La Generazione delle Immagini


6 - 1999/00 - Atmosfere metropolitane


Eugenio Valdés Figueroa



Ieri camminavo per Piazzale Cadorna e ho potuto vedere, o meglio non ho potuto ignorare, la scultura di Claes Oldenburg che vi è stata recentemente collocata. La scultura riproduce un'ago con un filo multicolore infilato nella cruna, e appare come un'allusione estremamente semplificata e parziale all'appellativo di 'città della moda' che Milano si è conquistata. Le proporzioni della scultura sono gigantesche, esattamente come la sua folcloristica prospettiva su questa città e sulla moda, un complesso concetto che, come è risaputo, ha un significato che va bene al di là del lavoro di un sarto.
Davanti alla scultura di Oldenburg ho subito pensato ai luoghi comuni che nascono dalle chimere solitamente costruite intorno al concetto di poetico. Anche Cuba è diventata di moda e ha cominciato ad essere pensata ' desiderata ' dall'Occidente, nei termini riduttivi dell'ambito folclorico. All'immagine del carnevale, delle sensuali mulatte che ancheggiano al ritmo del Son, della luce e del colore dei Caraibi, delle spiagge disseminate di palme, del rum e dell'accattivante fumo dei sigari Havana, gli anni 60 aggiunsero il glamour di giovani e barbuti guerriglieri, trasandati nel vestire e ribelli nell'atteggiamento, appena scesi dalla Sierra Maestra per fare la Rivoluzione. Quarant'anni dopo, senza che sia tramontata la moda della mulatta, del rum e dei sigari, le sonorità nel commento sulla cubanità sono passate dal boom della Salsa al fenomeno 'Buena Vista Social Club', e il folclore politico ha incorporato all'immagine dell'Isola, la discussione su nostalgia, il desiderio e il rifiuto tra L'Avana e Miami, la cruda realtà delle jineteras (le prostitute) e i balseros (coloro che lasciano le coste a bordo di improvvisate imbarcazioni), e le scommesse a favore o contro Castro.

E' indubbio che tutti questi fattori abbiano predisposto le valutazioni sulla produzione artistica contemporanea a Cuba e stabilito modelli di approccio stranieri, che se da un lato contaminano e distorsionano i processo artistici, dall'altro moltiplicano la domanda di arte prodotta nell'Isola, in virtù di schemi carenti di sfumature, prefissati dalle aspettative nei confronti della cubanità. Nel 1999 realizzai insieme a Gerald Matt l'esposizione Cuba: Maps of Desire (Cuba: mappa del desiderio) alla Kunsthalle di Vienna, con il proposito di mettere a confronto tutte le aspettative sopra menzionate. L'installazione di Kcho che apriva la mostra era realizzata con canotti di piombo, che sembravano costruiti per non galleggiare - una sorta di provocazione alla fatalità ' e disposti a raggiera, con i loro punti di partenza e di arrivo confusi, la periferia e il centro presentati come luoghi intercambiabili; in un'opera di Carlos Garaicoa, la frase 'In God We Trust' si ripeteva con cinismo sull' enorme mucchio di monete del valore di un centesimo di dollaro statunitense, che circondava una statua di San Giovanni; nella sua discussa performance El peso de la culpa (Il peso della colpa), Tania Bruguera nascondeva il suo corpo nudo dietro a un cadavere di agnello appeso al collo, mentre ingeriva con solennità terra di Cuba con acqua e sale, facendo così coincidere un atto di antropofagia simbolica con sottili riferimenti sociopolitici e storici. Accanto a queste opere di Kcho, Garaicoa e Bruguera, ne apparivano altre di Félix González-Torres, Ana Mendieta, Abigaíl González, Marta María Pérez, Manuel Piña, Eduardo Aparicio y Ernesto Pujol. Il confronto con l'immagine folcloristica della cubanità non consisteva soltanto nell'essenza minimale, concettuale e nella sobrietà antiestetica a livello formale e tematico delle opere presenti in Cuba: Maps of Desire, ma anche e soprattutto nella sfida a questi schemi realizzata attraverso la giustapposizione di due concetti fondamentali: il desiderio e l'esilio. Erano opere di artisti di origine cubana, prodotte in diversi contesti (L'Avana, Città del Messico, Miami, New York), che insistendo sulla circolarità ' in senso heideggeriano ' entrava in diretta relazione con la fragilità dei limiti, con il desiderio in quanto territorio delle possibilità (e come sovversiva obiezione nei confronti dello statu quo), con l'esilio come isolamento, e/o con la provvisorietà nel suo eterno e paradossale riproporsi.

In questa sede, tuttavia, il mio proposito non è di dimostrare la densità concettuale, la maturità stilistica, la complessità tematica o la grande domanda internazionale delle opere degli artisti appena citati, le cui immagini parlano da sole. Non mi riferirò neppure al notevole lavoro di artisti cubani che per ragioni politiche, economiche ed artistiche si sono trasferiti in Messico, negli Stati Uniti o in Europa durante gli ultimi decenni. Il mio desiderio è invece di introdurvi nell'essenza del panorama artistico interno all'Isola dell'ultimo decennio del '900, in situazioni o proposte che pur non andando al di là della 'perturbazione' locale, hanno inciso direttamente sull'evoluzione delle forme e dei contenuti di un importante settore dell'arte contemporanea di Cuba. Concentrerò la mia attenzione su quei giovani artisti che negli scorsi dieci anni sono rimasti a Cuba a combattere contro l'incertezza. Ho preferito in questa occasione fare un po' di storia ' o meglio rettificare i confini della storia ufficiale ' e concentrare il mio oggetto d'analisi sulle novità e le particolarità del processo interno nel quale si è sviluppato un nuovo atteggiamento nei confronti della creazione artistica. Ho creduto che potesse essere più interessante, in questo caso, tornare indietro di dieci anni e raccontarvi di uno dei momenti di maggiore tensione, nelle relazioni tra arte e società, che si sia mai registrato a Cuba in tutto il '900, e ricondurvi all'inizio del periodo segnato dalla crisi economica e dai confronti ideologici seguiti alla caduta del blocco socialista dell'Europa dell'Est, un'epoca in cui molti guardavano con scetticismo al futuro delle arti figurative a Cuba.

Tra il 1989 e il 1990 ' esattamente dieci anni prima di Cuba: Maps of Desire ' si erano succeduti in modo vertiginoso una serie di avvenimenti sulla scena artistica che, per la loro continguità con la politica, avevano inevitabilmente lacerato il dialogo tra gli artisti e la burocrazia istituzionale cubana: dagli scandalosi avvenimenti provocati dal Proyecto (Progetto) Castillo de la Fuerza (una mostra dal contenuto polemico, organizzata da René Francisco e Ponjuán e consistente in una serie di ritratti con l'effige del Presidente Fidel Castro, aveva determinato la fine dell'intera esperienza e la rimozione di Marcia Leiseca dal suo incarico di Viceministro di Cultura), alla celebre azione collettiva La Plástica Cubana se dedica al Baseball (L'arte cubana si dedica al baseball), realizzata nello Stadio José A. Echeverría, all'Avana, nel 1989, come ironica e irriverente risposta di artisti, critici, professori e studenti di arte alla chiusura di quel Progetto; da Paideia (uno spazio di discussione attivo dal 1989 al 1990 e dedicato alla generazione dei mezzi di informazione, conoscenza e documentazione, secondo la proposta di un importante gruppo di critici, scrittori e artisti, e che si sciolse forse a causa di un manifesto che metteva in discussione, almeno in linea teorica, la subordinazione degli intellettuali alle strutture egemoniche), fino alla spontanea e trasgressiva performance di Angel Delgado, artista che defecando su una copia del quotidiano Granma metteva in crisi l'alleanza con le istituzioni, che gli organizzatori dell'esposizione El Objeto Esculturado1 (L'oggetto scultoreo) proponevano invece in modo esplicito nel loro scritto di accompagnamento al catalogo. Suona ironico che in quei momenti di penuria, intolleranza e deliri patriottici, Tonel realizzasse in casa propria un'esposizione intitolata La Felicidad (La felicità) (1991). In origine, l'esibizione di queste opere era stata progettata per la galleria della Casa del Joven Creador. La decisione dell'artista di sostituire all'ultimo momento lo spazio espositivo ufficiale con un altro spazio molto più isolato ed intimo, metteva in relazione dal punto di vista tematico e concettuale questa sua nuova proposta con la precedente mostra personale Yo lo que quiero es ser feliz (Io quel che voglio è essere felice), che rientrava nel dichiarato entusiasmo critico del Proyecto Castillo de la Fuerza, naufragato nel 1989. Non è strano che la solitudine si sia trasformata, a partire da quel periodo, in un tema ricorrente della sua opera, basti citare El Bloqueo (Il blocco economico) (1989), Aquí se escucha la música del cuerpo (Qui si ascolta la musica del corpo) (1994), o Autorretrato como intelectual orgánico (Homenaje a Antonio Gramsci) (Autoritratto come intellettuale organico-omaggio a Antonio Gramsci) (1997).

In quel periodo a Cuba si parlava soltanto di sopravvivenza, fin da prima che venisse ufficialmente annunciato, nel 1991, l'inizio del cosiddetto Periodo Speciale. I sofismi della retorica politica andavano stretti alla crisi più profonda (da tutti i punti di vista) vissuta dai cubani nati dopo il 1959. E' ormai un luogo comune riconoscere l'impatto che questa situazione di crisi ebbe sulla revisione delle coordinate socio-culturali. Gli anni '90 avevano visto l'insorgere, a Cuba, di un'epoca segnata dall'austerità, e il riconoscimento dell'urgenza di un cambiamento strategico non si fece attendere: tutte le esperienze di piacere, di desideri avulsi dalle regole, di spontaneità o di deviazione dalla vita sociale, cominciarono a spostarsi verso un territorio che evadesse dal controllo istituzionale e si confrontasse ' in modo fittizio, per lo meno - con l'impossibilità.

Le aule delle Scuole d'Arte di Cubanacán e San Alejandro non uscirono illese da questo difficile periodo. E non mi riferisco soltanto alle limitazioni materiali che influirono negativamente sull'attività docente, ma anche alla riduzione di uno spazio di libertà per il dibattito aperto. In quel periodo, la professoressa dell'Instituto Superior de Arte Lupe Alvarez parlava di Restaurazione del paradigma estetico. Altri, invece, decisero che la Restaurazione sarebbe dovuta andare al di là dell'attività artistica e della pratica accademica, secondo un eterodosso criterio di pedagogia al margine dei programmi istituzionali di insegnamento. La stessa Lupe Alvarez sarebbe diventata, in seguito, una tra i difensori e gli istigatori di quei criteri poco convenzionali di insegnamento fuori dalle classi, che si calavano nella situazione contingente ' e nell'intimità ' della vita sociale. Nel 1990, per esempio, un gruppo di studenti dell' I.S.A. (tra cui Abel Barroso, Fernando Rodríguez, Ibrahim Miranda, Dagoberto Rodríguez e Alexandre Arrechea) intervennero in modo sui generis in un solar dell'Avana, insieme al loro professore, René Francisco Rodríguez. Andarono di porta in porta a chiedere agli inquilini in che modo avrebbero potuto aiutarli a restaurare o arredare le loro case. Alcuni chiesero che le loro pareti fossero dipinte di giallo (in chiara allusione al colore attribuito alla Madonna della Caridad del Cobre, Patrona di Cuba) o di azzurro (per il mare, per Yemayá, o forse perché stava bene con il colore dei mobili), altri preferirono interventi molto più pratici, di idraulica, falegnameria o muratura. In tutti i casi, gli abitanti del solar accettarono di condividere per qualche giorno la quotidianità della loro vita domestica con i giovani artisti. L'edificio si rivestì a poco a poco di una serie di abiti simbolici, in cui si mescolavano riferimenti derivanti dalla tradizione vernacola nazionale con i gusti personali di ogni individuo della comunità. L'intervento, intitolato La Casa Nacional (La casa nazionale), faceva parte del progetto Desde una pragmática pedagógica (Dal punto di vista di una prassi pedagogica), e fissava come principi basilari per la decostruzione della pratica accademica ' secondo René Francisco - la retroalimentazione, il dialogo, la contaminazione tra lo spazio vitale e lo spazio pedagogico, l'insistenza in un'arte inserita nel sociale, atta ad offrire un contesto appropriato all'esercizio di nuove richieste, nuovi temi e anche nuovi impegni. Il proposito era di difendere attraverso l'insegnamento gli ultimi resti di un impulso romantico e uno spirito di solidarietà che sembravano condannati a sparire.2

Altri artisti non si preoccuparono troppo di salvare questo impulso romantico e trasformarono la strada in laboratorio creativo assumendo un atteggiamento dichiaratamente cinico. Quando, in uno dei suoi interventi nello spazio pubblico agli inizi degli anni '90, Carlos Garaicoa decise di segnare un luogo della città con il numero 6, si inserì, con le tracce di un gesto insolito, nelle 'scritture del tracciato urbano, senza altre apparenti intenzioni ' afferma lo stesso artista ' che quelle di sperimentare quel '... magico istante borgesiano, in cui colloco lo spettatore sprovveduto all'interno del mio stesso gioco, che si basa sulla possibilità della imago'.

Il 6, il 39, e anche Suceso en el 609 (Avvenimento al 609) (tutte opere realizzate tra il 1990 e 1991), sembravano indicare soltanto il segno lasciato dallo stesso Garaicoa nel suo passaggio per la città. Non si trattava, tuttavia, di opere pensate per l'abituale pubblico delle gallerie, ma di una 'perturbazione' che aggiungeva una narrativa fittizia al luogo prescelto. L'inattesa segnalizzazione di un luogo, con un determinato potere simbolico ottenuto con il passare del tempo e l'uso degli abitanti della città, stimolava subito la curiosità per una storia che alterando definitivamente i rituali quotidiani, produceva un nuovo ed effimero rituale a partire da un segno quasi insignificante o da un oggetto inusuale. Questo tipo di opere funzionava come una sorta di 'perturbazione di strada', sia per quel gioco di sorprese e di sospetti in cui si vedeva coinvolto il passante occasionale, sia per il fatto stesso che questa conseguenza di provocazioni e contaminazioni andava configurando 'avvenimenti' e producendo 'mitologie'.

Ma la più interessante caratteristica di questi 'segni' è il fatto che stimolavano un'ossessione con la loro presenza vuota, come se la materializzazione del nulla potesse scuotere l'indifferenza generale. Anni più tardi, riferendosi a queste azioni, Garaicoa mi spiegava come la perdita di fede e l'incredulità in un progetto sociale emancipatore si ripercuotessero nel suo lavoro attraverso una serie di interventi, il cui unico e vero proposito era il commento e un'accettazione carica di molta ironia.

'Fin da quando eravamo studenti dell'Instituto Superior de Arte, scherzavamo sull'eredità della generazione che ci aveva preceduto e dicevamo con nostalgia, e anche con sarcasmo, che la nostra era una attività già in partenza invasa da inversioni e contraddizioni ' eravamo il rovescio degli anni 60 ' e perciò eravamo condannati a patire tutto da una prospettiva capovolta, saremmo stati gli hippies light degli anni 90. A un periodo di scandali tra il 1989 e 1991, successe un'epoca di silenzio. La città era silenziosa, il doppio esilio era evidente (...), si arrivò a un vuoto quasi assoluto, un vuoto esistenziale... L'assenza di dibattito e l'apatia crearono in tutti uno sconcerto nocivo quanto l'assenza dei principali protagonisti dell'altra epoca'.

L'opera-giornale Memoria de la Postguerra (Ricordo del dopoguerra), di Tania Bruguera, rappresentò un fugace tentativo di riempire quello spazio per l'incontro, il dibattito, la coerenza e la rivitalizzazione all'interno di una dinamica che si era andata spegnendo nel panorama artistico. Ma paradossalmente, tra i presupposti di quest'opera erano previste anche la frustrazione di questo tentativo e la sua provvisorietà funzionale. Di fatto a Tania Bruguera non hanno mai interessato gli oggetti e la loro permanenza; perciò la sua opera si è presentata come il segno indelebile di un gesto, come gli echi di un atteggiamento rimasti più nel tempo che nello spazio. I processi, le loro impronte e traiettorie, hanno costituito non soltanto la materia prima dell'arte della Bruguera, ma anche la sua struttura e finalità. Così, seguendo il percorso della 'perturbazione', tra il 1993 e il 1994 circolarono di mano in mano i due unici numeri della sua opera-giornale. Con una edizione limitata e una produzione e distribuzione completamente alternative, Memoria de la Postguerra era destinata di per sé a creare una perturbazione, ma si trasformò anche in testimonianza ed emblema di un'epoca. Nella nota editoriale al primo numero, uscito nel novembre di quell'anno, che la Bruguera decise di intitolare Ni todo, ni todos; la voz (Né tutto, né tutti: la voce), si poteva leggere: 'Dopoguerra, per somiglianza fisica con la città, con l'interiorità delle persone, con l'aspetto sociale dell'arte...'3

Per atteggiamento e per contrasto, Memoria de la Postguerra mi ricorda a tratti l'impatto che ebbe trent'anni fa il giornale Lunes de Revolución. Fatte salve le distanze temporali, si potrebbe affermare che ambedue le pubblicazioni arrivarono a rappresentare l'effimera azione introdotta da un gruppo di intellettuali d'avanguardia nel terreno dell'illusione, atta a stimolare il dibattito culturale con la creazione di un mezzo per l'esposizione del dubbio come possibilità; ambedue nascono in periodi di intense contraddizioni e profonde incertezze; e nell'accompagnare il documento grafico, il gesto artistico e la responsabilità culturale dei suoi collaboratori con una 'perturbazione' trasformatasi più tardi in leggenda, ambedue arrivano a trasformare la mitologia in un fatto tangibile. Memoria..., tuttavia, si distingueva da Lunes... per il fatto di essere stata concepita come un simulacro di periodico, come una proposta ideo-estetica con ripercussioni socio-culturali, come un'opera d'arte - di natura collaborativa - che passava al bordo di situazioni estreme e di concezioni polari: Memoria... si appropriava delle struttura e delle funzioni di una tipologia giornalistica, ma utilizzava la finzione per sfidare il mutismo e l'immobilità, propiziati dalla censura e dalla riduzione delle pubblicazioni artistiche, dovuta alla crisi editoriale di allora; era un'opera con un carattere di performance collettiva, ma non era una vera performance; era un progetto con pretese di inserimento sociale, ma si avveturava in un intervento a livello ideologico e non oggettuale; raggruppava le voci di un gruppo di scrittori e artisti, ma per la sua insistenza nell'aspetto testimoniale e per l'esplicita volontà di ricostruire un 'paesaggio' sociale a partire dai suoi frammenti dispersi, non arrivava ad essere del tutto un'azione collettiva.

A differenza di Lunes... - sorto nel decennio romantico della Rivoluzione come supplemento culturale di un organo ufficiale e con una tiratura altissima - Memoria de la Postguerra era nato in ambito alternativo, come una reazione al timore, alla delusione e allo scetticismo degli anni 90. Una cosa che mi colpisce a proposito delle peripezie che apparentano e distinguono questi due avvenimenti culturali, è che dopo la fine di Lunes... e il collasso del dibattito intelettuale che sopravvenne più tardi negli anni '60, ci fu un esodo di intellettuali non meno significativo di quello che avvenne - esattamente tra il 1989 e il 1993 ' dopo la pubblicazione del primo numero di Memoria... Non fu per caso che Tania Bruguera invitò a collaborare insieme gli artisti rimasti a Cuba, quelli che avevano deciso di emigrare e il più giovane gruppo di artisti visto ancora con sospetto dalle istituzioni. E neppure causale fu che questo giornale proponesse come tema di riflessione il 'dopoguerra' nel terreno delle idee e 'l'esilio' interno ed esterno a cui era stata confinata la produzione artistica contemporanea. A ragione Luis Camnitzer assicurava nel 1994: 'What is noteworthy is the fact that at a time of unprecedent economic crisis in which distances have grown almost ad infinitum due to the lack of transport and the international dispersion of artists, Memoria has not only assembled ideas but has helpeld maintain a sense of coherence (...) It is over and above the gossip and correspondence, a primary vehicle of communication.'4

Per una atrofizzata relazione tra privato e pubblico, così come per reazione alle zone di silenzio che nascono dal rigoroso controllo dell'informazione da parte di strumenti di massa in mano allo Stato, la 'perturbazione' è circolata a Cuba secondo gli stessi modelli di occultamento e le stesse fonti di illegalità con cui circolano i prodotti di prima necessità, nella rete dell'economia underground. E' chiaro che sarebbe quasi impossibile segregare completamente tutti gli anelli della catena comunicativa in grado di dare corpo al sistema di rituali configuranti il panorama sociale. Ma all'interno di questa catena, si potrebbe dire che la 'perturbazione' attua ugualmente come recettore e portavoce di una cultura sommersa. La 'perturbazione' ha costituito a Cuba un'attività discorsiva alternativa, che ha trasgredito l'autorità dei domini istituzionali, creando un lessico 'domestico' fino a un certo punto indipendente e carico di una relativa autonomia linguistica, grazie alla quale ha potuto allontanarsi dall'ufficialità lasciando una scia contaminante e sovversiva.

Con le stesse caratteristiche della 'perturbazione' e trasferendosi verso le stesse aree di incidenza, già dalla fine del 1989 cominciarono ad apparire segnali di un tipo di espressione artistica che trasformava la sua esclusione ' da parte delle istituzioni ' nella messa in scena di un gioco rischioso, consistente nell'identificare, in un certo qual modo, la vecchia dicotomia interno / esterno (con tutte le connotazioni storiche che questa dicotomia possiede per l'arte) non solo con le tensioni tra il pubblico e il privato, ma anche con i singolari conflitti che in quel periodo esistevano tra l'arte e le istituzioni a Cuba.

Buona parte delle più interessanti manifestazioni di quei primi anni '90 avvennero ai margini delle istituzioni; potrei dire che circolarono alla periferia della società, se non fosse che erano stati quasi tutti concepiti, di per sé, come gesti sociologici. Questa posizione di ritiro dalla scena artistica aveva a che fare non soltanto con l'esercizio di una sorta di 'clandestinità culturale', ma anche con un conseguente processo di alienazione, un disturbo della situazione comunicativa con implicazioni nella relazione arte-società. Questo portò a una permanente tendenza verso un criterio autoriflessivo, un autoriconoscimento che condusse il locus dell'arte dalla strada allo studio, dallo spazio pubblico verso lo spazio privato, dalle inconsistenti trame e strutture di un mondo in crisi e dalle camicie di forza che impone la disciplina sociale, verso una extraterritorialità utopica situata nella precaria sicurezza della perturbazione e della metafora.

La 'traiettoria della perturbazione' ' ossia il fenomeno che ho fin qui analizzato - si cristallizzò, nel 1994, in due eventi culturali di indiscutibile trascendenza: uno fu la creazione di Espacio Aglutinador (Spazio Agglutinante), da parte di due artisti, Sandra Ceballos ed Ezequiel Suárez; l'altro fu la partecipazione cubana alla Quinta Biennale dell'Avana.

Nel marzo del 1994 era stato impedito a Ezequiel Suárez di inaugurare la sua esposizione personale El frente Bauhaus (Il fronte Bauhaus) nella galleria 23 y 12 dell'Avana, a causa delle sue provocazioni frontali all'infrastruttura istituzionale. Le poetiche figurazioni costruttiviste dei suoi dipinti ad olio erano accompagnate dall'ovvietà di una ruvida dichiarazione: 'le istituzioni sono una merda'. Rimuovere i ricordi scatologici di El Objeto Esculturado, ovviamente, non risultò molto piacevole per la direzione della Galleria 23 y 12. I quadri vennero tolti immediatamente e la mostra fu cancellata senza molte spiegazioni poche ore prima dell' inaugurazione. Qualche giorno dopo, Ezequiel e Sandra Ceballos decisero di esporre queste opere nello spazio ridotto che entrambi condividevano come casa e studio al Vedado. La mostra era accompagnata da una specie di manifesto, che avrebbe definito da quel momento la posizione e i principi difesi fino ad oggi da Espacio Aglutinador:
AGLUTINADOR (Agglutinante) (spazio d'arte) si propone di mostrare e diffondere l'opera di artisti cubani di tutte le 'sette' - vivi o morti, residenti o non residenti a Cuba, giovani o vecchi, conosciuti o sconosciuti, famosi o quasi dimenticati, modesti o pedanti - sempre e quando siano di indiscutibile qualità, e soprattutto abbiano la necessaria dose di onestà e preoccupazione per la creazione propria della vera arte. AGLUTINADOR è uno spazio culturale, non una boutique. Non vuole essere elitista, né all'avanguardia, né populista, né passatista: desidera essere (o arrivare ad essere) giusto. Il suo unico impegno è con l'arte. Non è un 'progetto'. Non è una bella idea messa sulla carta da una mente altamente organizzata. AGLUTINADOR è un fatto; sta succedendo: velocemente, naturalmente... Le possibilità di sbagliarsi sono infinite. Se c'è qalcosa da cui AGLUTINADOR fugge come dalla peste è la coerenza, la noiosa e nauseante 'bontà' della coscienza. Charles Baudelaire disse: 'L'arte è lunga'.
AGLUTINADOR (spazio d' arte) dice: 'Che uomo geniale!'
Beuys diceva: 'Ogni uomo è un artista...' A questo andrebbe aggiunto: 'Ogni casa è una galleria'.

Aglutinador divenne una zona di tolleranza, che fin dall'inizio accettò la diversità, liberandosi dal peso di obbedire a limiti e norme. Allo stesso modo in cui Memoria de la Postguerra offriva le sue pagine, come una sfida della pratica artistica alla catalessi istituzionale, Aglutinador offriva le sue pareti e la sua intimità. Per Ceballos e Suárez un'opera che fosse incoerente, ibrida, indefinita, caotica, quasi casuale, poteva essere l'unica reazione adeguata ' o la migliore rappresentazione - allo stato di un mondo con quelle stesse caratteristiche: 'Avevamo smesso di credere' ' mi disse Ceballos - 'e Aglutinador nasceva da questa incredulità. Il manifesto fu quasi uno schiaffo morale a proposito della discriminazione istituzionale nei confronti di artisti dimenticati, ignorati, esclusi o auto-esclusi (...) Non siamo portati a genufletterci o ad accettare tabù (...) per questo la creazione di questo spazio è stato, oltre che una via di fuga, la possibilità di dare libero corso a una incosciente spontaneità, senza rinunciare né ai conflitti in cui siamo coinvolti come individui e come artisti, né alle angosce, e neppure all'apatia che ci invade...' Ma lasciarsi trascinare dall'inerzia dell'apatia significa in questo caso trasformare questa energia nella sua contropartita nichilista. Per Aglutinador questo è stato fino ad oggi un modo per ricondurre l'arte alla 'vita reale', per trasformare uno spazio extra-istituzionale in una 'galleria' di posizioni.

Nella sua particolare maniera di esibire arte, Aglutinador ripropone la rappresentazione, richiama a metodologie poco comuni, e propone strategie, meno concentrate in un'estetica degli oggetti che delle situazioni e del gesto. Nell' esposizione Cuba Inside, per esempio, durante una performance intitolata Cada artista que se va es un fragmento que se pierde (Ogni artista che se ne va e un frammento che si perde), Ezequiel Suárez si arrampica su un'impalcatura e comincia a distruggere il tetto della sua casa con un bisturi d'acciaio. Contemporaneamente alla performance di Suárez, mentre gli spettatori schivavano i calcinacci che cadevano dall'alto, si sviluppava l'opera Roze...La Casa de las Mejoras, di Carlos Garaicoa, composta da proiezioni distorte di immagini di una rovina urbana, fantastici edifici a forma di obelisco disegnati sui muri e il contagioso ritmo 'Chaonda' ' un successo musicale degli anni 60 - dell'orchestra Aragón.

Molte delle esposizioni realizzate in Espacio Aglutinador durante questi ultimi sei anni hanno curiosamente insistito sulla relazione interno-esterno - con connotazioni il cui senso concettuale e spaziale si estende e contamina altri accoppiamenti, come le relazioni tra arte e società, spazio individuale e spazio sociale, arte e individuo, spazio pubblico e spazio privato, storia ufficiale e schizzi o pettegolezzi extraufficiali, arte e politica, mitologia e storia, arte ed etica, ecc. - ma senza ignorare il fatto stesso che questo è prima di tutto uno spazio domestico e poi un luogo dove, tra l'altro, si fa e si espone arte. In una società nella quale tutto è progettato perché la paranoia trovi un terreno fertile, 'spiare o 'sentirsi spiato' fa parte del quotidiano. Il 'voyeurismo' ' inteso come atto riguardante la relazione comunicativa arte-pubblico, oltre a rituale sociale che sfocia nel controllo statale e comprende tutti i livelli della relazione società-individuo ' è stata una delle metafore più interessanti che hanno caratterizzato il gioco speculare sviluppato nelle proposte di Aglutinador, nel quale la reazione degli spettatori è il prodotto di un processo di occultamento di identità tra coloro che 'recitano' e coloro che 'guardano'. Chi varca la soglia di Aglutinador dev'essere preparato a un sovvertimento totale attraverso conflittive situazioni parallele o sagaci giri ellittici, dal momento che, già con il semplice gesto di 'entrare', i visitatori ' e così anche gli artisti e le opere esposte ' vengono coinvolti in frontiere cangianti, così come in spazi e ruoli intercambiabili.

Pochi mesi dopo la creazione di Espacio Aglutinador, ebbe luogo la quinta edizione della Biennale dell'Avana. La Biennale è stata indubbiamente una delle poche eccezioni nel confronto del silenzio da parte della sfera istituzionale. Questa manifestazione ha rappresentato il capitolo più importante della scena delle arti plastiche a Cuba per più di un decennio, e ha conquistato prestigio non solo per la sua cauta e riuscita selezione di opere ed artisti o perché ha aperto una porta di accesso al successo per molti di essi, ma soprattutto perché ha inoculato nel nostro ambiente un vaccino contro i provincialismi, difendendo a ogni costo, e nonostante tutte le difficoltà, un pioneristico lavoro di ricerca sulla contemporaneità culturale di Asia, Africa e America latina, e aggiornando la riflessione teorica in una prospettiva globale.

Se abbiamo contratto un debito con la Biennale dell'Avana, è stato per la giusta e sistematica promozione dell'arte cubana contemporanea portata avanti fin dai suoi esordi, nel 1984 (tra i tanti artisti che hanno raggiunto fama internazionale grazie a questa manifestazione figurano, per esempio, José Bedia, Tomás Sánchez, Ricardo Rodríguez Brey, Tomás Esson, Gory, Tonel, Kcho, Luis Gómez, Manuel Piña, Tania Bruguera, Carlos Garaicoa e Los Carpinteros).

Tra il 1991 e il 1994 la Biennale rispecchia il processo di riarticolazione della dinamica arte-società di cui ho riferito in queste pagine. Già nella quarta edizione della Biennale (1991), durante la quale si celebra un Congresso del Consiglio Internazionale dei Musei di Arte Moderna, viene fatta conoscere l'opera di artisti importanti come Luís Gómez, Ibrahim Miranda, Belkis Ayón e Kcho, mettendo in discussione l'idea ' diffusa all'inizio degli anni '90 ' che l'arte cubana stia attraversando una crisi irreversibile. Anche se Kcho non figurava nella lista dei partecipanti, i curatori, galleristi, direttori di museo e collezionisti che visitavano la Biennale, e il pubblico in generale, rimasero conquistati dalla sua esposizione personale Paisaje Cubano (Paesaggio cubano), collaterale alla manifestazione, nella Galleria 23 y 12. Il successo di questa straordinaria mostra garantì all'artista non solo un invito a partecipare alla successiva edizone della Biennale, ma anche una immediata e definitiva introduzione nei circuiti internazionali, che lo avrebbe trasformato in un caso praticamente eccezionale nel contesto cubano, per la sua meteorica consolidazione nella sfera istituzionale di quegli anni.6
Ma fu soprattutto nella Biennale del 1994 che la perturbazione invase velocemente gli edifici istituzionali e assurse al rango di notizia. Le opere degli artisti cubani erano state divulgate come mai prima di allora dai media internazionali, ma in linea generale le immagini venivano associate alle conseguenze della crisi economica, al dibattito ideologico e al problema migratorio, per cui l'aspetto artistico fungeva da cronaca illustrativa alla situazione dell'Isola. Opere come la serie Aguas Baldías (Acque abbandonate) di Manuel Piña, l'installazione La Regata di Kcho e la performance Miedo (Paura) (dalla serie Dédalo o el Imperio de Salvación-Dedalo o l'impero della salvezza) di Tania Bruguera, si trasformarono ' attraverso la stampa straniera - in immagini '.