La Generazione delle Immagini


6 - 1999/00 - Atmosfere metropolitane


Peter Nagy



In momenti e luoghi diversi, la fotografia è stata il terreno di un dibattito che coinvolge estetica ed economia, significati e valori. Oggi l'India sembra vivere uno di quei momenti.
Lentamente, l'India urbana va ricoprendosi del manto fotografico comune ad altre parti del mondo, frenato per anni dai bassi costi delle immagini dipinte a mano. Mentre gli artisti iniziano ad accostarsi alla fotografia come ulteriore strumento da usare per il proprio lavoro, il mercato elitario dell'arte rimane scettico nei confronti del suo reale valore.
Per capire perché queste correnti di pensiero e forze di mercato si stiano muovendo attorno alla fotografia, è utile esaminare la storia specifica di questo medium in India. Per me, un aiuto importante alla comprensione del ruolo della fotografia nella società indiana è venuto dalla scoperta di un libro, Camera Indica: The Social Life of Indian Photographs (Vita sociale della fotografia indiana, Reaktion Books, 1997) di Christopher Pinney, un ricercatore londinese di antropologia sociale.
Volendo riassumere in poche parole un lavoro che è ad ampio raggio, acuto e ricchissimo nell'approccio a fonti disparate, si può dire semplicemente che Camera Indica è diviso in due parti. La prima riguarda l'introduzione britannica della fotografia nel paese e la sua applicazione come strumento di documentazione dei sudditi imperiali, in base a quelli che, tra la metà e la fine dell'Ottocento, sono schematici protocolli scientifici. Pinney esamina l'accettazione pressoché immediata della fotografia da parte dell'aristocrazia indiana e descrive come sia i fotografi indiani, sia i loro soggetti scelgano di impiegare questa nuova tecnologia creativamente, anziché in modo normativo. In particolare, studia l'istituzione della 'fotografia dipinta', particolarmente significativa perché latrice di una sovversione semiotica ben diversa da ciò che all'epoca avviene in Europa o in America.
La seconda metà di Camera Indica illustra una ricerca condotta nella città di Nagda, nel Madhya Pradesh, dove Pinney ha trascorso molto tempo, entrando in contatto con varie persone e analizzando così il ruolo che le fotografie giocano nella loro vita. Pinney scopre un'affascinante varietà di materiali, in cui legge 'le tracce visive di dividui (anziché individui), persone che sono permeabili, composite, in parti divisibili e in parte trasmissibili'.
Per usare un'espressione che il teorico Kajri Jain ha coniato in un saggio sull'arte dei calendari, pubblicato sul Journal of Arts and Ideas, 'il vaso di Pandora del significato' è stato dischiuso.
Credo che, per meglio comprendere questo particolare momento del dibattito che circonda la fotografia in India, sia opportuno soffermarsi su un paio d'immagini pubblicate da Pinney una di fianco all'altra, a tutta pagina: due foto scattate dal Maharaja Sawai Ram Singh II di Jaipur intorno al 1870. Penso sia stato lo stesso Pinney ad accostarle, producendo un'unità dai significati stupefacentemente complessi. Quasi 125 anni dopo, questa coppia d'immagini ha acquistato (o semplicemente conservato') una potenza che potrebbe essere definita contemporanea in qualsiasi parte del mondo.
L'immagine di sinistra, il ritratto di un sadhu, sembra ispirata all'uso della fotografia come strumento di catalogazione etnografica da parte degli Inglesi (come, ad esempio, nell'ambizioso progetto intitolato The People of India, del 1868-75, una serie di otto volumi pubblicata in Gran Bretagna che documenta un'esauriente varietà di 'generici' soggetti indiani, classificati per località, professione, tipi razziali e religione). In questa foto, Ram Singh ribalta i presupposti dell'approccio scientifico utilizzando un fondale dipinto con un'architettura europea, del genere usato dai fotografi indiani dell'epoca per immortalare i propri soggetti. Questo sfondo pone il sadhu in uno spazio fondato su convenzioni in uso nella pittura europea fin dal Rinascimento, una scenografia occidentalizzata che neppure il tappeto Mughal su cui è seduto l'asceta sembra poter disturbare, visto che l'inclusione di tappeti orientali nei dipinti europei è una prassi consolidata da secoli. Ma allora perché Ram Singh avrebbe scelto questo sfondo, che denota chiaramente la cultura europea proprio per un sanyasi, un uomo che ha rinunciato persino alla contingenza della propria lingua? E poi perché usare uno sfondo, quando Rain Singh aveva certamente accesso a scenografie più ricche e contestualmente più appropriate all'interno del proprio palazzo? Perché decidere di ritrarre questo sadhu in un'area di spiazzante teatralità, negandogli i suoi spazi temporali e simbolici?
E' un volontario tentativo di Ram Singh di creare un'immagine ibrida, confusa, dal significato fluttuante, forse persino ironico' Le foto di Ram Singh sembrano legarsi a quelle scattate dal fotografo Irving Penn un'ottantina di anni dopo: come Singh, nelle serie dedicate ai guerrieri Masai o alle donne marocchine, Penn tratta l'Altro come oggetto puramente formale, ricco di dettagli antropologici, ma completamente svincolato dal contesto reale che permetterebbe di interpretarli. A un altro livello, il fenomeno dei coffee-table books sui sadhu pubblicati in India per il mercato turistico risale fino alla fotografia di Ram Singh.
L'altra immagine della coppia formata da Pinney è un autoritratto di Ram Singh, scattato con l'aiuto del fotografo inglese (nonché mentore fotografico del maharaja) T. Murray. E' un'immagine che è stata progettata, messa in scena e manipolata in modo da presentare il ricco e potente maharaja come un uomo semplice e pio. Pinney riconosce in essa il germe della fotografia di studio indiana sviluppatasi nel ventesimo secolo, e di molti lavori 'naïf' che ha scoperto a Nagda: 'In questa immagine, la fotografia non cerca di imporre una categoria identitaria derivata da una struttura preesistente, ma di porsi come spazio creativo nel quale evocare nuove identità e personalità potenziali'.
Volendo spingere ancora più in là le nostre proiezioni, potremmo dire che questo autoritratto di Ram Singh anticipa un approccio alla fotografia che conquisterà il palcoscenico della produzione artistica oltre un secolo dopo, a New York e dintorni, quando un gruppo di artisti costruiranno elaborati scenari e personalità per dimostrare che la macchina fotografica crede a qualsiasi cosa le venga detta. (Sto pensando soprattutto alle opere create da Cindy Sherman, Richard Prince, Sherrie Levine e molti altri, che continuano a esercitare un'influenza determinante sui giovani artisti di tutto il mondo). Il lavoro di questi fotografi newyorkesi è un chiaro rifiuto della cosiddetta obiettività scientifica ascritta alla fotografia.
Risalire alla coppia di foto di Ram Singh che Pinney ha riprodotto in Camera Indica, significa tornare a un fotografo che ' pur non essendo, forse, del tutto consapevole dei molteplici livelli di significato inscritti nelle proprie immagini ' era senz'altro conscio di alcune delle potenzialità in gioco. Per me, la dinamica più affascinante è quella che oppone il travestimento (il maharaja come sadhu) alla museologia (il sadhu come esemplare). Sappiamo che Ram Singh era un uomo molto devoto e che quindi un autoritratto che lo vede impegnato nel puja [l'atto di mostrare riverenza per una divinità hindu attraverso invocazioni, preghiere, canti e rituali, N.d.T.] non è una palese mistificazione. Ma allora perché scegliere di decontestualizzare il sadhu fino a questo punto, quando è senz'altro vero che Singh lo rispetta e cerca di emularlo' Si è spinti a ipotizzare che Ram Singh abbia concepito il ritratto del sadhu per accrescere la religiosità del proprio autoritratto. Altrimenti perché il maharaja figura in uno spazio tridimensionale, nell'atto di compiere un rito, mentre il sadhu non fa nulla (anche se nelle mani stringe un mala, che indica la meditazione) circondato da un nulla indefinito?
L'ironia finale implicita in questo abbinamento è che il sadhu, nella sua completa impenetrabilità e nel totale disinteresse che ostenta per la macchina fotografica e la propria collocazione, riesce a comunicare bene la sua reale condizione ' quella cioè di chi è interamente distaccato dal mondo materiale, immerso in una pratica di meditazione (e sicuramente il suo mantello, la maschera di cenere e il tilak di foglie stilizzate servono ad approfondire la distanza da tutto ciò che appartiene al mondo delle occupazioni quotidiane). Provate a confrontare questo ritratto di forza raccolta e serenità interiore con l'autoritratto di Ram Singh, che trasuda ansietà e consapevolezza dell'artificiosità della fotografia, capace di creare un alone di celebrità anche in assenza di cornice o contenuto. Una fotografia sembra sabotare l'altra e lo stesso fotografo viene sopraffatto dal soggetto e dal medium che ha scelto. Ah, è davvero il Vaso di Pandora del significato!
Un flash (quell'innaturale trasposizione di tempo e spazio divenutaci fin troppo familiare grazie al cinema), dall'India di 125 anni fa a quella del 2000: una serie di fotografi e artisti hanno seguito la strada di Ram Singh, esplorando i canoni delle sue immagini individuali e le complessità dell'abbinamento di Pinney. Possiamo tracciare un percorso ideale che ha inizio con una posizione molto diretta nei confronti di soggetti complessi, per giungere fino a un'arena a più dimensioni nella quale la fotografia è solo uno dei tanti attori: lungo il cammino incontreremo ciò che Pinney ha definito 'la complessa e mutevole ecologia della fotografia'.
Il lavoro di Dayanita Singh è un ottimo punto di partenza. Avendo studiato sia al National Institute of Design di Ahmedabad che all'International Centre of Photography di New York, Singh ha innestato un ibrido di graphic design e semiotica nelle proprie immagini, solidamente ancorate alla tradizione fotogiornalistica. Dopo anni trascorsi a scattare servizi per vari periodici (spesso stranieri), ha rivolto l'obiettivo sul proprio ambiente, decisa a registrare i mutamenti in corso nell'aristocrazia urbana indiana. I suoi Family Portraits (Ritratti di famiglia) di Delhi, Calcutta, Mumbai e Bangalore sono immagini cariche di un'ansia profonda quanto sottile, composizioni che si avviluppano in uno stato di agitazione febbrile, ritratti di persone che affogano negli oceani di significati che hanno costruito per sé. Le serie di Singh sui set cinematografici di Bollywood, sulla vita di un vecchio hijra di Delhi, su un ashram per ragazze a Varanasi, o sui malati di AIDS, sono, da un lato, testimonianze importanti di storie che hanno implicazioni di enorme portata per tutta l'India, e dall'altro fotografie classiche, della scuola di Cartier-Bresson e Raghu Ra. E' importante sottolineare che Singh rifiuta l'etichetta di 'artista' e professa un'esclusiva fedeltà alla fotografia, rifiutandosi di mescolarla o abbinarla ad altri media. Contenuto e immagini di natura postmoderna non sembrano necessitare di metodi postmoderni. La nostra idea di noi stessi si fonda sulle immagini con cui ci relazioniamo e in India, come ovunque, i media e le loro strategie di manipolazione sono diventati una componente importante nella creazione di nuove identità. Alcuni fotografi e artisti dell'ultimo decennio hanno scelto di usare la fotografia per analizzare soggetti sociali devianti o marginalizzati, in opposizione all'effetto omogeneizzante propinatoci dai mezzi di comunicazione di massa: con questo processo, sono riusciti a ritrarre se stessi.
Pamela Singh, una donna indiana che da giovane ha vissuto e lavorato in Europa, America e Africa, è tornata in India decisa a 'individuarsi' nell'immensità del sub-continente. Finora, il suo progetto più ambizioso è una catalogazione dei diversi ruoli svolti dalle donne indiane. Si può quasi avvertire il suo sospiro di sollievo nel rilevarne la molteplicità: dai piloti dell'aeronautica alle netturbine, dalle modelle d'alta moda alle attiviste ambientaliste, Singh presenta un ritratto collettivo che è al tempo stesso progressista, digressivo e trasgressivo.
Un'altra ricostruzione identitaria attuata tramite la fotografia è quella della serie Exiles di Sunil Gupta, iniziata nel 1987. Gupta ha raccolto un corpus di immagini di gay indiani che è sconcertantemente banale e pubblicamente accessibile. Come scrive l'artista in catalogo, 'la fotografia è un mezzo particolarmente adatto per questo lavoro, perché è intrinsecamente descrittiva e c'è una certa curiosità intorno agli omosessuali indiani. Io volevo dimostrare che hanno lo stesso aspetto di qualsiasi uomo 'normale': proprio ciò che sembra fare più paura al resto della società. La loro invisibilità è contemporaneamente una forza e una debolezza'. Molte immagini di questa serie includono i più celebri monumenti di Delhi, abbinando il 'nazionale' e l''ufficiale' con il cosiddetto 'degenerato' e 'ostracizzato'. Le immagini di Gupta sono una miscela particolarmente acuta tra personale e societario, sessuale e politico, confezionata in modo molto efficace.
Satish Sharma ha analizzato la propria (e nostra) condizione di elettore politico e consumatore d'immagini con la serie intitolata Deconstructing the Politician, (Decostruendo il politico, 1995). Qui il fotografo punta l'obiettivo sulla fotografia stessa e in particolare sul suo utilizzo nei poster elettorali dell'India urbana. Ispirandosi ai Nouveaux Realistes francesi e ai Situazionisti, Sharma legge dei significati nelle giustapposizioni e nei casuali danneggiamenti che subiscono le immagini. Vivere in una metropoli significa far parte di un corpus elettorale collettivo: l'alterazione e l'irrealtà proiettate sul tessuto cittadino dalle manovre politiche non possono quindi che ripercuotersi sui nostri spazi psicologici individuali. Dopo aver focalizzato la propria attenzione su questo tema, in opere recenti Satish Sharma ha esplorato più a fondo la relazione tra fotografia e architettura.
Nel corso dei suoi viaggi commerciali in giro per l'India, Samar Jodha ha documentato le diverse collocazioni del televisore nelle case, nei negozi e nei posti di lavoro: come la fotografia, la TV si è trasformata nel ricettore di un flusso ininterrotto d'immagini illimitate, prendendo il posto del focolare come centro della casa, sostituendosi al cantastorie itinerante e cancellando le tradizioni orali in tutto il paese. Le fotografie di Jodha sono un implicito commento ai tanti libri di fotografia patinati che presentano l'India come regno incontaminato del grande maharaja o del villico pittoresco. La sua opera rivendica visibilità per la maggioranza silenziosa e lavoratrice dell'India.
L'artista concettuale Ayisha Abraham, che usa la fotografia insieme a pittura e scultura, sia singolarmente, sia in installazioni, lo scorso anno ha allestito una propria retrospettiva nella città natale di Bangalore. L'impulso alla realizzazione di questa mostra anticonvenzionale è venuto dal fatto che la casa di sua nonna, un delizioso esempio di architettura vernacolare dei primi del Novecento, era destinata alla demolizione. Abraham ha colto l'occasione per esporre alcuni lavori dell'ultimo decennio in vari punti dell'involucro ormai vuoto dell'edificio. Ha così riconosciuto il potenziale di questa vecchia struttura come supporto per le sue opere fotografiche, dato che, tra le più recenti, molte impiegano vecchie foto assemblate, incorniciate e reinvestite di un nuovo significato dettato dall'artista.
Passando da una stanza all'altra, sorgevano spontanei i paralleli tra cornici e finestre, porte e immagini, tra il movimento fisico attraverso gli spazi e lo spiazzamento temporale consentito dalla fotografia; le presenze spettrali dei soggetti fotografati sembravano evocare le memorie di cui era intrisa la casa. Ends and Beginnings (Fini e inizi, come Abraham ha intitolato la mostra) è, come Exiles di Sunil Cupta, una sentita risposta personale a problemi collettivi ' in questo caso, la rampante speculazione edilizia e lo sviluppo urbano ' e un esempio importante del bisogno degli artisti indiani di proporre le proprie opere al di fuori delle abituali sedi espositive, per raggiungere un pubblico più vasto e affrontare ordini più ampi di discorso.
Il collage è senza dubbio una delle maggiori invenzioni moderniste, la cui concezione e costante rilevanza sono strettamente legate alla fotografia. Ma la tecnica del 'taglia e incolla' è a tal punto entrata a far parte della nostra cultura, da diventare un terreno estremamente rischioso su cui avventurarsi per gli artisti contemporanei. Se è l'intera vita a sembrare una specie di collage, come può l'artista rappresentare creativamente quest'esperienza' Bose Krishnamachari ha messo a punto una strategia che gli permette di comprimere un'installazione multimediale in un dipinto. I suoi Amuseum Documents hanno per soggetto le vite e le opere di molti poeti contemporanei del Kerala e del Maharashtra. L'artista si è incontrato con loro, ne ha studiato le opere, raccolto i libri e i ricordi, per comporre un ritratto che s'ispira alla bacheca, al quaderno di appunti o al pavimento ingombro di ritagli di uno studio grafico. Krishnamachari dissemina su un fondo pittorico che combina griglia minimalista e pennellate espressioniste, ogni genere di medium bidimensionale: fotografie e dipinti, disegni, ritagli di giornale e riviste, acquerelli, fotocopie e persino, in alcuni casi, premi e diplomi. Il risultato è una serie di ritratti sorprendentemente vivaci, che rispecchiano la grande ricchezza di questi individui.
Un approccio ancor più erudito nei confronti del collage d'inizio secolo caratterizza il lavoro di Ram Rahman. Appassionato di fotografia e graphic design, Rahman si ispira alla grafica agit-prop della Rivoluzione Russa. Una parte consistente della sua produzione artistica si è sviluppata intorno agli obiettivi di SAHMAT, il collettivo politico di cui è membro insieme ad altri artisti e intellettuali. Il suo Jallanwala Bagh Poster, pubblicato da SAHMAT per commemorare il settantacinquesimo anniversario del tragico massacro, rivela un'inedita interpretazione della narrazione testuale, evidenziando la natura stratificata e confusa della cronaca di un qualsiasi evento storico. Dopo la distruzione del Babri Masjid, SAHMAT ha organizzato una mostra itinerante intitolata Hum Sab Ayodhya, per la quale Rahman ha concepito una serie di pannelli in off-set che illustrano la storia di tolleranza comunitaria e di profonda ibridazione della città attraverso le immagini della sua architettura e cultura. In quest'opera e nelle successive, Rahman sfrutta il potere e la diffusione del poster e del calendario, due forme che hanno definito lo spazio e il contenuto dell''immaginario collettivo' indiano, per citare nuovamente Kajri Jain. L'artista riesce così a creare, a bassissimo costo, opere critiche che hanno la grande forza di saper circolare tra persone lontane da ogni contesto istituzionale, insinuando il proprio messaggio politico ed estetico negli spazi rimasti vuoti tra le divinità induiste e gli eroi di Bollywood.
Nel suo celebre libro Sulla fotografia, Susan Sontag evidenzia il duplice effetto della fotografia sul mondo degli oggetti, quello cioè di 'convertire il mondo in un grande magazzino o in un museo senza pareti, in cui ogni soggetto è deprezzato ad articolo di consumo o promosso a campione di valutazione estetica'. Questa simultanea svalutazione a pura merce ed elevazione a oggetto d'arte, mi sembra il nucleo di molti temi che ruotano attorno all'attuale produzione artistica. E' necessario che gli sforzi dell'artista s'indirizzino sia verso l'economia di mercato dell'arte, sia verso l'economia politica dei segni, affrontando temi umanisti, su scala locale o globale, per sfuggire alla letale asfissia del formalismo modernista.
Un artista che ha cercato di seguire questa strada è Vivan Sundaram, impegnatosi in una battaglia pubblica che verte sulle 'valute' attualmente a disposizione degli artisti e sulla loro presunta conformità al contesto indiano. La lotta di Sundaram con il contenuto e la forma delle sue grandi composizioni polimateriche ne è divenuta la sigla. Per quanto riguarda la fotografia, ad essere rivelatrice è un'opera del 1997 intitolata Great Indian Bazaar, ma nota come 'Il mucchio di fotografie'. Great Indian Bazaar s'ispira a un mercato delle pulci all'aperto nei pressi del Red Fort, a Old Delhi, un ammasso confuso di tutto l'immaginabile esposto su teli colorati che, nell'ambizione di attrarre l'attenzione, comunicano invece un tangibile squallore. E' un mondo di oggetti che rispecchiano la dura realtà della popolazione più emarginata dell'India urbana, che noi tutti siamo bravissimi a fingere invisibile. Questi oggetti vengono offerti con un ultimo impeto di commercializzazione, il disperato tentativo di vedere se rimanga ancora un briciolo di valore di scambio in un vecchio spazzolino o in una pila usata. Ed ecco che arriva Sundaram, l'artista, che in virtù del semplice atto di fotografarli è capace di farli balzare al polo opposto dello spettro commerciale, quello del rarefatto oggetto d'arte, il mondo delle gallerie, dei musei e dei ricchi collezionisti. Siamo stati inghiottiti dal nostro Vaso di Pandora.
'Il mucchio di fotografie' è un'opera acuta da tanti punti di vista. Formalmente, è ricca di riferimenti agli sviluppi della scultura nell'ultimo quarantennio (ad esempio, le opere di Robert Smithson, Carl Andre, Tony Cragg, Haim Steinbach, Felix Gonzalez-Torres e altri). Attraverso le proprie immagini, il migliaio di fotografie che compongono un campionario pressoché completo del mondo inanimato, il 'Mucchio' è un'ovvia citazione del readymade di Duchamp, come di tutte le sue applicazioni successive. Grazie al veicolo elegantemente semplice dell'istantanea a colori, chiusa in una cornicetta dozzinale da cinque rupie, Sundaram s'inserisce in un discorso internazionale, pur toccando temi che appartengono specificamente a una dialettica indiana e terzomondista.
Come non plus ultra, possiamo citare il lavoro di Sheba Chhachhi, un'artista che ha iniziato la sua carriera come fotografa e che, pur non abbandonando mai questo medium, ne ha esteso la portata attraverso installazioni di scala quasi architettonica. Chhachhi ha fuso la propria identità, il proprio credo politico e la propria estetica in tableaux sempre più complessi, che accolgono forme di produzione ad alta e bassa tecnologia. Ad esempio, nell'installazione Wild Mother II The Mirror is the Witness (Madre selvaggia II. Lo specchio è il testimone, 1994), le immagini senza corpo di donne sadhu e attiviste femministe ' foto della stessa artista ' sono rese permeabili dalla stampa su una pellicola trasparente. Queste immagini si sovrappongono e compenetrano sopra ad alte pile di carbone grezzo, che fungono da piedistallo per un'ampia gamma d'immagini tratte dalla tradizione folklorica e tribale.
Altre opere di Chhachhi abbinano la fotografia alla scultura in terracotta, abbracciando millenni di produzione culturale. Nata dalla partecipazione, lo scorso anno, al terzo Khoj Workshop, Itbair Khan ke Haat s'ispira alle realtà economiche degli abitanti della città di Modinagar (dove si svolge il laboratorio), uno sforzo facilitato dall'adozione dell'ibrido foto+installazione.

Questo è solo un rapido tentativo di accennare alla grande varietà di opere realizzate oggi in India tramite la fotografia o in relazione a essa. Artisti come Rummana Hussain, Ranbir Kaleka, Sudarshan Shetty, Pushmapala N., Rajeev Lochan, Monali Meher, Ashim Ghose, Jitish Kallat, e molti altri (non solo dell'ultima generazione) hanno introdotto materiali fotografici nella loro produzione, ampliando sia l'arco dei propri riferimenti, sia quello del dibattito sulla fotografia. Usando Camera Indica di Pinney e le fotografie del Maharaja Sawai Ram Singh II come pietra di paragone, ho cercato di raccontare la secolare tradizione ' caratteristica del subcontintente indiano ' di una visione della fotografia profondamente anticonvenzionale. Rispetto al mondo occidentale, credo che in India si assista a un'integrazione più riuscita tra fotografia e altri media. Passata la breve ondata newyorkese anni Ottanta di sculture e installazioni basate sulla fotografia, mi sembra che buona parte degli artisti oggi calibri i propri progetti sull'estetica 'levigata' del film o della videoproiezione. Elaborate costruzioni scultoree, set e costumi sono accessibili allo spettatore solo attraverso un'immagine proiettata (come nel caso di artiste quali Pipilotti Rist, Sam Taylor-Wood e Shirin Neshat), oppure interamente distinti da ogni referente fotografico (per esempio, Matthew Barney opera una netta cesura tra i suoi film proiettati al cinema e le sculture esposte in galleria). In India, la sintesi tra fotografia e un numero crescente di media è risultata più agevole e, in ultima analisi, ha dato origine a opere dagli esiti più felici, in termini sia formali che concettuali. Tutto ciò, io credo, è il prodotto dell'atteggiamento che gli Indiani hanno storicamente nei confronti della fotografia, un mezzo che, come ha scritto Pinney, 'non è arido e predatorio, ma ci arricchisce, affermando le nostre possibilità interiori'.