Vacuum materiae. L'artista ripercorre un ideale opus alchemicum, un processo mediante il quale la materia, come nella fornace degli alchimisti, si decompone, si purifica e, infine, si sublima.
E’ dalla notte dei tempi che l’uomo s’interroga sui costituenti primi della materia, sulle leggi di base della natura, sulla finitezza o la perpetuità dell’universo, su cosa si cela dentro o dietro la realtà fenomenica, sul proprio destino.
Ecco il rompicapo: la materia implica il suo contrario, cioè il vuoto. E i due forse si compenetrano più di quanto si immagini. Il vuoto allora come grande buco nero? Come misterioso collante? Come l’altra faccia, non illuminata, della realtà? Oriente e Occidente per millenni hanno cercato di dare una risposta al grande enigma. Leucippo e Democrito ipotizzando l’esistenza del vuoto quale condizione per il moto degli atomi, Aristotele negandolo (“natura abhorret vacuum”) per opposte ragioni. Due tesi che si fronteggiano fino a Galilei. Gli studi moderni, con la teoria dei campi, hanno invece ridefinito il vuoto, asserendo non solo che esiste ma che sarebbe lo stato fondamentale dell’universo, uno stato fisico di energia più bassa. C’è persino chi si spinge a ipotizzare una energia infinita, una sorgente che alimenterebbe l’energia cosmica e potrebbe creare materia. Dall’Oriente i saggi buddisti hanno diversamente pensato il “vuoto” come assenza di identità permanente delle cose. “Il vuoto è il dito che indica la luna, non è la luna stessa” recita uno dei primi testi ( Prajnaparamita, II sec. a.C.) della dottrina Zen.
Da queste premesse muove la difficile “indagine sulla materia” di Luca Giannini, che in questa silloge di lavori – comprendente oltre alle sculture e alle opere pittoriche, fortemente sostanziate di elementi materici, anche fotografie – propone un altro approccio (quello dell’arte) al mistero che ancora avvolge per certi aspetti la materia. L’intento è quello di ricomporre le sparse tessere di una semiotica che è già insita nella materia stessa, della quale appunto svelerebbe il senso profondo ed i nessi che la legano al grande Vuoto. Ripercorre l’artista un ideale “opus alchemicum”, un processo mediante il quale la materia, come nella fornace degli alchimisti, si decompone prima (opera al nero), quindi si purifica (opera al bianco) e, infine, si sublima (opera al rosso).
Nel titolo di una scultura (“L’improvvisa consapevolezza dell’essere”), dove si propone una lettura dello spazio-realtà come dualità dinamica tendente però all’unità, si può scorgere una prima, embrionale verità. Ovvero, che “tutti i fenomeni – come si legge nel trattato Zen della “Grande Virtù di Saggezza” - sono compresi, sul piano concettuale, in due categorie: spirito e materia. Ma in realtà l’uno si trova nell’altra e viceversa”.
Gianni De Mattia
Inaugurazione 11 febbraio ore 18
Buildingcase
piazza Verdi, 1 - Roma
Orario: lunedi' - venerdi' 10-18, sabato 10-13
Ingresso libero