La Generazione delle Immagini


6 - 1999/00 - Atmosfere metropolitane


Clare Manchester & Gilda Williams



Tutto ciò che resta del London Orphan Asylum, costruito nel 1825 nell'East End londinese, è un porticato a colonne neoclassico. Nel 1999, l'artista Martin Creed ha installato sul timpano un'opera pubblica in neon, una scritta dal tono straordinariamente minimale, semplice e rassicurante, che afferma: Everything Is Going to Be Alright (Andrà tutto bene).
London Orphan Asylum presenta un ritratto inaspettato di Londra, prendendo le distanze dai cliché più frusti del Brit Pop sensazionalista. Questa è un'immagine
più posata, riflessiva e diversificata della scena artistica londinese ' interdisciplinare e attivissima ', incentrata sull'area permanentemente 'transizionale' dell'East End.
La mostra rende omaggio all'intelligenza, la varietà e l'intensità dell'arte londinese, troppo spesso appiattita sullo stereotipo telegenico di un Pop caramelloso. I lavori esposti sono nati, letteralmente, 'fuori dal centro', nel quartiere dell'East End, e rappresentano il meglio della nuova arte prodotta ed esposta in quell'area.
In modi molto diversi, tutti gli artisti partecipanti lavorano a partire dai relitti del mondo ' i suoi margini ed avanzi, rimasti come orfani. A connotare l'atteggiamento di quest'altra faccia dell'arte londinese è proprio la relazione degli artisti con i materiali, che ruota attorno a due idee comuni: immaterialità e riciclo.
Martin Creed è celebre per le sue opere incorporee, prelevate dalla quotidianità: un frammento di un foglio A4 appallottolato; piccoli cubi di scotch da tappezzieri, un fermaporta che impedisce all'uscio di aprirsi per più di 45°; una stanza colma di palloni;
palline di stucco adesivo blu premute contro il muro, con impressa l'impronta digitale. Creed è anche membro della band Owada, i cui testi minimalisti consistono nel contare da 1 a 100, o nel descrivere la struttura basilare della canzone: 'inizio-metà-fine'.
Opere più recenti hanno registrato una svolta, assumendo la forma di scritte al neon, come Everything Is Going to Be Alright. Il graduale svanire della luce del giorno e la crescente luminosità del testo con il sopraggiungere della notte, sono stati catturati in un video del fotografo Hugo Glendinning, insieme alle normali attività che si svolgono sulla strada antistante l'Asylum. La velocità è stata manipolata in modo che il crepuscolo si tramuti in buio in soli cinque minuti, così tutto quello che succede sembra uscito da un cartone animato, in cui macchine e persone vanno e vengono freneticamente. Invece la scritta, che all'inizio è quasi invisibile, diventa l'unica cosa che si distingue con chiarezza nell'oscurità, assumendo il ruolo di una presenza benefica che vigila sul quartiere. L'opera è piaciuta molto alla comunità locale, che ha chiesto venisse lasciata in situ permanentemente.

Il video di Mark Leckey, che ripercorre la ricca storia della club culture britannica, può essere letto come spaccato di vita urbana al termine del ventesimo secolo. Montato a partire da materiali d'archivio di fonti diverse, il video è un viaggio attraverso scene cittadine e scorci di club inglesi dagli anni Settanta a oggi. A colpirci è il graduale mutamento nell'enfasi dei movimenti di chi balla: negli anni Settanta sono i piedi a essere al centro dell'azione e del ritmo, mentre nei Novanta il fulcro del dinamismo corporeo sono diventate le mani. A rimanere costante è invece l'intensa concentrazione di molti ballerini che, soli con la loro musica, sembrano immersi in una realtà parallela assolutamente personale. Le canzoni fanno da sfondo al mutare del panorama sociale e visivo, che prende avvio dagli impulsi collettivi e spontanei della cultura underground e della club culture.

Anche il video di Jeremy Deller 1999-2000 (2000) è un assemblaggio di materiali raccolti col tempo. In un certo senso, si può dire che è 'fatto di niente'. Deller porta con sé la videocamera ogni giorno e questo lavoro distilla due anni di riprese non editate delle sue esperienze londinesi ' in visita agli amici, semplicemente in giro, impegnato nei normali obblighi o in nuovi progetti. La ricerca di Deller è eclettica e va dalla creazione di uno studio di registrazione digitale portatile ' usato in collaborazione con gruppi altrimenti esclusi dall' accesso a questo tipo di tecnologia (work in progress, 1998) ' a History of the World (1997), un diagramma a gesso in cui 'fermento sociale' è collegato a 'isteria mediatica', 'accesso libero', e 'sound system'. 1999-2000 è ricco di immagini stranamente affascinanti, che ci colpiscono e attestano la varietà e la ricchezza della Londra contemporanea.

Il video di Tomoko Takahashi è l'unica traccia di una performance collettiva di pazienza, una maratona pubblica lunga un giorno, cui hanno partecipato cinquanta giocatori di solitari, tenutasi nel quartiere orientale di Shoreditch. Takahashi realizza anche grandi installazioni utilizzando rifiuti e oggetti trovati sul posto, utilizzando i resti di un mondo per costruirne uno nuovo, monumentale in scala e fastosamente popolato di presenze e disposizioni inaspettate. Spesso l'artista vive negli stessi spazi in cui crea l'opera, di modo che i resti della sua vita finiscono per essere incorporati nel lavoro.

L'idea di riutilizzare o riciclare elementi della propria esistenza per creare opere d'arte ritorna anche nelle sculture-autoritratti in spazzatura di Sue Webster e Tim Noble. La loro ricerca si sviluppa intorno al tema dell'identità, sia individuale che di coppia. Talvolta letteralmente, come quando Sue e Tim diventano Pantsy Kensit e Liam Gallagher sulla copertina di Vanity Fair. I due si sono ritratti anche come fidanzati Neanderthaliani e come montagna di rifiuti che, una volta illuminata, proietta sul muro l'ombra nettissima dei loro profili. Hanno celebrato la propria unione con luci e scritte al neon. Ogni opera diventa una reinvenzione di sé in forma diversa.

Le inedite forme di vita di Brian Griffiths nascono da materiali riciclati (sostanzialmente rifiuti). La scimmia tenera e amichevole Return of Enos (2000) allunga una mano verso lo spettatore, augurandogli il benvenuto. Non tutte le opere Griffiths sono altrettanto socievoli. Once upon a Star (1999) è una figura che indossa una strana tuta spaziale bitorzoluta, reduce da più di una brutta avventura; modellato in gommapiuma semi combusta, questo astronauta non comunica nulla: è privo di canali visibili che pongano in comunicazione l'interno e l'esterno della sua tuta ' non ha occhi e non emette alcun suono ' è stranamente muto, rinchiuso nel suo mondo. Forse è lui il pilota di un'altra scultura di Griffiths, Osaka (1997), una fila di pannelli di controllo che potrebbero essere la consolle di un'enorme nave spaziale o di una centrale elettrica, una serie sbalorditiva di bottoni, pulsanti e quadranti, realizzati interamente in materiali di scarto.

Le sculture di Matthew Franks Romeo e Easyshot (entrambe del 1999) sembrano provenire dallo stesso mondo dell'astronauta di Griffiths: hanno l'aria di esplosioni, di strani esemplari di crescite straordinarie. Intagliate in banale polistirolo, sono al tempo stesso monumentali e fragili, e ancor più accattivanti in virtù di tale contraddizione. Altri lavori - come Foooom! (2000), un nembo tempestoso che scarica tuoni e fulmini ' paiono citazioni dai fumetti: sono nuvole rigonfie in polistirolo, trapassate da bande aguzze gialle e grigie. Sweet Aphrodite (2000), tutta strane protuberanze e goccie opulente in colori pastello, potrebbe essere un gigantesco gelato o una bizzarra creatura.

Fragile come le sculture di Franks, la rete in fili d'oro di Pauline Daly è una barriera quasi invisibile. Intrecciata meticolosamente e appesa al muro, dal soffitto fino a terra, è al tempo stesso elegante, sofisticata e decorativa. E' un'opera che obbedisce e al tempo stesso contravviene alle norme del Minimalismo ' la sua struttura geometrica, anziché essere fabbricata su misura, utilizzando un solido materiale industriale, è stata laboriosamente prodotta dalla stessa artista a partire da materiali e processi tradizionalmente domestici e femminili. Ma come le opere minimaliste, rende lo spettatore immediatamente consapevole dello spazio tridimensionale che sta occupando.

Denise Webber ricicla materiali preesistenti: nel video Clay interviene sui celebri fotogrammi degli studi sulla locomozione umana di Edwaeard Muybridge per dare vita a quegli individui trasformati in clinici oggetti di studio. La sua analisi del tempo e del movimento anima i personaggi di Muybridge non solo perché li fa muovere, anziché lasciarli bloccati nei singoli istanti del moto, ma perché è attraverso la rapida successione dei fotogrammi che aspetti fino a qual momento impercettibili diventano evidenti. Da anonimi soggetti di un'analisi scientifica, le donne e gli uomini di queste fotografie vengono reinvestiti di una personalità. Il risultato del montaggio di Webber fa pensare ai primi film della storia del cinema: la stessa assenza di dialogo, le stesse immagini in bianco e nero, la medesima qualità a scatti, tremolante. Riportando in vita questi uomini e donne di fine Ottocento, l'artista rivela la loro vaga complicità nel progetto di Muybridge e il proprio stesso, ovvio voyeurismo.

Anche Dead Horse (1999) è un'opera basata sullo studio fotografico del soggetto, ma anziché esaminare un movimento complesso, si concentra su un instante singolo. L'artista e filmmaker Tim Macmillan ha messo a punto una macchina con più otturatori che hanno registrato da molteplici punti di vista, simultaneamente, un attimo sospeso tra vita e morte, quello in cui un proiettile entra nel capo di un cavallo. L'immagine risultante, in cui l'animale appare con gli zoccoli momentaneamente sollevati da terra per lo shock, è incredibilmente violenta e commovente. Lo sfondo è un mattatoio gelidamente immacolato, in cui risuona ancora lo scalpitio degli zoccoli sul pavimento. Il cavallo sembra in ottima salute, quasi florido, ed è difficile capire perché venga abbattuto. Allo stesso tempo, l'obiettivo è presente per inquadrare, registrare tutto come se fosse un esperimento scientifico ' un'inversione, in un certo senso, dell'operazione di Muybridge, uno studio del movimento della morte, anziché della vita.

I disegni a muro di Klega sono ottenuti facendo scorrere attorno a degli spilli il nastro estratto da una musicassetta, che nel frattempo continua a girare su un vecchio walkman. Ogni nastro traccia sulla parete una forma diversa: un cane, un razzo spaziale, un soldato con una bandiera. La musica che esce dal piccolo altoparlante ha una relazione precisa con quanto è rappresentato: l'immagine vibra ' la bandiera sventola, il cane scodinzola, l'astronauta avanza verso il suo razzo, o forse se ne allontana. Il profilo dei nastri produce immagini semplici, schematiche, ma i temi suggeriti dalla musica evocano alcune icone del ventesimo secolo: un'armata in marcia, ad esempio, o una navetta spaziale.

Il gruppo artistico Inventory presenta un 'readymade assistito' del reale contenuto di alcuni portafogli smarriti, chiamati a comporre biografie o ritratti involontari di persone sconosciute. Inventory si descrive come 'un'impresa collettiva' che cerca di esplorare le alternative alle limitazioni imposte a queste discipline, e di creare uno spazio interdisciplinare in cui operare'. Oltre alla produzione visiva, il gruppo pubblica anche un giornale sperimentale e sviluppa il progetto di ricerca Inventory Survey Project, che cerca di studiare diversi fenomeni legati alla quotidianità, così come specifici eventi e situazioni. 'Perdere, trovare e raccogliere' sono le tre parole che meglio riassumono la pratica di Inventory, e che forse riescono a descrivere molte opere presenti in questa mostra.

London Orphan Asylum è una camminata attraverso l'East End, le sue strade e gallerie, i suoi locali, per documentare i migliori esempi della nuova produzione artistica (ancora poco medializzata) di una città come Londra spesso rappresentata in modo erroneo, ma pur sempre, e a ragione, uno dei centri più vivaci dell'arte contemporanea.