L'artista dipinge nature morte come fossero persone, con la loro personalita', il peso e il disagio del vissuto. Le sue umili cose interpretano il senso piu' intimo di una storia quotidiana, domestica e familiare.
A Mantova, alla Galleria “Arinna Sartori - Arte” nella Sala di Via Cappello 17, Sabato 21 novembre alle ore 18.00 sarà inaugurata la personale di dipinti di Paolo Petrò intitolata “Tables-Tableaux”. La mostra che si inaugurerà alla presenza dell’artista, resterà aperta al pubblico fino al prossimo 10 dicembre 2009.
“Inseguo un refolo di vento che suona una musica, la musica del tempo che mi affascina e terrorizza, ma che mi fa avanzare nel fitto bosco dell’esistenza per trovare una via più chiara e illuminante”. Paolo Petrò dipinge anche le nature morte come fossero persone, con la loro personalità, il peso e il disagio del vissuto - dello sfarinarsi e recidersi del vissuto -: anche un mazzo di fiori, inquadrato nella sua storia, impostato per un ritratto. Ma non è la precisione la caratteristica dei suoi lavori, che altrimenti lo apparenterebbero a tanti nordici artigiani della vita silente, risolvendosi la secchezza meticolosa in mirabile esercizio di stile.
È lo scontro fisico, rarefatto, con la durezza delle cose, ridotto a crudo ed essenziale scontro di luci ed ombre in una stanza, a farci raccogliere davanti a questi lavori così silenziosi e così enigmatici nella loro lucidità visiva e sentimentale, come se in essa fosse depositata una qualche essenza della condizione umana. In verità, Petrò analizza proprio il tessuto del reale, dopo averlo “rinchiuso” nello studio, dopo aver cercato di sottrarlo a un prima e un dopo. Come la musica, egli sa che la pittura tanto più è pura, quanto ogni elemento estraneo al suono è escluso. Ma più lo affronta come presenza pura, più si scontra col senso del vissuto, degli affetti, con la memoria che impregna ogni cosa, anche la più apparentemente inerte. Ed è qui che si coglie la continuità coi lavori dei decenni precedenti, nei quali ha raccontato con l’accumulo, l’addensamento e la frantumazione un reale dispersivo; poi ha scoperto che il duro rivelarsi della verità non ha bisogno di elenchi, ma di una messa in scena spoglia, concentrata, quasi ascetica. Quel frammento di essenza della condizione umana che ci è messo sotto gli occhi è lo straniamento, l’indifferenza, l’esilio da sé: l’uomo sradicato è presente nei relitti, negli oggetti, nei teli delegati a rapprendere su di sé, come polvere nella rivelazione della luce, la trama densa e impenetrabile d’una vita; la confessione, talora, d’uno scacco. E talora, prossima al fondale scuro, mai in primo piano, c’è anche una donna nuda su un divano, promessa di vita inattingibile, o incompresa. Negli oggetti, nei panni o nei muri delle stanze, ora è venuta depositandosi l’essenza del are arte, che è un mettere ordine nell’esistenza, riducendo, purificando. svuotando, in un inchiesta silenziosa ma implacabile che scende fino in fondo alla materia, come fosse una forma viva imprigionata da una forma inerte, una secrezione naturale inchiodata da un’impronta icastica e assoluta.
Ora Paolo Petrò insegue la più grande finitezza, nella definizione sempre più ravvicinata - in una membrana sempre più simile a una pelle desiderosa già un poco rinsecchita -, della “struttura formale” di una emozione: sia un desiderio muto, sia una perdita o sia una solitudine. Il reale più si fa ravvicinato più si rivela impenetrabile, lontano, misterioso, e l’attesa abita il vuoto, ma la fascinazione è in quella dialettica tra tensione sensoriale, tra percezione palpabile d’un respiro trattenuto come appartenesse a un intruso, e volontà di cristallizzare in qualcosa di fermo, d’assoluto: il misterioso disagio di una profondità abitata, d’una luce imbevuta d’un pulviscolo di presenza-assenza de il’ umano. C’è una segreta regalità della solitudine, nei drappi stesi su una sedia come fossero sovrani su un trono, come l’impronta d’un corpo. L’ansia è quella di dare la totalità del visibile di un oggetto assediato dallo spazio, dal vuoto. La sedia-persona sta però anche come una pianta che si rinserra, rinsecchisce e sfarina in polvere: braccata dall’esistenza, ma pur palpitante in una pelle incartapecorita e corrotta. Dopo aver scoperto, spezzando il rosario dei ricordi, la malinconia della vita come vuoto catalogo, ora, in un impasto immalinconito come il bitume dell’esistenza, ma anche in un’ostensione più morbida e pacata, più sottilmente intrisa di luce fonda, Petrò s’arrovella a staccare la rappresentazione dall’oggetto, a provare a farne una cosa a sé stante, eternamente imperturbabile. Dunque allude al realismo illusivo - lo stesso procedere analitico, fedele allo sguardo, a quel che si vede, fissato su un tessuto fitto, ordinato, metodico, controllato -, ma come meditazione sul mestiere (l’esercizio dello sguardo) e perciò esistenziale, in una acuta percezione dell’inesorabile perdersi delle cose. Un realismo che ama le forme statiche, il fascino del linguaggio muto degli oggetti più umili, della sedia o del tavolino di posa, del barattolo di colore, del pennello abbandonato, del mazzo di fiori lasciati rinsecchire, del bucranio.
Così cresce la riflessione sulla solitudine della figura umana - e delle cose delegate a rappresentarla (a tramandarla) - entro lo spazio breve dell’esistenza. La luce si è fatta in Petrò più accorata, apprensiva, eppure più minerale, fredda. Il fremito di vita e la sua mummificazione, la natura corposa (la materia ora è più densa) e la sua vanità. Petrò, nella vena meditativa nutrita dalla sua lunghissima esperienza d’incisore, ribadisce, sulla sensualità della pittura, il dominio mentale, l’arbitrarietà del colore e la spettralità della luce. Dell’incisore, trasporta in pittura la concentrazione intensa, l’attenzione amorevole al dettaglio, la precisione tecnica. Con acquaforte, acquatinta e bulino, ha sempre estratto gli oggetti con fermo nitore da un buio felpato, carico d’atmosfera e inclinazione sentimentale, o da un bianco di dissolvenza filmica, come in un lampo di chiarezza mentale, ma anche di spettrale incombenza. Ma Petrò, prima d’approdare all’olio, aveva provato anche a reggere in equilibrio sulla inquieta pozza dell’acquerello tutte le piccole cose dello studio, nella quiete appartata d’una vecchia casa contadina ristrutturata in un borgo di Franciacorta, a evocare l’universo tradizionale della natura morta pittorica, laddove sentimenti fondamentali dell’esistenza sono stati affidati a cose apparentemente sorde e senza vita. L’acquerellista rivelava come i suoi semplici oggetti vivessero nella liquidità tremula dell’acqua, ma fossero sostanziati da un lunghissimo processo di consuetudine e assimilazione.
Le sue umili cose erano infatti chiamate a interpretare il senso più intimo di una storia quotidiana, domestica, familiare, che è stata fatta di oggetti duraturi che hanno abitato le nostre case come presenze umane, cariche di risonanze nei loro spessori, volumi, colori, ombre, odori, e sentite in sintonia vitale con le stagioni della natura. Ora che siamo inondati di oggetti usa e getta, di plastica e flussi di comunicazioni e immagini elettroniche, il pittore cercava di ritrovare alcune virtù dell’antica civiltà, nella sobria consonanza con la vita segreta degli oggetti. Esprimeva l’esigenza d’una realtà “moralizzata”, fatta di cose che hanno un timbro domestico e feriale, ma sono sentimenti solidificati, deposito d’anima. Nell’approdo all’olio, c’è stata l’esigenza di un afferrarsi ancor più sensuale, corporeo, alla pelle di queste cose, ma appunto perché vieppiù soppesate nella consistenza e frugate nel tessuto minuto della luce, tanto più collocate entro un fondale di pennellate più veloci, sgocciolanti, come ad allontanarle in una consapevolezza fantasmatica, a dire d’una pittura che vorrebbe essere anche gesto, palpito vitale, e si cristallizza. La stessa densa materialità dei colori bruniti, fino a parere talvolta sporchi e opachi, segnala l’avvolgimento delle cose - e delle rare presenze femminili - nel sudano del tempo. Anche certe colate di pittura più urgente, dunque, sono insieme tracce ansiose di vita e solchi del tempo che scioglie ogni pienezza, fa scivolare ogni certezza della forma.
Nel frattempo Petrò, “pittore in un interno”, era anche uscito dallo studio per inoltrarsi nel bosco in una percezione magica ed emozionata, di luci sprizzate e pennellate spalmate e raschiate come miele. Era un approccio sensuale, anche intorpidito in luci pastose, a un paesaggio di Franciacorta tutto di accensione fantasmagorica. Una rievocazione sognante, che non era un’immersione nella materia stessa, come fosse un bisogno fisiologico di un luogo germinante un’intensa fisicità, ma un sentimento lirico, fiabesco, di quieto sussulto emotivo. Il meglio si aveva in paesaggi di luci insieme ardenti e rugginose, guizzanti e radenti: “interni di bosco” che parevano ravvivare di riflessi sanguigni, appena screziati di malinconia, la tavolozza tradizionalmente più pacata di Petrò. Alla fine, l’artista è tornato nello studio con certe passioni di luci più drammatiche, diresti secentesche. Il suo lavoro ora ci racconta proprio questa lotta sempre ripresa e sempre frustrata per una precisione tutta emotiva dell’immagine, nient’affatto perciò illustrativa: è, tutto dentro la storia del ‘900, il suo chiedersi che valore metafisico o simbolico possano ancora avere gli oggetti dell’atelier per la vita del pittore. Lui li rende rivelatori di una presenza umana umile, discreta e silenziosa, di un modo di vivere di semplice sacralità domestica. Ma anche, in quei teli abbandonati sulle sedie, di impronte di figure avvolte in un goffo, tetro nonsenso, un’indolente banalità. È un esercitare l’occhio a recuperare la sua forza luminosa, costantemente contrastata, e a imparare a leggere le cose sottratte al tempo presente, all’umile quotidiano, come reperti archeologici d’un’era remota, che non riusciremo mai a decifrare del tutto. L’artista ci racconta ora come carpisca alla realtà il segreto dell’esistenza delle cose o delle figure nella luce, ma ne resusciti l’apparizione, non tutta la linfa vitale. E la materia densa (del sentimento, del sapore acre e polveroso del tempo), anche drammatica, “recitante” come in un dramma barocco, è però riassorbita (ecco il dramma messo in scena, dell’artista trafugatore di spoglie dalla corruzione della realtà) in un’asciuttezza da realismo magico. La luce lievita, ma non esplode: interrogata e meditata, veglia su una quiete senza riposo. La soglia davanti al cui varco ci lascia soli Petrò? Quello d’una stanza accanto, allusa, dove si sveli l’ellissi tra racconto realistico e tensione onirica, sul grammofono che suona la musica ineluttabile dello scorrere del tempo.
Fausto Lorenzi
Paolo Petrò è nato a Brescia il 13 ottobre del 1948. Ha compiuto gli studi al liceo artistico di Brescia e all’ Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, laureandosi in pittura e incisione. Ha iniziato la sua attività espositiva in collettive e premi nel 1970. Oltre alla pittura ad olio, si dedica all’acquarello e alla calcografia, partecipando e vincendo importanti premi. Le sue opere si trovano presso la Civica Raccolta di Stampe Achille Bertarelli di Milano; il Gabinetto Nazionale delle Stampe di Bagnacavallo; nella raccolta di stampe A.Sartori di Mantova; nel Museo della Grafica del comune di Ostiglia; nel museo di Serra San Quirico.
Sull'opera di Paolo Petrò hanno scritto: Paolo Bellini, Tino Bino, Maurizio Bernardelli Curuz, Carlo Castellaneta, Luciana Baldrighi, Elvira Cassa Salvi, Mauro Corradini, Alberto Chiappani, Floriano De Santi,Cristiana De Leidi, Bruno Fasola, Silvia Lembo, Riccardo Lonati, Fausto Lorenzi, Carlo Franza, Melisa Garzonio, Alessandro Gusmano, Donatella Migliore, Domenico Montalto, Giovanna Mori, Pierangelo Negri, Guglielmo Poloni, Giulio Residori, Furio Romualdi, Luciano Spiazzi, Ugo Spini, Guido Stella, Marisa Scopello, Marco Tabusso, Giannetto Valzelli, Alberto Zaina,Tonino Zana.
Inaugurazione 28 novembre ore 18
Galleria "Arianna Sartori"
via Cappello 17, Mantova
Orario: 10-12,30 e 16-19,30 chiuso festivi
Ingresso libero