La Generazione delle Immagini


6 - 1999/00 - Atmosfere metropolitane


Jean-Yves Jouannais



Mi è stato chiesto di parlare della situazione dell' arte in Francia: si tratta evidentemente di un argomento molto ampio e perciò ho deciso di iniziare con un riferimento a quella che viene chiamata la 'Nuova critica'.
Vorrei prendere spunto da un articolo pubblicato su 'Le Monde' nel gennaio scorso, con il titolo: 'Come la nuova critica ha pungolato la creatività negli anni 90'. Titolo assai interessante, dato che la cosiddetta 'Nuova critica' era formata da giovani che avevano iniziato la loro attività verso la fine degli anni 80. Oggi il loro lavoro sembra aver acquistato una certa visibilità, tanto è vero che un giornale come 'Le Monde' se ne sta occupando, ma ciò avviene dopo un intervallo di una quindicina d'anni. La Nuova critica, quindi, non è propriamente un fenomeno così nuovo.
Il lavoro dei 'giovani critici' della mia generazione si è espresso all'origine attraverso la creazione di riviste d' arte, di cui vorrei ricordare alcuni titoli: 'Purple prose', 'Bloc-notes', 'Documents sur l' art'. Sono pubblicazioni che, malgrado la loro scarsa visibilità dovuta a problemi di diffusione, hanno tuttavia esercitato una certa influenza tra gli artisti delle nuove generazioni e gli studenti d'arte. Oggi si parla di 'nuova critica', con un ritardo che può sembrare ridicolo, soprattutto perché alcuni dei suoi esponenti ultimamente hanno assunto degli incarichi istituzionali. Penso, nello specifico, alla apertura di un Centro d'arte contemporanea presso il Palais de Tokio a Parigi, sotto la direzione di due 'giovani critici' (giovani tra virgolette, notate bene): Nicolas Bourriaud e Jérôme Sans. Si tratta di uno spazio che ambisce ad assomigliare alle Kunsthalle tedesche.
Colgo qui l'occasione per richiamare uno dei paradossi propri del centralismo francese, per cui non esistono più a Parigi degli spazi dedicati ad esposizioni di arte contemporanea, e infatti proprio il Palais de Tokio dovrebbe rimediare a tale lacuna. In realtà le istituzioni più dinamiche e impegnate nel sostegno all'arte contemporanea sono tutte dislocate nelle città di provincia.

Mi piacerebbe intrattenervi ancora sul significato che possiamo attribuire alla 'nuova critica', in particolare per capire in che senso si possa parlare di una specificità francese. Mi sembra che tra i critici della mia generazione emerga, nel bene e nel male, questa particolarità: che nessuno ha seguito un curriculum di studi di estetica e di storia dell' arte, bensì una formazione universitaria in filosofia e letteratura oppure in sociologia e semiologia. Si tratta dunque di persone con una formazione 'amatoriale' e non di professionisti. Per questo motivo nei loro riguardi si pone un problema di credibilità.

E' certo che negli anni 70 i critici d' arte in Francia e in Italia detenevano un potere, derivante dalle loro pubblicazioni, che consentiva loro di promuovere degli artisti o di dare visibilità a un'opera ' ma ciò si verificava in un'epoca in cui il sistema istituzionale era rimasto allo stato embrionale, non ancora pienamente sviluppato. Al giorno d'oggi è chiaro invece che i conservatori e gli operatori istituzionali hanno sulla carriera degli artisti un potere ben superiore rispetto al critico puro, dedito unicamente agli scritti teorici e ad interventi su giornali e riviste, che nessuno più legge. Siamo di fronte dunque ad un problema di credibilità, ma esistono due modi diversi di valutare questo aspetto.

Il professionista raggiunge uno status riconosciuto grazie al proprio livello di specializzazione, mentre la figura di critico amatoriale nasce da una espansione delle diverse attività. Un giovane critico d'arte in Francia, come in altre parti del mondo, sarà certamente impegnato nella pubblicazione dei suoi scritti, ma contemporaneamente potrà anche essere un insegnante (spesso) oppure un editore (talvolta), o un curatore, comunque una figura che interviene negli ingranaggi del mercato d'arte, partecipando ad incarichi aventi un rilievo economico indiretto, come, ad esempio, le consulenze nei comitati per le acquisizioni in organismi come il FRAC e la FNAC, ecc. Sarebbe interessante poter stabilire se la perdita di credibilità professionale del critico deriva intrinsecamente dalla moltiplicazione delle sue attività o se, proprio perché consapevole della sua perdita di potere all'interno del mondo dell'arte, egli si senta sospinto a moltiplicare le proprie attività per continuare ad esistere e preservare la propria visibilità, anche dopo aver perso la posizione dominante.
Il problema della credibilità della critica d'arte si pone, credo, in tutti i Paesi del mondo, ma forse in modo più crudo e diretto da noi in Francia. Questa caratteristica, che talvolta rasenta la soglia della diffamazione, potrebbe in parte essere ricondotta agli impulsi anti-intellettualistici che stanno prendendo piede nel nostro Paese. Paragonando la posizione del critico d'arte francese con quella dei suoi omologhi in Germania o negli Stati Uniti, appare evidente che lo status sociale del critico francese risulta molto più precario e disconosciuto. Spesso si parla a ragione dei problemi che gli artisti devono affrontare per vivere ' o sopravvivere ' e delle problematiche che condizionano la loro carriera dal punto di vista economico, ma quasi mai ci si interroga sulle modalità di lavoro dei critici o sui compensi che essi percepiscono ' o non percepiscono - all'interno di una situazione che si potrebbe a ragione definire come scandalosa.

Vi è un altro aspetto relativo alla critica d'arte che potremmo definire di natura politica. Io credo che il rapporto che la 'nuova critica' intrattiene con la politica sia caratterizzato da una grande immaturità. Ricorrendo a un esempio tratto dalla attualità, vale la pena di accennare alla difficile situazione (oggetto di molteplici analisi su tutta la stampa) che riguarda gli statuti dei FRAC (Fondi Regionali d'Arte Contemporanea) ' istituiti nel 1981, dopo la formazione di un governo a guida socialista. Questi Fondi costituiscono uno strumento culturale eccezionale e di grande efficacia, ma oggi esso si trova a dover affrontare problemi di natura squisitamente politica.
I FRAC sono gestiti in ogni Regione dai rispettivi Consigli Regionali e hanno un Bilancio che viene finanziato per metà dal Ministero della Cultura e per metà dai Consigli Regionali. E' accaduto che in due Regioni il Presidente del Consiglio Regionale, appartenente alla destra, sia risultato eletto con i voti del Fronte Nazionale, partito della destra estrema. Si è creata una situazione molto delicata: è come se le collezioni e le strutture culturali fossero state prese in ostaggio, e questo problema non ha ancora trovato una soluzione.

In questo tipo di circostanza è possibile osservare come reagiscono i diversi protagonisti del mondo artistico, per quanto riguarda l'applicazione o la mancata applicazione dei loro principi politici. Nelle due Regioni in cui si è verificata quella situazione nessun critico e nessun direttore museale, all'interno dei Comitati tecnici del FRAC, così come nessun direttore di FRAC, ha ritenuto giusto dimettersi o esprimere il proprio disaccordo nei riguardi dei neo-eletti. Va segnalato invece che contemporaneamente i responsabili delle istituzioni teatrali locali, come anche di altre istituzioni culturali (nel campo della danza e del cinema) hanno da subito manifestato le proprie opinioni, rassegnando in gran parte le dimissioni dagli incarichi, in segno di protesta. Così, nell'ambito delle arti plastiche, si pone nettamente il problema del rapporto che intercorre con la sfera della politica - ma sempre in modo teorico, artificioso e demagogico - anche se giustamente, il tema della politica rimane tuttora al centro di incontri, dibattiti ed esposizioni. L'aspetto politico è considerato un argomento, un tema di dibattito oppure uno spunto per esposizioni. Come se esso fosse, insomma, una delle tante maniere di affrontare il contenuto artistico, alla stregua del colore, dell'astrazione, della componente psicanalitica o lirica. Da anni il tema della politica si è venuto a configurare come un cliché, una convenzione avulsa dalla realtà sociale, mentre di fatto nel comportamento dei commissari, dei conservatori, dei critici d' arte ' non escludo affatto alcuni artisti da questo elenco ' si registra una reale immaturità in termini di dialettica politica.

Mi viene in mente un altro esempio abbastanza recente. La Biennale di Venezia del 1995, di cui Jean Clair è stato Commissario Generale (attualmente egli è direttore del Museo Picasso di Parigi), ha provocato numerose reazioni di carattere estremamente critico. Si è trattato di una esposizione che potremmo definire come 'revisionista', per la lettura ideologicamente reazionaria che veniva proposta rispetto all'arte moderna. Molti critici e conservatori francesi o stranieri (in particolare gli americani) erano rimasti scioccati da questo 'ritorno all' ordine'. All'epoca, con lo staff di 'Art-Press' avevamo proposto ad alcuni di questi esperti, che si proclamavano particolarmente scandalizzati, di intervenire sulle pagine della nostra rivista. Nessuno ha raccolto questo appello, perché il problema era fondamentalmente di natura politica. Per noi questo era la conferma che l'impegno ideologico, o almeno la collocazione politica, erano da considerarsi ormai impossibili. La politica era diventata un argomento, un motivo, un oggetto autonomo e decorativo, perdendo il suo significato sostanziale di articolazione della vita intellettuale. Da qui deriva una tendenza, presente in molti giovani artisti e giovani critici, a inventare un rapporto non dialettico con il mondo della politica (il che denota una mancanza di strumenti e di cultura), immaginando un collegamento rozzo e ingenuo che nasce dalla infatuazione, dallo slancio sentimentale.

Per fare un altro esempio, citerò la rivista 'Krisis', una delle proiezioni intellettuali di quella che in Francia è chiamata la 'nuova destra', diretta da Alain de Benoist con una impostazione apertamente e palesemente fascista. Due anni fa 'Krisis' ha pubblicato un numero dedicato all' arte contemporanea, con testi di cui si può trovare l' equivalente, in termini di odio e violenza, solo nella Germania del 1933. Jean Clair collaborò a questo numero della rivista. Ma sarebbe malizioso e semplicistico dedurne che Jean Clair è una persona di estrema destra. Certamente non è così. Tuttavia l'incoerenza del suo comportamento non è che un esempio fra tanti della immaturità politica che caratterizza l'ambiente artistico. La fine della politica o la visione sentimentale della politica è all'origine di molteplici naufragi o, per usare termini non offensivi, di forme scandalose di 'lasciar-fare'.
Vorrei anche precisare che nel 1993 Umberto Eco aveva rivolto un appello alla vigilanza agli intellettuali europei, per chiedere che non collaborassero con riviste di questo genere, pubblicato su 'Le Monde'. Ebbene tra coloro che sottoscrissero l' appello del 1993, alcuni poi parteciparono al famigerato numero di 'Krisis' o pubblicarono i loro scritti su riviste dello stesso tipo. Si riscontra dunque una sorta di compiacimento, di attrazione per l'ambiguità, di mancanza di coerenza da parte di intellettuali, artisti e critici, e ciò mi sembra un fatto estremamente grave di cui provo vergogna, innanzitutto come francese. Ritengo che la Francia, purtroppo, sia in un certo senso prigioniera di Vichy e che l'abitudine al compromesso sia ormai un elemento primordiale del nostro 'carattere' nazionale.

Vi è poi un altro dato, da aggiungere alla immaturità politica, e che spiega in parte il comportamento di scrittori, artisti e critici: cioè la vera e propria avversione per il 'politically- correct'. In effetti noi europei abbiamo avuto occasione di denunciare e ridicolizzare, giustamente, questo aspetto della cultura puritana dell'America. Ma oggi si profila un movimento contrario che agisce in modo meccanico, il quale non solo è altrettanto ridicolo, ma anche molto più pericoloso in termini di pensiero. E' una sorta di corsa in avanti, a briglie sciolte e intenzionalmente priva di complessi. E' vantaggioso dire o scrivere due o tre cose moralmente ripugnanti, purchè si parli di noi. E' chiaro che la difesa e la spiegazione dei principi dell' umanesimo oggi non corrispondono più ai criteri del marketing intellettuale. E' pertanto ammissibile perseguire scopi abietti e provocatori, non per un intimo convincimento, ma per ossequio alla pubblicità. Mi viene in mente un aneddoto che potrebbe illustrare questo cambiamento di mentalità. Da circa venti anni esiste in Francia una trasmissione letteraria molto popolare; 'Apostrophes' e io ho il ricordo di un giovane scrittore, noto per i suoi scritti antisemiti e razzisti, che una quindicina di anni fa era stato invitato a partecipare a questo programma. Allora era stato preso a ceffoni in diretta. Ma solo due anni fa il medesimo scrittore è stato invitato nuovamente a partecipare alla trasmissione, presentandolo come una novella incarnazione della figura di grande scrittore francese.

Ho fatto alcuni esempi ai quali ne potrebbero seguire molti altri, ma per non dilungarmi sugli aspetti negativi della situazione francese, vorrei dire che quella immaturità di cui parlavo ha anche, paradossalmente, dei risvolti positivi nell' ambito della professione di critico d'arte. In effetti quella leggerezza morale, penosa e contestabile, ha come rovescio della medaglia, per così dire, una leggerezza di tipo diverso: una specie di miscuglio fatto di curiosità, impulsività e freschezza nella ricerca e nel lavoro intorno all' arte. E' questo un aspetto vivace, curioso, aperto che ha caratterizzato la vita artistica della Francia durante gli ultimi dieci anni.

Poteri cercare, ad esempio, di descrivere lo stimolante mescolamento di competenze che si è verificato tra i diversi operatori sul terreno artistico. In particolare abbiamo assistito a forti denunce contro il carattere arbitrario e convenzionale delle separazioni e delle competenze tradizionali. Nel corso di questa opera di demistificazione si sono visti dei critici che trasferivano le loro ricerche teoriche anche sul terreno della creazione, o degli artisti che alimentavano le proprie ricerche plastiche con uno sforzo teorico più intenso.

Questo movimento di scostamento e di riscoperta delle funzioni è stato avviato in realtà da Harald Szeemann, con la famosa esposizione 'Quando le attitudini diventano forme' tenutasi alla Kunsthalle di Berna nel 1969, per la quale egli, in quanto organizzatore, è stato giustamente molto criticato, rimproverandogli di aver voluto appropriarsi del ruolo e status di artista. Mi sembra straordinario che la figura di Harald Szeemann sia giunta a influenzare profondamente le giovani generazioni, anche per il fatto che egli non si è mai presentato come professionista dell'arte, ma piuttosto come un 'dilettante', nel senso romantico di questo termine, cioè nel senso passionale dell'etimologia della parola, descritto e giustificato da Roland Barthes.
Il 'dilettante', colui che ama e ama ancora, è definito dalla passione per il suo oggetto. Ed è vero che se in Szeemann vi è un tema importante, questo è il tema dell'ossessione ' tema importante anche per molti giovani critici, poiché oggi si ammette ormai che i critici abbiano una attività immaginaria, una vita onirica e persino delle passioni che non sono estranee alla sostanza del loro impegno e alla loro idea dell' arte. Mi piace l'idea che il lavoro critico e le proposte artistiche possano non soltanto incontrarsi, ma anche scambiarsi le qualità rispettive. Ciò può essere immaginato soltanto se si accettano le leggi e principi della ossessione. Ritengo che tale idea vada collegata al fatto che i giovani critici non si accontentano più di scrivere dei testi sull'arte, ma estendono la loro attività perfino sul luogo stesso della esposizione, insieme agli artisti. In questo senso la organizzazione di una mostra non è affatto assimilabile una attività mondana, ma si configura come prolungamento di quella attività comune che è appunto l'ossessione. Le antiche postazioni di potere, gli atteggiamenti teorici di chi vuole imporre la propria legge, sovrastando l'opera d'arte, si arricchiscono in termini di flessibilità, di fragilità e piacere. L'arte si irradia sino alla teoria, stimolando una trasformazione del commentatore in artista.

Pertanto se ho iniziato parlando della immaturità in termini negativi, entro certi ambiti, mi sento obbligato in fin dei conti a rivendicare anche gli aspetti più positivi di questa immaturità.
Immaturità che, così come la descrive Witold Gombrowitcz, è un esempio di quella forza che io chiamo 'idiozia'.
Vorrei fermarmi qui per rispondere alle vostre domande, se ce ne saranno.

DOMANDE

Vorrei sapere chi era lo scrittore nella trasmissione televisiva. Inoltre vorrei che si soffermasse ancora su Jean Clair...
Sulla prima domanda: l' autore si chiama Marc-Edouard Nabe, partecipante alla trasmissione 'Apostrophes' condotta da Bernard Pivot.
Per quanto riguarda Jean Clair, io sostengo che la sua Biennale di Venezia ha rappresentato una manifestazione disonesta e politicamente pericolosa. Vale la pena di ricordare che, se è vero che Jean Clair dirige oggi il Museo Picasso di Parigi, ciò nondimeno egli ha potuto scrivere all'inizio degli anni 60 che lo stesso Picasso, a suo giudizio, segnava l'inizio della degenerazione dell'arte occidentale e che la scomparsa della figura umana in pittura era sintomo di una catastrofe culturale, di un profondo fallimento estetico. In questo senso, per me, la sua collaborazione a una rivista come 'Krisis' non è stata accidentale.

Ci può spiegare meglio cosa intende per 'idiozia'?
Il termine 'Idiozia' da una decina d'anni è oggetto delle mie occupazioni e preoccupazioni. Alla Biennale di Venezia del 1995 avevo organizzato una esposizione intitolata 'Storia dell'infamia' come omaggio a Borges, e da sempre mi interessano i concetti aprioristicamente negativi, come ad esempio quello di 'fiasco' (termine italiano che Stendhal ha introdotto in Francia). Partendo da 'fiasco' e passando per 'infamia', proseguendo sul terreno del 'ridicolo', del 'burlesco' e dell' 'ingiustificabile' sono quindi approdato al termine 'idiozia'. Ne ho fatto la mia ossessione personale. L'etimologia di idiozia risale al termine greco 'Idiotès', che designa ciò che è semplice, unico, che non ha copie e si oppone dalla duplicazione. Ma appunto ciò che l'arte, nella sua evoluzione moderna, richiede ed esige dall'artista, per poterlo accogliere nell'ambito storico della propria disciplina, è proprio che questi produca oggetti aventi il carattere primordiale di novità, unicità, singolarità, cioè oggetti che non hanno avuto alcuna esistenza antecedente e quindi ' attenendoci alla etimologia - oggetti 'idioti'.
Il secondo significato di idiozia è quello certamente più noto, con il quale si indica un comportamento prossimo alla follia, immaturo, irragionevole e illogico. Mi interesso quindi agli artisti che, a partire dagli 'Incoerenti' e dal movimento 'dada', da Alfred Jarry a Eric Satie, hanno aggiunto alla definizione naturale di 'idiozia' delle loro opere anche un comportamento 'idiota', nel secondo senso di questa parola. Questo spostamento di prospettiva nella lettura della modernità suggerisce l'ipotesi che l'artista, obbligato a dare vita a oggetti necessariamente e essenzialmente idioti, si sia divertito a interpretare, per se stesso e in modo mimetico, la commedia dell'idiozia come forma di comportamento. Da 'semplice' a 'semplice di spirito', con una sovrapposizione dell'atteggiamento idiota dell'artista rispetto alla condizione idiota degli oggetti d'arte.
Penso a un foglio-manifesto dada che venne diffuso a Parigi nel 1921, Dada solleva tutto: 'Cittadini vi presentano oggi, in forma pornografica, uno spirito volgare e barocco che non è quello della IDIOZIA PURA rivendicata da DADA ' MA IL DOGMATISMO E L' IMBECILLITA' PRESUNTUOSA'. L'idiozia è contrapposta alla presunzione, a ciò che si cerca di far credere come profondo mentre è soltanto serio, la presunzione che non comporta un uso combattivo della ragione, ma piuttosto un utilizzo della cultura a scopo intimidatorio.
Non vi è alcuna forma di nichilismo o di masochismo nell'interesse per un'arte aprioristicamente ingiustificabile, che crede nel significato profondo del ridere. Penso che si tratti semplicemente di una modalità per scoprire il piacere della non-comprensione, il piacere di umiliare l'arroganza in qualsiasi erudizione. E' in questi termini che io penso agli Idioti di Lars von Trier, all'opera Martin Kippenberger, ai film di Harmony Korine, ai video di Saverio Lucariello e alle regie di Peter Land'
Perciò interpreto come il contrario di una provocazione le seguenti parole di Tristan Tzara: 'Io sono un idiota, un burlone, un venditore di fumo.
Guardatemi bene!
Io sono come tutti voi!