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dal 24/1/2002 al 24/2/2002
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Facchinato Daniela




 
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24/1/2002

Geografie

Image Gallery, Bologna

Cosa puo' essere oggi la fotografia di paesaggio? Quesito ancora piu' a monte: ha senso parlare di fotografia di paesaggio? Il titolo di questa mostra cita la parola 'geografie', volutamente scritta al plurale per indicare proprio che non esiste più la possibilita' di una rappresentazione univoca e unitaria del paesaggio, ma sopravvive solo un'idea soggettiva e variabile della rappresentazione del territorio.


comunicato stampa

a cura di Viviana Gravano

Cosa può essere oggi la fotografia di paesaggio? Quesito ancora più a monte: ha senso parlare di fotografia di paesaggio? Una storia ormai più che ventennale racconta di un atteggiamento completamente diverso di alcuni artisti che non intendono più la fotografia paesaggistica come la creazione di immagini contemplative, mirate in modo estetico all'esaltazione della bellezza immutabile del mondo, che sia quello naturale o quello urbano, ma piuttosto al contrario, come ricerca costante della variabilità, dell'ibridazione, della contaminazione dei nuovi territori. In qualche modo il paesaggio è da sempre una grande metafora visiva: è il luogo del viaggio interiore, e allo stesso tempo il luogo intimo della rappresentazione dell'altro da sé, del mondo che circonda l'individuo. Il titolo di questa mostra cita la parola "geografie", volutamente scritta al plurale per indicare proprio che non esiste più la possibilità di una rappresentazione univoca e unitaria del paesaggio, ma sopravvive solo un'idea soggettiva e variabile della rappresentazione del territorio. Come scriveva Walter Benjamin, citando un malato di mente "Io viaggio per conoscere la mia geografia". La Geografia fotografica non è più la rappresentazione graficamente sintetica e simbolica di una realtà definita una volta per tutte, ma è semmai un campo d'azione, un luogo del potenziale, uno spazio del costante attraversamento, esattamente come è lo spazio della metropoli.

I quattro giovani artisti che presentiamo in questa mostra, pur su una simile linea di pensiero, indagano differenti modalità espressive di penetrazione nel paesaggio, o ancora meglio, attraversano lo spazio della metropoli secondo modalità che vanno dalla pura fiction alla rilevazione poetica-topografica del territorio. Le loro attitudini concettuali corrispondono, in qualche misura, a quattro diverse modalità di approccio con il territorio che partono da un tema comune: la metropoli come luogo di un vissuto variabile, instabile e articolato. Un altro elemento li accomuna: la volontà di non imporre una sola visione, ma piuttosto di condividere con chi guarda uno dei possibili attraversamenti, una delle possibili visioni di una realtà di per sé in continuo morphing, quindi non fissabile in uno sguardo definitivo.

Luca Capuano, fotografo bolognese, realizza immagini reali ma con un costante tono visionario, ereditato da certa fotografia colta e concettuale della scuola ghirriana. Sono fantasmatiche presenze notturne, segnate da un onirismo felliniano, sospeso tra scenografia cinematografica e senso del vuoto. Grandi cartelloni pubblicitari illuminati nella notte come enormi tabelle di segnalazioni per astronavi in atterraggio; campi di grano colti in una notte surreale, con colori che ancora fanno pensare ad un imminente atterraggio extraterrestre; spaesamenti prospettici che trasportano cabine dalla spiaggia in riva al mare in piena città; …e la nave di Fellini va, naviga a terra in una notte senza nessun ancoraggio temporale. Nessun montaggio, nessuna alterazione formale, ma solo la capacità di continuare una visione, che ormai può quasi dirsi una tradizione italiana-emiliana, di saper vedere una poetica surrealtà in una realtà tanto semplice da essere devastante nella sua normalità. Accanto a questi spicchi di "fotomontaggi naturali", Luca inserisce una serie di piccoli appunti, un taccuino dell'imprevedibile, rubato con quello strumento senza tempo e senza vero controllo che è la Polaroid. Piccole porzioni di sguardi che mixano in macchina frammenti di schegge di un quotidiano in un rap italiano, che con voce poetica, elenca la più totale normalità, evoca elenchi imperturbabili di oggetti che stanno lì senza davvero importanza ma che, al solo accostarsi, raccontano altri piccoli mondi nascosti, altre visioni che si rivelano solo al secondo sguardo.

Dallerba ripete e clona spazi assoluti della metropoli senza luogo. In ogni volume si sente una stessa volontà di non dare nessun giudizio morale, di non interessarsi minimamente della funzionalità, dell'idea di architettura, di ergersi a giudice della vivibilità di questi spazi, tutto si sposta dichiaratamente e provocatoriamente sul piano formale. Lui stesso scrive "Il lungo treno del quartiere Barca di Bologna potrebbe benissimo stare al posto del Corviale di Roma, e viceversa. Aleggia una sensazione di leggerezza e di ironia (in fondo queste sovrapposizioni eseguite in fase di scatto - perché di questo si tratta - cosa altro sono se non un gioco?!), unita all' intervento del caso, perché la sovrapposizione (quella piccola porzione di parte più chiara della stampa), nonostante studiata e controllata, approfonditamente e dall' esperienza, è inevitabilmente soggetta alla meccanica della casualità. Prassi è che scatto più volte una stessa scena, e poi lavoro molto nella selezione a tavolino. E trovo che questo sia anche il punto di forza per andare avanti nella ricerca globale del lavoro". Nessuna presunzione di dire cosa è definitivamente la metropoli dei grandi volumi abitativi, nessuna volontà di raccontarci, con un fare che ci ha abbondantemente annoiato, cosa sono le "periferie", come ci si vive dentro. Solo l'ironica volontà di ripetere degli spazi costruiti con il cemento attraverso una ricostruzione con lo sguardo. Spostare gli edifici da una dimensione di contenitori (dalle persone ai presunti valori sociologico-morali) a una dimensione ironica, leggera alla Calvino di Lezioni Americane, di superfici che si sovrappongono quel tanto che basta a creare un disegno assolutamente formale, un gioco di stereoscopica ripetizione, che fa venire in mente la fotografia panoramica delle origini oppure reali/surreali carillon moderni.

Marco Sanges, anche lui diviso tra Italia e Londra, costruisce piccole fiction, di taglio cinematografico, ambientate in luoghi evocativi e aree dismesse, che giocano microstorie frammentarie e non consequenziali. Un uomo sembra misurare il suo corpo, quasi con compiacimento, sullo spazio della metropoli disemessa o under construction . In un nuovo parco metropolitano di Blow Up, sotto lo sguardo sottile e inquietante di Antonioni, si aggira raccontando microstorie senza trama. Non c'è nessun evento da sviluppare, la sceneggiatura non richiede consequenzialità, non si inizia a non c'è un happy end, semplicemente perché non c'è una storia nel senso consequenziale del termine. Sembra di aver raccolto quelle piccole porzioni di pellicola con pochi fotogrammi che si trovavano ai piedi del montatore quando ancora si montava in moviola. Con affascinante e evocativa lirica metropolitana, Marco rinuncia alla memoria delle immagini e fa vivere il suo personaggio in un eterno presente, lo fa aggirare senza futuro, in luoghi che sono solo scenografie "naturali" di un suo attraversamento atemporale. Quasi un sopravvissuto a chissà quale fine del mondo, questo strano gigante mette solo in costante paragone il suo corpo con la metropoli, sembra mostrare narcisisticamente i suoi muscoli ai muscoli dello spazio urbano, sembra confrontare il suo profilo alle sagome della città. Un film di spezzoni che sarebbe piaciuta ai surrealisti che entravano e uscivano dalle sale cinematografiche per potersi perdere nella distruzione spaesante delle trame interrotte.

Silvia Sgualdini, tra Venezia e Londra, racconta dell'omologazione visiva dei luoghi liminali della metropoli, e costruisce una sua mappa variabile che mette a confronto le identità fisiche umane con gli spazi del loro vissuto. Mappe senza geografie, facce, corpi e spazi della metropoli, accostati in un contrappunto che non richiede legami troppo logici, o che non domanda un semplice dinamismo di somiglianza tra le parti. Silvia non ci dice che i ritratti di quei giovani sono come i "ritratti" di quei luoghi, ma con una accostamento che assomiglia più alla musica concreta, che campiona suoni reali per poi accostarli senza priorità, senza purismi, ma in una ibridazione visiva che lascia che ogni parte resti se stessa pur nella continua contaminazione con il resto. Ogni ritratto, ogni giovane rappresentato in questi suoi polittici, si mostra in una assoluta evidenza che però non è definitiva: è una delle possibili immagini che possono attraversare solo uno di quei possibili spazi. Nessun evento speciale, nessun luogo significativo, nessuna volontà di raccontare per sempre, come deve essere il vissuto di un dato luogo, nessuna volontà di cronaca esatta. Solo la capacità di attraversare con uno dei possibili sguardi un luogo posto al confine tra mille luoghi, una zona grigia di frontiera che si definisce proprio nella sua impossibilità d'essere definita, tra campagna e industria. Rapisce formalmente la precisione di questi ritratti che pure non si danno affatto come definitivi. Eppure una simili corporeità unisce luoghi e corpi, persone e spazi. Ritratti di spalle e luoghi visti "da dietro" lo sguardo. Ritratti in primo piano, in un lento avvicinamento, dialoghi con i loro sguardi senza la pretesa di "capire", senza il moralismo del "racconto" di cronaca, ma piuttosto come contrappunto forte e aperto nel vuoto dello spazio. Vuoti potenziali dove non è importante quello che accade, né se accadrà qualcosa, ma reali percorsi aperti di attraversamenti possibili.

Nell'immagine un'opera di Marco Sanges.

Inaugurazione: venerdì 25 gennaio 2002 dalle ore 21,30 alle 24

Orario: Martedì-Sabato 10.30-19
orario continuato

Daniela Facchinato
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Via Zanardi, 51 Bologna

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