La Generazione delle Immagini


6 - 1999/00 - Atmosfere metropolitane


Stuart Koop



Immaginate una mappa del mondo. Due mappe, in realtà, dell'artista Ruth Watson. Nella seconda c'è un ingrandimento del Sud-Est asiatico e dell'Australia. Le mappe sono tracciate con del vino rosso sulla moquette. E' come se il mondo prendesse forma da una sbornia divina, come se fosse costruito con gli avanzi di un party olimpico, di cui sono incidentalmente rimaste alcune tracce a terra.
C'è un potere implicito nelle mappe, specialmente in quelle topografiche come queste due.
Chi guarda si trova a sovrastare ogni punto di una mappa, ad essere onnipresente. E' il punto di vista privilegiato di dei e sovrani. Mi ricordo di aver letto che durante l'Illuminismo questa tecnologia era un top secret delle istituzioni militari e scientifiche.
Così, se da un lato il mondo può sembrarci una divisione arbitraria della geografia, dall'altro un planisfero ci offre un'autorità suprema, immeritata sul mondo stesso. E' una miscela pericolosa. Si sono commessi molti errori guardando una mappa: non solo errori di valutazione, ma invasioni, deliberate incursioni nel territorio altrui. Dopo tutto, la mappa è uno strumento militare e la prospettiva globale, planetaria che rappresenta è troppo ampia perché l'ottica e la mente umana la comprendano.
La globalità è una sorta di oggettività con cui guardare alle cose, che va lentamente affermandosi: è il modo in cui ci vedono gli altri, dei compresi. Abbandoniamo un paradigma per entrare in uno più ampio, in un momento di consapevolezza o di radicale mutamento di prospettiva.
Per esempio, guardare una mappa dell'Asia e vederci anche l'Australia è un fenomeno relativamente recente. Mi ricordo che a scuola la studiavamo isolata da tutto o in relazione all'Europa e all'America; la vicinanza dell'Asia e del Pacifico veniva evidenziata solo raramente.
Invece, ultimamente capita. Decenni di immigrazione, relazioni commerciali e turismo hanno fatto sì che si arrivasse persino a formulare ' ad alta voce! ' la domanda: l'Australia è una nazione asiatica? Nella prima metà degli anni Novanta, l'ex-primo ministro Paul Keating ha dedicato ampie risorse all'integrazione del nostro paese nell'area, mentre nel 1996 l'attuale primo ministro John Howard ha dichiarato solennemente che noi 'non siamo asiatici' e che l'Australia 'non fa parte dell'Asia'.
E' la stessa leadership nazionale a dircelo: siamo e non siamo parte dell'Asia. Le oscillazioni di tale prospettiva sono al cuore di un'identità instabile, che dal 1996 ha alimentato un acceso dibattito razziale in Australia. Al culmine di questo dibattito, la parlamentare Pauline Hanson si è pronunciata contro l'immigrazione asiatica e le politiche di welfare a favore degli aborigeni. Ci si aspettava che le sue affermazioni sollecitassero una vibrante replica governativa sull'identità e i valori nazionali. Invece, due mesi dopo, il primo ministro John Howard rilasciava la seguente dichiarazione: 'Simpatizzo sinceramente con gli australiani che si sentono insultati quando gli viene detto che abbiamo un passato razzista e settario. Insegnare a dei bambini che non c'entrano nulla che facciamo tutti parte di una storia razzista e bigotta, è qualcosa che gli australiani rifiutano'.1 Però la domanda rimane: come fanno gli australiani a separarsi dalla storia dell'Australia? Non è illogico?
Forse questa mancanza di responsabilità o quest'impegno nel chiamarsi fuori caratterizza tutte le repubbliche in erba. E per la verità, lo scorso anno gli australiani hanno votato NO al referendum repubblicano, preservando una forma di governo nella quale il potere definitivo è nelle mani della Regina d'Inghilterra. Chiaramente, questa è ' a un livello simbolico fondamentale ' una mancata assunzione di responsabilità per ciò che siamo e per quanto è successo.
Ovviamente, anche l'imbarazzo o le scuse sono altrettanto impensabili nell'Australia di oggi. Il governo nazionale si rifiuta di chiedere scusa agli Australiani indigeni per le passate campagne di assimilazione, che hanno permesso di strappare con la forza dei bambini aborigeni alle proprie famiglie per farli crescere con altre. La presentazione di scuse formali renderebbe il governo australiano legalmente responsabile. E questo è esattamente il genere di responsabilità che non vogliono assumersi.
Questo governo preferisce discutere di semantica: dato che la stampa e altri mezzi d'informazione hanno ribattezzato i bambini assimilati 'la generazione rubata', in aprile ha precisato che il fatto di aver assimilato un bambino aborigeno su dieci non costituisce il furto di una generazione. Questa palese rimozione del problema parla da sé.
E' evidente che tutto ciò è strettamente legato ai diritti terrieri. Esiste un solo tentativo documentato d'acquisto di un terreno su contrattazione, in tutta l'Australia, da parte dei coloni europei. Il 6 giugno 1835, John Batman cercò di comperare Melbourne dagli aborigeni locali. Ecco cosa scrisse a proposito dei suoi sforzi:
Dopo aver spiegato diffusamente quale fosse il mio obiettivo, acquistai da loro due ampi tratti di terra, all'incirca 600.000 acri, consegnando coperte, coltelli, occhiali da vista, tomahawks, perline, forbici, farina etc., come pagamento per i terreni; accettai inoltre di versare loro un tributo, o rent (affitto), ogni anno.2

I miei commenti sull'arte contemporanea di Melbourne si fondano su questa mancata transazione, dato che buona parte della cultura artistica occidentale non è mai 'appartenuta', nel senso etimologico della proprietà, all'Australia. Gli artisti coloniali imposero, come prima cosa, la loro visione europea. Di conseguenza, tutta la storia bianca si è sviluppata alla luce dei valori culturali europei e nordamericani. Impressionisti, postimpressionisti e astrattisti modernisti hanno sempre applicato stili internazionali al contenuto locale. Ogni successiva nuova ondata della storia dell'arte internazionale ha prodotto lievi increspature agli antipodi.
Recentemente, l'Australia ha accolto con entusiasmo il postmodernismo, seppure in un'accezione speciale. Lo storico dell'arte Rex Butler sostiene che qui, a differenza del resto del mondo, l'appropriazione non è stata recepita come strategia, ma riconosciuta come l'esatta logica in base alla quale l'arte contemporanea australiana si è sempre collocata nella cultura artistica globale.3 Vale a dire che l'appropriazione non è stata riconosciuta come uno strumento critico per porre in discussione autorità, originalità, aura e così via. Ha invece coronato la rimozione della cultura australiana, enfatizzando la nostra distanza dalla sorgente culturale, anziché la nostra prossimità critica o stretta relazione con essa.
L'arte contemporanea di Melbourne, Australia, per quanto coinvolta in mutamenti e contesti globali, rimane legata allo stesso contesto di identità e diritti fondamentali. Nel cuore, quasi naturalmente, stanno i diritti terrieri. Potremmo dire che l'arte australiana è una semiosi condannata, in cui i segni non potranno mai compiersi, se prima non si attua la più basilare precondizione di significazione o rappresentazione: il diritto a un luogo, o a una collocazione della cultura. Il diritto di decretare segni, leggi, status, convenzioni di ogni genere deriva da questo problema di autorità coloniale.
Invece di conquistarla, o costringerla alla resa, gli inglesi liquidarono l'Australia dichiarando che era priva di abitanti umani, 'terra nullius'. Ciò rimosse il bisogno di negoziare una compensazione nei confronti della popolazione indigena, visto che, tecnicamente, non era neppure riconosciuta.
Tuttavia, nel 1992 l'Alta Corte Australiana fece una rivelazione importante: 'Le terre di questo continente non erano terra nullius'. La sorprendente scoperta innescò una serie di rivendicazioni terriere da parte dei popoli aborigeni. Nessuna ha avuto successo. Il vero problema, secondo l'attivista aborigeno Gary Foley, è il riconoscimento della sovranità aborigena: la proprietà vera e propria e non una serie di diritti legali basati sull'uso e l'occupazione della terra.4
Senza questo patto fondamentale, non si può affermare nulla di certo. Persino la definizione di 'arte contemporanea australiana' diventa problematica. Tende quindi a prevalere l'ironia, e l'ironia australiana è famosa.
Precisamente, l'ironia descrive un uso del linguaggio che ha un significato 'interno' per un pubblico privilegiato e uno 'esterno' per le persone verso cui è indirizzata, o che coinvolge. Il che descrive perfettamente il problema dei diritti terrieri, così come la discussa appartenenza dell'Australia all'area asiatica. Ed è sempre per questo che i giornali di Melbourne hanno preteso che il Primo Ministro porgesse non solo le proprie scuse, ma che queste fossero sinceramente sentite, dato che l'ironia fa in modo che s'intenda l'esatto opposto di ciò che viene detto.
Questo genere d'ironia prevale anche nell'arte contemporanea, come conseguenza dell'appropriazione e decostruzione postmoderne, ogni volta che la forma e il contenuto dell'arte ' o il suo aspetto e significato ' non sono impegnati. Certamente, per molti anni questo termine ha stabilito il tono generale dell'arte e della cultura. Qualsiasi riferimento all'ironia è gradevole per un pubblico di conoscitori: 'Ma certo, è ironico! Tutto è ironico'. Io vorrei discutere il lavoro di alcuni artisti che esplorano criticamente l'ironia connaturata alla cultura australiana, affrontando alcuni problemi chiave di una nazione divisa:
- le cose sono quello che sembrano? - possiamo affermare quello che intendiamo? - come potremmo dire o intendere diversamente le cose?
- una comprensione comune è possibile?
Non intendo suggerire una relazione causale tra i problemi della colonizzazione bianca e l'arte contemporanea. Anche se inespresso, il problema dei diritti irrisolti alla terra, a un luogo e una cultura è ciò cui le opere finiscono col rimandare. Questa è la sua rilevanza specifica per Melbourne, Australia.

Chris Langton
Il lavoro di Chris Langton sta sostanzialmente nel 'gonfiare' o rimpicciolire le cose. Le sue opere più note sono sculture gonfiabili di animali indigeni, un esplicito commento sul collasso dei principali simboli nazionali. Per esempio, in Souvenir (1994), Langton dilata e moltiplica un canguro; in un'altra versione, il branco si erge in atto di sfida, quasi minaccioso. In Performance #2 (1992), un koala sintetico appare prima floscio, agonizzante, e poco dopo perfettamente gonfio, allegramente seduto a cavalcioni di un ramo.
In Untitled (1998), due indistinte masse irsute giacciono a terra e appese al muro. In astratto, sembrano evocare quasi tutti i mammiferi australiani: le forme si alzano e abbassano con dolcezza, al ritmo del respiro, grazie ai tubicini di due macchinari chirurgici che li mantengono in vita. Questo generico simbolo nazionale non gode evidentemente di buona salute.
I principali media descrivono questo lavoro come tenero, carino, divertente, mentre i critici d'arte lo etichettano costantemente come meta-kitsch. L'interpretazione dell'opera resta intrappolata tra due poli, dato che la si legge come parodica o ironica. Di conseguenza, se è una cosa, allora è anche l'altra. Quello di Langton sembra un caso lampante dell'ironia paradigmatica dell'arte contemporanea.
E' stato un commento di Warhol sulla cultura di massa che ha spinto Fredric Jameson a definire il carattere della cultura contemporanea come 'un'ironia vacua'5' Per Jameson, ciò segnala una mancanza di attaccamento alla verità e alle certezze, il fallimento delle grandi narrazioni legittimanti. La tesi di Jameson ci è familiare: la morte dell'individualismo, l'ascesa della varietà ed eterogeneità stilistica, l'esperienza frammentaria di forme culturali e così via. L'ironia impedisce ogni rappresentazione univoca e, in special modo, ogni narrazione lineare; al contrario, introduce una duplicità di senso che mette in crisi le apparenze.
Ma in Langton l'ironia è così remota, così tenue. Ecco come descrive il proprio metodo: 'Prendo un souvenir qualsiasi in plastica gonfiabile, paccottiglia fabbricata in Cina o in qualunque altro posto, e lo ingrandisco fino a renderlo davvero ironico' Lo disegno, ritaglio i contorni, coloro tutti i pezzi ancora sgonfi con una bomboletta spray e uso degli stencil per occhi e bocca. Poi incollo tutto insieme. Li gonfio solo alla fine.... Cerco di farli più fedeli possibile all'originale, il che mi salva dal prendere decisioni estetiche'.

Perché si pensa che un mutamento di scala induca ironia' L'ironia è forse inerente a ogni riproduzione' E se il lavoro, di fatto, non è per niente ironico' L'opera di Langton sfiora la soglia dell'ironia dove il gesto è così sottile, la distinzione così oscura, l'intervento così minimo da poter diventare una specie di realismo di terzo grado, in linea con la definizione di Roland Barthes che consiste 'non nel copiare il reale, ma nel copiare una copia (riprodotta)': un'identica relazione tra codici.
Se l'opera di Langton non è ironica, forse ci troviamo di fronte allo stesso genere di realismo, che riproduce in toto il souvenir originale; pensarla come un disegno ci aiuta a evidenziare l'assenza d'ironia, dato che l'intera operazione si fonda sulla pura mimesi. E' un'esatta riproduzione non solo dell'oggetto gonfiabile di partenza, ma anche del suo contesto. Ciò risulta evidente nell'attenzione di Langton per gli standard commerciali della produzione di massa, come la mediocre regolazione del colore e l'eccentricità di alcune forme malriuscite. Potete persino scegliere il vostro colore preferito per il koala, in base ai vinili industriali disponibili. Questa non è una versione objet d'art della cultura Pop, come ci ha insegnato Jeff Koons: è un'attenta descrizione del processo produttivo di souvenir o giocattoli.
In ogni caso, abbiamo raggiunto un livello in cui 'ironia' non è più un termine sufficiente. L'opera di Langton assomiglia di più a un esercizio di disegno accademico, che tratteggia la grande complessità della produzione culturale internazionale con le sue divisioni del lavoro, economie di scala e strategie di marketing. Forse non ha alcuna attinenza con la simulazione, ponendosi piuttosto come palese registrazione della riproduzione commerciale ' una questione completamente diversa.
E' questo collasso dell'ironia che ci rivela qualcosa di più complesso: un'ambiguità che non oscilla come farebbe l'ironia, ma consente di percepire tutto complessivamente. E non è necessariamente divertente, critico o intelligente, è semplicemente vero.

Callum Morton
Una volta Callum Morton mi ha detto 'ma tutto è ironico, vero''. Il suo lavoro gioca sull'ambiguità delle apparenze. Morton è una specie di modellista: la sua ultima serie è composta da repliche di tendoni commerciali, più piccole del vero, ma perfettamente corrispondenti all'architettura delle vie di Melbourne. La forma e i caratteri delle parziali iscrizioni riportate sul fronte promettono veri affari.
Ma i tendoni di Morton sembrano un'astrazione più pura, un distillato dell'originale. Probabilmente a causa della forma piana, persino unitaria (o minimal). E' come se un esperimento in trasformazione materiale (o morphing) tra negozio e galleria fosse finito male, generando una forma mutante o transizionale. L'oggetto finale è evidentemente intrappolato tra due condizioni materiali: una tetra utilità quotidiana e una sorta di trascendenza platonica.
La stessa ambiguità caratterizza buona parte del lavoro di Morton. Molte opere (Belvedere, 1995; Bellvue, 1998; The Heights, 1995) riproducono la forma di facciate e balconi dell'edilizia residenziale anni Cinquanta, sempre lievemente ridotti. Cul de Sac (1994) era un finto muro in mattoni innalzato in una galleria di Melbourne all'interno della vetrata sulla strada.
L'esatta riproduzione in scala di questi lavori è fondamentale. Sono abbastanza grandi da farci pensare che siano oggetti ed edifici reali, ma anche abbastanza ridotti da farci pensare il contrario. Il muro, i balconi, il tendone oscillano tutti sulla soglia della scala, che rende le cose reali o no, oggetti o modelli.
Alterando le proporzioni, l'opera di Morton costruisce un intero mondo parallelo, appena più piccolo del nostro. Ma chi abita in questa realtà altra, chi ne occupa gli spazi' In altre parole, cosa c'è nella scatola? I dettagli complessi e volgari della vita traboccano attraverso le crepe nell'estetica; semplicemente, non li si può fermare. La divisione tra interno ed esterno nell'opera di Morton - questa piccola breccia ' è un varco perfetto per la contaminazione. E' proprio questa la questione urgente, talvolta sordida che cola macchiando le forme immacolate e idealizzate della scultura di Morton.
In Cellar (1997) è un mostruoso, malvagio demonio ad essere rinchiuso nella scatola. Appena ci avviciniamo, le porte della segreta si scuotono e la luce all'interno diventa verde. Questo mostro è una metafora per molte delle idee aberranti contenute nelle più basilari forme scultoree.
Le tende tirate nel modello della Farnsworth House creato da Morton (International Style, 1999) nascondono un party in pieno svolgimento, che viene interrotto da spari e urla, condannando questo tempio del design utopico e modernista a una brutta fine in stile cinematografico.
In Now and Then (1997), tre porte scorrevoli in vetro oscurate da tende a pacchetto occupano la galleria. I riferimenti all'estetica modernista sono palesi: vetrate a griglia, strisce verticali, nicchie illuminate. Ma i suoni che escono dalla porta sono quelli di una canzonetta pop, di una coppia che fa sesso e di un cane che abbaia, riconducendo le qualità trascendenti dell'opera alla grigia realtà della vita condominiale.Accademia (1998) è una ricostruzione del garage di periferia in cui la rock band AC/DC faceva le prove all'inizio della propria carriera. Assomiglia a un qualsiasi altro garage dell'epoca, ma da dietro una serie di porte verdi giungono i successi della band provati e riprovati da un musicista locale di Melbourne. Per Bawdy Nights (Notti a luci rosse, 1999) Morton ha realizzato un modello in scala della casa che si pensa appartenesse al Capitano James Cook. Il cottage venne inviato a Melbourne dal governo inglese come dono e ricostruito in un parco cittadino per celebrare la 'scoperta' europea dell'Australia da parte di Cook nel 1788. All'interno, si sente lo schiocco di una frusta, mentre Cook geme di piacere per quello che sembra un amplesso sadomasochista. Ci fa pensare alla relazione padrone-schiavo su cui si è fondata l'Australia, poi rimasta come eredità coloniale.
Queste opere sottolineano la divisione tra arte e vita, tra modello e mondo reale, che in molte risulta chiara come la differenza tra esterno e interno. Si potrebbe dire che sono parodie delle nobili intenzioni di arte e design, attuate tramite il confronto con situazioni banali. Ma anche questo è un luogo comune: cosa c'è di ironico' Il disegno a muro Now and Then (1997) pone una di fronte all'altra le pubblicità a tutta pagina di due riviste diverse: una d'arte, una femminile. Stili e contenuto cozzano, a questo siamo abituati: superiamo gap come questi in continuazione. Non è necessario che la differenza venga risolta. E' quello che proviamo ogni giorno nel panorama mediale, la normale texture della vita quotidiana.

Louise Weaver
L'espressione inglese, 'to keep up appearances' [salvare le apparenze, anche se il verbo to keep up suggerisce l'idea del tenere in piedi, N.d.T.] significa che, indipendentemente da quello che succede, devi continuare a sorridere. Ma cosa è necessario per farlo' Letteralmente, che dose di forza è richiesta per mantenere al suo posto una rappresentazione' Cosa tiene insieme forma e contenuto'
Un'opera recente di Louise Weaver, Blaze (1999), presenta tre rami ricoperti in tessuto lavorato all'uncinetto, mentre un abito di sartoria rosso fuoco aderisce al tronco come un guanto. L'opera suscita un'intensa sensazione fisica: un senso di lieve costrizione o pressione, come quello di una benda troppo stretta o di un vestito troppo aderente, una superficie tesa a forza su un'altra.
La scelta dell'uncinetto è stata giudicata femminista, in quanto tributo alla maestria artigianale delle donne. Tuttavia, il crochet è anche uno strumento che pone il corpo umano a stretto contatto con i materiali. Le occupazioni popolari ci fanno immaginare le nostre mani al lavoro. La principale misura di abilità manuale è il 'tocco': quello di Weaver è molto leggero, agile e sensuale, come evidenzia la tensione superficiale o frizione tra materiali diversi.
Weaver espone i rami insieme ad altri elementi: serigrafie e ricalchi su borse in stoffa cucite (che lei chiama 'veli per dipinti'); ceramiche dipinte a mano; fotografie ricamate e 'copertine' a maglia per un'ampia serie di forme, tra cui corna, collane, rami e lampadine.
Al di là del significato specifico di ogni singolo pezzo o disposizione, i vari elementi producono un'interazione tra effetti di superficie ' vale a dire che le superfici possono scambiarsi, riaffiorare in un supporto diverso, o proiettarsi le une sulle altre. In genere, nell'aspetto (l'apparenza) di una cosa, le distinzioni tra media sono irrilevanti; dopo tutto, l'immagine è un fenomeno, un effetto di superficie, e la scelta della fotografia, del ricamo o della serigrafia è arbitraria. Invece l'immagine è mescolata, ibridata, scomposta e ricucita attraverso ogni genere di medium. Il processo di Weaver è descritto nel titolo di un'opera del 1995: 'Sto trasformando un corno in un ramo di corallo ricoprendone l'intera superficie con l'uncinetto'.
Raramente c'è una forza all'opera per salvare queste apparenze: gli oggetti scivolano facilmente dai mucchi, le coperte cadono, i fili si disfanno' Tra materiali e superfici differenti c'è una frizione appena sufficiente a mantenere le cose al loro posto. Forse questa è la dose di forza necessaria per conservare i materiali in un ordine fluttuante e sensibile come quello dell'immagine, per salvare le apparenze. O al contrario, quella che serve per riordinarli.
In una recente installazione, una barca in legno giace in una pozzanghera, piegata su un fianco e circondata da una strana collezione di oggetti. L'albero maestro è un vero albero, interamente ricoperto di fili di cotone e perline di vetro, ci sono uno scoiattolo con una nuova pelle rosso fiammante e un pappagallo ornato di lustrini e specchi, i fiori germogliano dai rami rivestiti in tessuto all'uncinetto e in una teca è appesa una rete organica in cristalli di neve in vetro e fili di seta, come una mantella da haute couture. E' come se il ritrarsi della marea avesse lasciato il mondo trasformato, o piuttosto confuso: le caratteristiche e le apparenze di una cosa scambiate con quelle di un'altra.
Questa scena appartiene a una lunga tradizione di immagini apocalittiche in cui il mondo che conosciamo si stacca dalla sua forma convenzionale per adattarsi a un'altra, mostruosa o indeterminata, la stessa che genera figure fantastiche come centauri e cavalli alati. La composizione di Weaver è disseminata di segnali che paiono evocare la fine del mondo, o l'inizio di uno nuovo. Attraverso i resti sparsi ovunque, percepiamo una misteriosa calamità, un evento che ha fuso insieme naturale e sintetico, decorativo e pratico, creazione e invenzione. E non è affatto una catastrofe, ma un'opportunità per ampliare la nostra visione del mondo, per ragionare sui modi in cui potremmo guardarlo con occhi diversi, meravigliosamente, in futuro.

Kate Beynon
E' un luogo comune che leggere qualcosa equivalga a scoprire cosa significa, che bisogna chiedersi 'Cosa dice qui'' prima di 'Cosa vuol dire''. Per l'opera di Kate Beynon è vero il contrario: non tanto perché 'vuol dire' qualcosa, ma perché si pone al di là del concetto di lettura.
Beynon è nota soprattutto per le sue opere in bastoncini di ciniglia attorcigliati a comporre dei testi: ricette, storie, mitologie, racconti morali. Tutti sono legati all'esperienza dell'emigrazione dei suoi nonni e genitori cinesi e alla stessa identità culturale ibrida dell'artista in Australia, dove è giunta da Hong Kong quando aveva quattro anni.
Poem from Grandfather's Scroll (1996) è un tributo alla calligrafia di suo nonno, che Beynon ricopia usando bastoncini piegati in forme e motivi diversi. La ciniglia è opaca come i pigmenti usati per la scrittura e le estremità soffici dei bastoncini ricordano l'inchiostro che filtra attraverso le fibre della pergamena.
In Alien Conversation (Conversazione straniera, 1997) Beynon estrapola alcuni testi da un manuale di conversazione cinese per turisti anglosassoni. Separate dal contesto, le frasi selezionate rivelano l'isolamento degli emigranti ('Da dove vieni'', 'Vivi qui'', 'Noi siamo australiani'), riunite insieme, suonano come l'interrogazione di una cultura straniera o aliena.
Analogamente, l'uso di altri testi ' di un'antica parabola, così come di una vecchia ricetta di famiglia ' enfatizza l'alterità della cultura cinese: nonostante le sue origini familiari, Beynon ha con essa una relazione ampiamente mediata dai libri, che oltretutto, fino a poco tempo fa, non riusciva neppure a leggere in cinese. Ciò spiega l'aria stranamente meccanica di alcuni lavori, in cui la grafia dei testi è stata rispettata in tutto e per tutto: per esempio, in Old Story (1995), Beynon ha ricopiato un'intera pagina anziché ripeterne semplicemente le parole.
Chi legge il cinese, talvolta incontra nei lavori di Beynon dei caratteri illeggibili, mentre chi non legge il cinese ha spesso una reazione ostile, perché si aspetta che la lingua principe sia l'inglese. Il fatto che l'opera risulti illeggibile per entrambi sembra suggerire che, forse, non va 'letta' affatto.
Se si ricopia un'intera pagina o sezione, l'opera è pittorica, non testuale. è la stessa differenza che passa tra scrittura e disegno. L'ottica di Beynon è calligrafica: la calligrafia trascende una parola o una frase attraverso la sua forma scritta o dipinta, l'estetica sopraffà l'iscrizione pur di rendere 'bella' la scrittura.
I primi linguaggi erano pittografici, cioè combinazioni di scrittura e immagini. La lingua che Beynon impiega per animare il proprio lavoro ha il medesimo potenziale, esplicitato dall'illeggibilità dei testi di alcune opere: in quei casi, le proprietà formali del linguaggio sovrastano il significato letterale. Il che suggerisce un nuovo uso delle convenzionali forme di linguaggio basate sui segni. Beynon vuole creare 'una lingua straniera del tutto nuova', una scrittura elegante e bizzarra che simboleggi l'alienazione delle culture minoritarie, un linguaggio che nessuno può leggere.

A Constructed World & DAMP
Geoff Lowe mi ha raccontato una storia sulla nascita della sua prima figlia. Il dottore gli fece vedere un'immagine ecografica della bambina, puntando il dito su un'ombra scura. Geoff non riuscì a vedere nulla, così decise di conservare l'ecografia per tornare a studiarla. Quindici anni dopo, non riesce ancora a vederci nulla.
A volte riponiamo la nostra fiducia nelle rappresentazioni. Accettiamo, semplicemente, che quell'ombra scura sia una bambina. Possiamo anche riconoscere l'immagine, ma il consenso o l'accordo non sorge immediatamente: punti di vista diversi e aspettative diverse producono interpretazioni diverse.
Il lavoro di Geoff Lowe come artista, e più recentemente la sua collaborazione con Jacqueline Riva sotto il nome di A Constructed World (Un mondo costruito), si fonda sulla complessità o l'impossibilità di ottenere consenso. Come dice lui stesso: 'è altrettanto difficile fare in modo che le cose non funzionino insieme, che farle andare del tutto lisce'. Le regolari collaborazioni di ACW con altri gruppi o artisti mirano ad alimentare una discussione sui segni e i simboli che possono rappresentare il credo di una comunità. Lavorando con giovani homeless di Melbourne, ACW ha realizzato degli assemblaggi che raggruppano molti simboli essenziali per ognuno dei partecipanti. Nel processo si sono inseriti anche una serie di giochi di ruolo in cui i ragazzi hanno interpretato quello che vorrebbero fare. Il risultato è una composizione semplicissima, a un livello di figurazione elementare, senza alcuna disposizione o narrazione formale. La congruenza è data dall'importanza di questi simboli per il gruppo.
In un altro lavoro condotto insieme a un gruppo di dilettanti, Contact Boundaries (Confini a contatto, 1992), ognuno ha dipinto, all'interno di un contorno comune, un'area di colore diverso, per esprimere l'idea d'interazione propria di una democrazia. Il risultato non è tanto un'immagine, quanto una registrazione diretta o una documentazione della discussione avvenuta.
L'interazione con persone diverse non è un tentativo di risolvere o delimitare un problema: l'opera rimane aperta, fluida e ampiamente destrutturata. E' semplicemente una zona di riflessione in cui punti di vista e interpretazioni si fondono: dipinti, video, performance, installazione.
Dalla metà degli anni Novanta, Geoff Lowe e Jacqui Riva pubblicano la rivista Artfan, che accoglie una serie di recensioni di mostre scritte da persone slegate dal mondo dell'arte. Ancora una volta, il fine è quello di ampliare il cerchio della discussione, fare in modo che il pubblico possa prendere la parola.
Come editor, Lowe dice che il proprio ruolo è 'riunire le cose'. Il suo lavoro tende a includere tutto e tutti; in ultima analisi, a fondere le vedute degli spettatori con quelle dell'artista. Confrontarsi con dei dilettanti è un modo per cancellare questa distinzione. Una delle collaborazioni di ACW è stata con un gruppo di undici diplomati dell'accademia di belle arti DAMP: in una performance del 1998, questo gruppo ha fatto indossare a tutti suoi membri e a 200 persone del pubblico la stessa T-shirt rossa con la scritta DAMP Audience [gioco di parole introducibile: audience significa pubblico, DAMP, che è anche la sigla dell'accademia, bagnato. N.d.T.]. A un certo punto, alcuni ragazzi hanno iniziato a intonare una versione piuttosto approssimativa della canzone di Yoko Ono 'We're all water from different rivers' (Siamo tutti acqua di fiumi diversi), mentre altri distribuivano dei fogli con le parole. Il pubblico ha iniziato a canticchiare, la distinzione tra artisti e spettatori si è dissolta in una sonora fraternità.
Il contributo DAMP all'evento internazionale Construction in Process (realizzato a Melbourne nel 1997) consisteva in una serie di visite agli artisti impegnati in diversi punti della città, durante le quali venivano offerti tè e panini. Era una specie di tenero incoraggiamento, a fronte delle numerose difficoltà pratiche che gli artisti si trovavano ad affrontare nel progetto. In un altro lavoro, tutti i membri del gruppo si sono vestiti da cheer leader ed esibiti davanti alle opere, agitando pom-pom e urlando il proprio sostegno.
Questi atti di generosità effettuati dalla parte del pubblico sostituiscono la convenzionale opera d'arte. Alla luce dell'estetica relazionale, credo che nessuno sia sorpreso dal fatto che gli artisti preferiscano il ruolo di 'spettatore attivo'. in questo modo, assicurano la rilevanza e l'impatto sociale del proprio lavoro. Ma quest'identificazione con il pubblico non oblitera il loro ruolo artistico: trasforma semplicemente la ricerca del consenso in forma d'arte.

Fiona Foley
Nel 1998, Fiona Foley ha contestato pubblicamente Jenny Holzer. Tutto è nato da una mostra in cui Holzer ha esposto delle ossa umane acquistate al mercato nero: isolate dal loro contesto originario, queste ossa servivano all'artista per rappresentare le atrocità compiute in Bosnia. Come molti altri attivisti, Foley si è battuta con energia affinché resti e manufatti aborigeni possano ritornare in loco dalle collezioni di musei locali e internazionali, e perché questi reperti di 'storia naturale' vengano riscritti con i giusti nomi e le loro storie specifiche. Invece, Holzer sembrava operare come un archivio, imponendo una storia su un'altra.
Ma Foley ha insistito. E' una discendente del popolo Badtjala della Fraser Island, al largo della costa orientale australiana. Non le rimangono che pochi resti con cui ricostruire la propria cultura: i mucchi di conchiglie sull'isola che segnano i luoghi cerimoniali del passato, e gli scheletri di donne e uomini Badtjala conservati nelle raccolte antropologiche. I secondi sono decisamente più abbondanti. Foley parte da queste ossa. Il suo lavoro è un modello per il recupero di una civiltà perduta, la trasformazione di rari artefatti materiali in motivi artistici più elaborati.