Attraversare le contingenze allargando le prospettive

22/05/2013
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Errorismo Etcetera etc.

Dialogo serrato con i fondatori di Etcetera (Federico Zukerfeld e Loreto Soledad Garin Guzman). Oscillando tra errorismo e umorismo, arte e vita, conflitto e dis-educazione; ma anche chiamando le cose con il loro nome: quando si parla di arte come industria dello spettacolo, controproposta, museo e strada.
Il collettivo argentino Etcetera è il vincitore dell'edizione 2013 del Premio Internazionale di Arte Partecipativa dell’Emilia-Romagna.



Escrache, Buenos Aires 1998. Courtesy of Etcetera Archive




Escrache, Buenos Aires 1998. Courtesy of Etcetera Archive




Mierdazo (Poop attack), social performance Public intervention, Buenos Airess, 2002. Courtesy of Etcetera Archive (detail)




Mierdazo, Buenos Aires, 2002. Courtesy of Etcetera Archive




Etcetera, A Comer! Otra Realidad es possible




Etcetera… Etcetera... Centro Cultural Recoleta, Buenos Aires, 2008




Etcetera, Errorist Kabaret, Istabul Biennial, 2009




Etcetera, C.R.I.S.I., Bologna. Premio Internazionale di Arte Partecipativa




Etcetera, C.R.I.S.I., Bologna. Premio Internazionale di Arte Partecipativa




Etcetera, C.R.I.S.I., Bologna. Premio Internazionale di Arte Partecipativa




A cura di Katia Baraldi

Katia Baraldi: Vorrei iniziare dal contesto geografico e storico da cui provenite, cioè l’Argentina del default economico e sociale di fine anni '90, una situazione che vi ha portato - come cittadini in primis e come artisti poi - ad intervenire nel tessuto sociale creando un collettivo composto da 13 persone.
I primi interventi di etcetera sono stati gli Escraches, azioni performative di smascheramento, realizzate sulla strada nei confronti di chi si era macchiato di crimini durante la dittatura, un’azione di forte attivismo politico.

Loreto Soledad Garin Guzman:
All’epoca la nostra prima necessità era appartenere ad un movimento, ma siamo diventati collettivo perché era un modo semplice per definirci.
Negli anni '90 in Argentina sono nati molti collettivi, però la maggior parte di essi utilizzavano la forma collettiva come strategia di visibilità e di marketing.
In realtà non creavano un lavoro unico, rimanevano individui che facevano parte di gruppi con cui condividevano solo il nome: il lavoro rimaneva individuale e indipendente. Per noi invece la pratica artistica era completamente condivisa e conseguente alla vita stessa.

Katia: In Europa il vostro approccio artistico al tessuto sociale è osservato con molto interesse poichè in questo periodo si stanno realizzando progetti di arte pubblica e si sta diffondendo la volontà di andare in piazza come artista.
Pensate che questa attenzione nasca anche dall’esigenza di un confronto con chi come voi ha affrontato una crisi economica e sociale simile a quella che stiamo vivendo attualmente qui?

Loreto:
Dieci anni fa solo un piccolo gruppo di persone parlava di precariato, ora tutti i giovani europei descrivono sé stessi come precari.
Questo è il “trionfo” di una parola e di una situazione prima invisibile. C'è un piccolo “trionfo” anche dell’arte politica come aggettivo sociale.
Ma attenzione non significa che essa sia diventata il mainstream, ma semplicemente che è più vicina al centro dell’attenzione.

Federico Zuckerfeld: Lo scorso settembre abbiamo partecipato ad un Festival a Graz che si occupava di arti performative, teatro e altro; in quell’occasione praticamente si è utilizzato il festival come “audience testing” e ”trand testing”.
Una sorta di prova, per verificare cosa può andare di “moda” dell’arte, anche l’”art engagé” è stata presa in considerazione. Se ci sono tante persone a cui piace, l’industria dello spettacolo verificherà come poter ricreare e usare questa tendenza.
Ci sono tanti artisti a cui questo va benissimo perché il loro obiettivo è fare business.
Gli artisti che sono più sensibili ai temi sociali diventano quindi importanti perché possono fare una controproposta.
Quello che manca nel soggetto dell’arte visiva è la controproposta, ci sono tante proposte ma manca una controproposta culturale per il restante 99% (vedi slogan occupy)

Katia: Mi viene da definirvi “attivisti”, non leggo i vostri lavori solo come azioni che prendono una forma artistica. E questo mi porta a chiedervi se nel momento in cui partecipate a una biennale o esponete in una galleria non si vada in qualche modo a perdere il senso e il significato della proposta e della protesta.

Federico:
No al contrario, credo che sia più pericoloso se rimaniamo marginali, anche la nostra attuale riconoscibilità nel sistema arte è stata una conseguenza della nostra vita, poiché lo spazio intellettuale è uno spazio di potere che si conquista e che nel caso dell’arte ti concede visibilità e autorità.

Loreto: Per noi la scelta era la strada, era dire: noi apparteniamo alla sinistra radicale. Secondo noi è importante ritornare a parlare di questi temi oggi, perché non c’è abbastanza memoria nella società.
Quando abbiamo iniziato, negli anni '90, certi termini erano scomparsi dal linguaggio quotidiano, imporli è stato un modo per essere ideologicamente chiari. Eravamo anche molto giovani...
Ma non siamo artisti unicamente di strada, anche se questo è l’unico luogo - in questo momento - dove possiamo trovare persone che condividono il nostro pensiero.
Comunque non è vero che i luoghi dell’arte sono solo il museo o la galleria. I luoghi degli artisti sono tanti e diversi, abbiamo degli amici artisti che lavorano in ospedale per i malati di hiv.
Non c’è un solo luogo per l’arte, questa è una menzogna pericolosa.
Per noi ogni spazio è un'occasione, meglio se è uno spazio pubblico.

Katia: ...avete resistito al sistema, che nel periodo in cui avete iniziato non era molto ricettivo e disponibile ad accettare il vostro tipo di lavoro

Loreto:
Il sistema dell’arte, secondo noi è un sistema malato che crea un’industria dell’arte e della creatività, è come lavorare in una fabbrica.
E sappiamo che potrebbe arrivare il momento in cui capiremo che per noi continuare non è più possibile, e quindi è il caso di andare in un altro posto.
Non è che la vita sarà più triste non partecipando ad eventi importanti come biennali o grandi mostre, non è l’unica cosa che si possa fare come artista ...

Katia: Forse c'è la necessità di artisti più consapevoli o di tornare ad esserlo; una consapevolezza da cercare anche al di fuori del sistema dell’arte.

Loreto:
Abbiamo fatto la prima esposizione in un museo nel 1998, quando molti di noi erano poco più che ventenni, per noi c’è sempre stata una relazione con le istituzioni.
Non c’è mai stata una separazione tra interventi in piazza ed esposizioni, secondo me è molto pericoloso il fatto che oggi aleggi la moda dell’arte politica.
Questo è un momento storico in cui la maggior parte dell’umanità vive i problemi sociali che prima erano soprattutto della gente povera; ora anche molti filosofi e intellettuali che lavoravano in università o in progetti importanti vivono in situazioni precarie.
Ciò non significa certo che ci sarà una rivoluzione nel sistema dell’arte, ma questo cambiamento di situazione non è male, creerà un piccolo contropotere, mentre dieci anni fa non ce n'era alcuno.

Katia: Sì capisco ma c’è sempre il rischio della strumentalizzazione. Come riuscite a mantenere il giusto equilibrio tra la forma di protesta civile e il vostro lavoro?

Loreto:
Ci sono tanti attivisti-artisti che rifiutano il museo per preconcetto e non cercano di capire qual è il motivo politico dell'invito di un museo. Noi cerchiamo di capire prima chi è lo sponsor e poi decidiamo cosa fare.
Abbiamo anche annullato accordi di partecipazione ad alcune biennali, due volte, perché erano situazioni per noi troppo difficili da accettare.

Federico: C'è una corrente di pensiero che vorrebbe quelli come noi fuori dal sistema dell’arte.
In molti ci dicono che è più etico stare in strada come facevamo prima e ci chiedono cosa ci facciamo in luoghi istituzionali. Ma abbiamo scoperto che questo ragionamento serve a mantenere certe persone in posizioni di potere, e se fossimo noi ad occupare certi posti sarebbe pericoloso, perché si tratta di spazi importanti, non marginali.
Nel 1998 abbiamo elaborato una teoria sulla fame fisica e la fame spirituale. C’è un proverbio che dice che l’arte è l’alimento dello spirito e in un Paese come l'Argentina in quel periodo l’alimentazione era basata sulle catene di fast food, e abbiamo capito che quello che si produceva era fast art. Una strategia estetica che rendeva tutto praticamente uguale.
Ancora oggi mi sembra lo stesso, sono diversi gli artisti e diversi i titoli, ma le opere sono formalmente uguali.

Katia: Potete definire meglio il discorso dell’ ”errorismo” il movimento di cui siete portavoce, avete spiegato che è nato da un errore durante la preparazione di una manifestazione in Argentina contro George W. Bush e la sua politica antiterrorismo, ma come si è sviluppato nel vostro lavoro?

Federico:
La cosa più bella della parola errorismo è che non esiste, è una parola nuova ed è quindi necessario creare una o più definizioni del suo significato.
E' stata comunicata come una posizione critica alla lotta contro la guerra del terrore, ma c'è una matrice concettuale più importante nella parola errorismo, non solo perché contiene l’errore, ma anche l’errare.
L’errare è una deriva, l’errare è divagare, l’errare è umano, la natura non erra mentre l’uomo erra...
Tutto è cominciato dalla prima cellula errorista, formata da persone di diversi Paesi, poi si è potuto parlare di Internazionale errorista. Ci teniamo a sottolineare che noi apparteniamo a un movimento più vasto che al suo interno ha tante anime.
La postmodernità ha negato la possibilità di creare nuovi movimenti e l’ismo è dei tempi dell'avanguardia, ma noi abbiamo ritrovato il senso dell’ismo, del movimento; errorismo è anche un gioco di parole tra situazionismo e comunismo.
E' molto interessante perché è un movimento attivo che si espande e si sviluppa.
Noi continuiamo ad ampliare la passione per lo sbaglio, dove l’errore diventa una cosa positiva, ispiratrice, perché l’errorismo nasce come movimento di resistenza e ora è diventato di proposta. Noi facciamo molta propaganda per il movimento ogni volta che possiamo.

Katia: Qual'è la vostra idea di partecipazione?

Loreto:
Secondo noi quando si parla di partecipazione vuol dire che non c'è, per questo siamo dentro al Premio d'arte partecipativa...
L'unico modo che noi abbiamo di lavorare è coinvolgendo altre persone. Realizziamo infatti dei non-workshop, con l’idea anticonsumista e antipolitica di creare un non-lavoro di dis-educazione.
In questi laboratori si vuole portare a un cambiamento reale nelle persone e a come esse percepiscono i problemi. Uno dei nostri temi preferiti è il conflitto, perché nessuno ha voglia di parlare del conflitto, si vuole solo la pacificazione.
Per noi il punto di partenza per coinvolgere la gente in un progetto collettivo è capire insieme qual è il conflitto comune a tutti i partecipanti.
Si crea così un’intimità nell'approccio al tema e questa diventa un’azione socializzante, non partecipativa.

Katia: Mi sembra che nel vostro lavoro ci sia una fortissima componente teatrale, un esempio è il vostro Kabaret Errorista, progetto che è valso la segnalazione al Premio Internazionale di Arte Partecipativa dell’Emilia-Romagna per questa seconda edizione. In questo caso come avete interagito con le persone?

Federico:
Nel 2009 abbiamo ricevuto un invito a Instanbul per una mostra intitolata “Quello che mantiene viva l’umanità”, una citazione dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht a cui siamo molto legati.
Il nostro lavoro di Kabaret Errorista è stato pensato per il centro commerciale di Instanbul, dove ci sono molti turisti e locali in cui passare la notte.
Abbiamo immaginato il Kabaret come un rifugio, in relazione con quello che fu il Cabaret Voltaire, un rifugio della parola dalla repressione.
Però nel nostro Kabaret non dovevano esserci attori in scena, ma oggetti. Infatti c'erano oggetti che parlavano con il pubblico: disegni, porta-ceneri, tazzine, armi e anche figurine che ponevano delle domande e offrivano riflessioni.
Il Kabaret dava l’opportunità di leggere estratti di filosofia moderna e contemporanea, pensieri della gente comune, musica rock, saggi di Guattari o Bifo, ma anche lo sviluppo di temi legati al consumismo cannibale, all’invisibilità dei conflitti come la situazione curda etc. Kabaret richiedeva tempo e attenzione.

Katia: Il pubblico cosa poteva fare?

Loreto:
Il palcoscenico era vuoto e attendeva il pubblico, era pieno di segni a cui si chiedeva di dare un proprio significato, inoltre il pubblico sapeva che l’azione sul palco aveva una scadenza, però era un luogo in cui le persone potevano sedersi a guardare un video, o anche semplicemente rilassarsi. Funzionava come una scenografia e la gente era invitata a parlare, a cantare, a interagire in generale, il cabaret diventava un dispositivo di partecipazione.
Ora è il nostro modo di presentare il Kabaret Errorista è cambiato e interagiamo personalmente creando azioni in cui coinvolgiamo la gente.
Dopo la Biennale di Istanbul l’organizzazione ci ha chiesto cosa fare dell’installazione, che era molto complessa ed era costata parecchi soldi.
Noi abbiamo deciso di donarla a uno spazio alternativo ma con la clausola di voler sapere a chi sarebbe andata e cosa ne avrebbero fatto.
La scelta è caduta su un collettivo artistico femminile e femminista di un'area vicino al Kurdistan in Anatolia, realtà molto difficile e povera della Turchia, così da questo dono e incontro è nato un altro lavoro.

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Maggiori informazioni su C.R.I.S.I. il progetto degli Etcetera vincitore dell'edizione 2013 del Premio Internazionale di Arte Partecipativa

Le mostre degli Etcetera su UnDo.Net

Website degli Etcetera: http://grupoetcetera.wordpress.com

Documenti video in Etcetera TV

Katia Baraldi è curatrice d'arte indipendente dal 2007, con una formazione storico-sociale. Il suo lavoro indaga in particolare le relazioni esistenti tra le pratiche artistiche e le dinamiche di sviluppo e trasformazione della società occidentale. Tra gli eventi curati: "Transition. A private matter", Roaming, Praga; "Front of Art. Esperienze di arte pubblica. Il paesaggio e la comunità", Nervesa della Battaglia (TV), il progetto collettivo "Flaktowers", per il progetto d'artista Bateaurouge, di Alejandra Ballon, Usine Kluger, Ginevra / Vienna, “A ciascuno il suo [paesaggio]” Farnespazio@Rocca, Public space= A place for Action, Libano/Italia/ Rep.Ceca. E' co-fondatrice dell'associazione culturale internazionale "Front of Art" e del progetto artistico-curatoriale "Wawe Equation_ pratiche di attivazione" con AnnaMaria Tina.