato in passato. Vaccari ha sempre avuto una grande inclinazione per la visione rialzata, per l'occhio a "volo d'uccello" che poteva permettersi di rappresentare ciò che vedeva come se stesse sempre più in alto. Ora, però, il volo d'uccello sembrava essersi estremizzato, non concepire alternative a se stesso, talvolta si trattava di vedute quasi zenitali, a picco sul mondo sottostante, come a quello della donna giunonica di Siamo tornati.
Potevano sembrare, a noi che amavamo tanto Vaccari, alcune varianti sul tema, destinate a rientrare da un attimo
all'altro dentro il grande alveo del paradiso. Non era così.
Messi insieme, quei fondi uniformi, quei piani ravvicinati, quelle vedute a volo d'uccello, per un effetto sulle raffigurazioni di Vaccari che tende a far sfumare il definito nell'indefinito, sarebbero stati presupposti più precisi per le opere più recenti di Vaccari. Basterebbe allontanarsi da dipinti come Allegro, Ronda rossa, Teste, perdere le fattezze dei corpi per arrivare a suggestioni simili a quelle delle ultime opere di Vaccari, ritrovare le cartografie che oggi troviamo regolarmente. Il resto è stata una ricerca di essenzialità che non vuol dire un rinnegare completo dello stile "paradisiaco", ma semmai una sua "focalizzazione". Un'altra storia, tuttavia, in qualche modo ancora parallela alla precedente, ma profondamente diversa.
Non ci sarebbe però divertimento per Vaccari se si privasse anche di certi piaceri che non sono affatto perversi. Gli artisti possono farlo: così come creano le opere, così sono in grado di ricrearsi, vivere una nuova vita espressiva. È un
loro privilegio, un privilegio che giustamente utilizzano. Vaccari dunque rinasce. L'importante è diventare altro, perché
la sua personale avventura dell'arte non finisca di soddisfarlo e di soddisfarci.
FIGHT
Luca Beatrice
Quella di Wainer Vaccari è pittura per gente tosta. Per chi ama l'emozione. Dedicata a chi si mette in discussione e non è mai contento di nulla.
Il nuovo ciclo artistico di Vaccari (sculture e quadri realizzati negli ultimi due anni) è profondamente diverso da ciò che
conoscevamo e risente dei cambiamenti cui è andata incontro, di recente, la pittura contemporanea.
Nonostante una nuova sensibilità figurativa abbia caratterizzato, e senza dubbio contribuito a modificare, il paesaggio artistico dell'ultimo decennio del secolo scorso, alle soglie del 2000 si è verificato un ulteriore ribaltamento: non è più sufficiente che la pittura si relazioni direttamente alle immagini della realtà limitandosi ad interpretarle. Rilevante appare soprattutto l'utilizzo dell'informale all'interno della figurazione, dopo che la pittura astratta aveva attraversato decenni di oblio perché considerata inadeguata ad esprimere la sensibilità contemporanea. Segni netti e gesti forti restituiscono invece energia all'impianto della pittura d'immagine.
Il nuovo dialogo tra informale e figura predilige l'antinarratività , non si organizza in storie e racconti ma procede per sprazzi e lacerazioni improvvise, così come avviene nella poesia. Quanto la figurazione nata negli anni Novanta del secolo scorso si era caratterizzata per l'ibridazione con altri universi linguistici, altrettanto oggi la pittura rielabora i suoi codici in chiave di complessità ipermoderna dominata dal caos, dal disordine creativo, dalla mancanza di certezze. In tale universo entropico ci vogliono grande controllo, una capacità zen di concentrazione e una predisposizione alla lotta. Per Wainer Vaccari la pittura oggi è appunto tale controllo, tutto mentale, coniugato all'estro, tutto fisico e agonistico. È capacità di vedere con la mente e, allo stesso tempo, erotismo del corpo che non si lascia andare alla deriva. Per contro, anche in Vaccari si è pressoché esaurito lo spazio della storia: rinuncia all'iperdescrittività narrativa, in cui faceva abbondante uso di particolari e dettagli che definivano i caratteri dei personaggi, e affronta la lotta con la tela bianca senza il paracadute della mimesi con la realtà .
Sia per non entrare in superflue competizioni con le immagini del quotidiano, sia per non essere tacciata di pericolosi quanto inutili anacronismi, la pittura di oggi fruga dentro di sé alla scoperta di zone misteriose, poco battute, ma che siano in grado di restituire le drammatiche contraddizioni della contemporaneità . Non a caso si è parlato di informale, vero e proprio tabù visivo negli ultimi decenni tanto fu invece decisivo nel passaggio tra la fine della gestualità astratta e l'inizio dell'arte concettuale. Wainer Vaccari si rimpossessa di un linguaggio che non aveva mai praticato ma che, a ben vedere, si poteva intuire in alcune opere precedenti, andandosi a collocare in linea con le più significative esperienze internazionali degli ultimi anni. Penso soprattutto a Jenny Saville, a Cecily Brown, in qualche modo a Ryan Mendoza, artisti che stanno contribuendo al rinnovamento della pittura, tenendo ben saldo il ruolo dell'immagine ma imponendole il dialogo con qualcosa d'altro, ad esempio segni e gesti puri che sono propri dei codici interni al dipingere.
Soggetto principale di questa fase della pittura di Vaccari, in armonia appunto con il contesto internazionale, è il corpo.
Il corpo che ha attraversato tutta la storia dell'arte recente, dalla Body Art degli anni Sessanta al corpo nuovamente dipinto di oggi. Soprattutto intorno al 1968, esso incarnava il valore più estremo ed eversivo dell'arte, si poneva come il punto limite nel processo di smaterializzazione dell'opera, in quanto tangibile ma non commercializzabile, quindi deliberatamente al di fuori delle regole del mercato. In quella stagione di tensioni il corpo era il veicolo delle lacerazioni
e il simbolo delle contraddizioni, antagonista rispetto ai modelli sociali e, nella sua imbarazzante nudità , impegnato a spostare in avanti i confini del visibile. Un modello quindi prima di tutto etico. Negli anni Novanta, che a loro volta hanno ridato grande spazio alla rappresentazione fisica, si è diffuso un processo di estetizzazione e di anestesia.
Ogni cosa, anche la più terribile e oscena, ha assunto i tratti della bellezza. Ma queste immagini corporali, dopo che il
progresso scientifico reale ha nettamente sovrastato la fiction al punto che se la teoria del "Post Human" nel 1992 poteva apparire un'ipotesi inquietante e oggi è mera archeologia fantascientifica, queste immagini, dicevo, che puntano allo scandalo risultano certamente sensazionalistiche ma scariche di tensione. Il corpo invece ha ripreso posto nella pittura, come da plurimillenaria tradizione iconografica.
Il corpo era uscito dall'arte alcuni decenni fa e oggi la pittura se ne è rimpossessato.
Wainer Vaccari non ha mai trascurato la forza eversiva implicita nella pittura e ha intuito che ora come mai la trasfigurazione della realtà in qualcosa d'altro è l'arma vincente. Punto primario dei suoi nuovi quadri è il corpo, soggetto della pittura e oggetto del desiderio. Corpi incompleti, frammentari, nudi, che fanno sesso, si sfidano e combattono. Immagini appena accennate, che mettono in crisi la percezione facile e impongono un'osservazione concentrata, a distanza. Volti, tronchi, terga ottenuti dall'unione tra disegno e pennellate di colore sullo sfondo puro della tela bianca. Ogni immagine si completa nella complessa rete di soluzioni pittoriche a flirtare continuamente con l'astrazione, come accade nelle gigantesche donne liposuzionate e nei trionfi carnosi di Jenny Saville, nelle scopate e nelle masturbazioni inscenate da Cecily Brown, talora nei soggetti criminali e borderline di Ryan Mendoza. I lottatori e i
nudi di Vaccari sono espliciti senza diventare mai né iperrealisti né letterari. Pittura muscolosa, con le gambe aperte che trasuda umori, tosta ed eccitante.
Altro nodo fondamentale. Vaccari ha intuito che il ruolo trasgressivo, un tempo appannaggio dell'arte, si è trasferito altrove. Differenti sono i luoghi in cui si è alzato il livello dello scontro, diversi i palcoscenici del rituale contemporaneo in cui si manifestano le tensioni. Vaccari ha analizzato queste territorialità e le ha perfettamente declinate alla pittura: la letteratura cyberpunk, le nuove macchine, il concerto rock, le arti marziali e la lotta libera. Nei suoi quadri si incontrano e si scontrano individui che sono in parte umani e in parte altro, e il colore di queste creature meccaniche è
il grigio dell'acciaio e della lamiera, dell'alluminio e degli ingranaggi. Come nel cinema della post-organicità (la nuova carne di Cronenberg oppure l'orrorifico Testuo, per intenderci) le macchine cercano di penetrare e di scambiarsi di ruolo con i residui umani, in una lotta che in buona parte sconfina nell'atto sessuale. Senza trascurare, come avviene in Fight Club, opera filmica veramente centrale del disagio esistenziale di questi anni, il valore eversivo e anarcoide dello scontro, il combattimento nudo e senza ragione che riporta i contendenti ad uno stato primitivo e insieme mira a sovvertire la stabilità del presente. L'attenzione di Vaccari alle cosiddette culture alternative si estende, come detto, al concerto rock in quanto territorio libero dove l'incontro si fonde nello scontro, il piacere nel dolore, la violenza nel sesso. Wainer ha scelto a icona il popolare Marilyn Manson, contraddizione vivente tra bene e male fin dal proprio nom de plume. L'imponente apparato scenografico della rockstar californiana, suggellato da un'eccellente videografia che vanta, tra gli altri, i nomi di Paul Hunter e di Fiora Sigismondi, evidenza come il potenziale sovversivo dell'immaginario collettivo, pur ad ampia diffusione, si serva di non pochi spunti contenuti nelle arti visive: i simboli della cultura cattolica caricati di significato demoniaco e blasfemo, la trasformazione dell'uomo in creatura aliena, una sessualità orgiastica e sanguinolenta, più una miriade di citazioni che vanno dal Chien Andalou di Buñuel alle foto di Witkin e Saudek, dai film SF degli anni Cinquanta all'Azionismo Viennese, apologia (anche ironica e surreale) della cultura del mostruoso.
Oltre che nei corpi, è nei ritratti che si intensifica la curiosità di Wainer Vaccari per l'immaginario cyberpunk. I suoi volti non sono citazione diretta e non danno riferimenti precisi, ma esplicitano il rapporto tra naturale e artificiale presente nella dialettica tra uomo e macchina, tra cosa creata e creatura generata. Di tutto questo Vaccari sceglie ad esempio l'iconografia del cranio rasato (in parte anche autoritratto) attraversato da frammenti di ferro, tubi, fili, circuiti integrati. Ridotta all'essenziale la gamma cromatica dei suoi oltreuomini: il grigio per sottolineare l'elemento "macchinico", il verde acido, il rosso stridente, il blu neon, colori innaturali e irrealistici. Questi ritratti sono la diretta discendenza, o la de-evoluzione, della figura del Viandante che di frequente Vaccari ha utilizzato nelle sue opere a partire dagli anni Ottanta e il cui DNA culturale e filosofico va rintracciato sì in Nietzsche ma soprattutto nel Trattato del ribelle di Ernst Junger. Viandanti del futuro, traversatori di spazi alieni, abitatori di interzone della coscienza, tra vero e falso, finzione e realtà . E non sono forse viandanti il Roy Batty di Blade Runner o le inquietanti presenze negli scenari post-apocalittici di Philip K. Dick? Le figurine nero vestite di Matrix o i cowboy macedoni sopravvissuti al loro tempo in Dust?
La scommessa - vinta - è fare grande pittura con materiali che di norma appartengono ad ambiti meno raffinati. Per non scivolare nel letterario o nella didascalia, Vaccari compie una decisa operazione di rarefazione e semplificazione, da un lato realizzando una sorta di rivoluzione copernicana nel proprio dipingere, dall'altro recuperando elementi e soluzioni in parte già affiorate, come il continuo dinamismo, il moto circolare ripetuto, le proporzioni spesso alterate tra
figure poste sullo stesso piano. Questi e altri elementi sono sintetizzati nel semplice utilizzo del pennello: tracce, erosioni, lacerazioni. È grande, grandissima pittura che alza il livello dello scontro e che, con altrettanta naturalezza, conduce all'avventura tridimensionale della scultura. Al bronzo Vaccari affida quindi i residui espressionismi della manipolazione, il piacere tattile, spaziale e sensorio dell'opera, amplificando non solo il potere gestuale della pittura, ma tentando di offrire una soluzione ai molti che ritengono arduo, se non impossibile, il rinnovamento nel terreno minato della scultura d'immagine. Pur senza enfasi, queste nuove prove di Vaccari, in particolare la monumentale figura che supera i tre metri di altezza, sorpassano ancora una volta la tradizione per inverare quel caos di gesti e segni che ci accompagna al termine ultimo della modernità .
Inaugurazione: 7 MAGGIO 2002 ORE 18.30
martedì-sabato 10.30-13.30 · 14.30-19.30
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