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Cut up (2001-2004) Anno 3 Numero 5 gennaio 2002



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Giacomo Verde e Lello Voce erano li', vicino a Piazza Alimonda quando Carlo Giuliani viene ammazzato da un colpo di pistola in pieno viso, sparato a distanza ravvicinata dall'interno di una Land Rover "Defender" CC AE 217.
Giacomo era a Genova non per una film commission ma perché condivideva sinceramente le ragioni del Movimento e voleva mettere a disposizione, in occasione dell'Anti G8, le proprie immagini: sin dal primo giorno, come molti altri videoattivisti, aveva riversato sul sito di Indymedia il proprio girato, dando testimonianza di quello che accadeva quasi in diretta, non censurato da televisioni governative-private per motivi di palinsesto, di fedeltà allo standard o alla linea, più o meno occulta, politica-economica dominante. La deliberata scelta di non fare "reportage d'assalto", "cronaca più vera del vero", lo ha portato a soffermarsi, piuttosto, su quello che accadeva ai margini, nobilitando -come sempre nei suoi video- la "parte in ombra" dello "spettacolo", dando volto, voce e corpo a situazioni poco "televisive" o addirittura in certi casi, anti-televisive, ma assolutamente efficaci per comprendere a fondo il clima e la forza reale di un movimento (di idee, di azioni) che non conosce confini (No border è lo slogan del gruppo teatrale austriaco Publix Theatre Caravan che ha realizzato azioni di strada durante le manifestazioni anti G81) e fa "resistenza" (Resistence è l'emblematico titolo dello spettacolo che il Living Theatre ha presentato nelle strade di Genova). A prevalere, come vera scelta di stile (d'arte, di vita) è il rumore di fondo: nel video, dunque, c'è il "backstage" delle immagini del Tg, il controcampo, il fuori fuoco: protagonisti sono l'anziano genovese che guarda gli scontri a distanza ravvicinata e le commenta come fosse un cronista sportivo, il proprietario della casa che ospitava, suo malgrado, tre cecchini sul tetto. E ancora, il corteo coloratissimo dei migranti, la gente affacciata dalle finestre che butta acqua ai manifestanti accaldati (e poi dopo, limoni per aiutarli a sopportare i lacrimogeni), il punto di ristoro, l'accampamento, il momento della vestizione e delle protezioni con armature di plastica e gomma, il clima generale di festa, di solidarietà. Di speranza che "un mondo nuovo è possibile". Ma anche la città blindata, la violenza contro i manifestanti, la forza iconoclasta dei "black block", i loro cortei, il saccheggio di un supermercato, la risposta alle cariche della polizia.
Corpi imbottiti a prova di urto: Kefiah (l'Intifada!), passamontagna e armature di gommapiuma (visibili nell'episodio Corpi speciali) contro "corpi cibernetici" in tenuta antisommossa, protetti da scudi, caschi e maschere antigas.
Nel video, voci e musica sembrano commentare gli episodi o a volte addirittura generarli. Se la musica, un'abile mix di elettronica ed effetti sonori del compositore Mauro Lupone, aggiunge un elemento emozionale, i testi selezionati e declamati senza ostentazione dal poeta Lello Voce e i titoli degli episodi offrono un'ulteriore nota di riflessione (poetica, filosofica, ironica) che va oltre le immagini stesse: le parole reagiscono con le immagini e i suoni come in un'equazione chimica.
Nell'episodio Corpi speciali il brano letto dal Don Chischiotte di Cervantes crea un cortocircuito assolutamente spiazzante: la ricerca delle armi del Cavaliere errante più famoso della storia della letteratura accompagna la vestizione-mascheramento fai-da-te dei ragazzi, un po' combattenti del Sacro Graal, un po' uomini-imballaggio "Fragile-maneggiare con cura", imbottiti con materiale riciclato e ritagliato su misura per un gesto, un unico emblematico gesto: "entrare -come mostra orgogliosamente la ragazza nell'episodio in questione- con il mio corpo nella Zona Rossa". Corpi che vorrebbero (s)cavalcare cancelli, un cavaliere che vuole attaccare mulini a vento. Di quante zone rosse è fatta la nostra vita? Fino a che punto possiamo arrivare con i nostri ragionamenti-corpo prima di trovare gli sbarramenti di chi ha già deciso, per noi, il destino della nostra vita? Qual è la linea bianca da rispettare?
La voce di Lello si mescola con le parole di altri, con quelle di una cultura-in-azione2. Che aveva già visto, che aveva, in qualche modo, pre-visto: Bertold Brecht, Patrick Chaamoiseaux, Elio Pagliarani, Piero Jahier, Roque Dal ton, Elemire Zolla.
Tutto si mescola nel grande crogiuolo della Storia.
Perfettamente coerente con la sua idea di arte come pratica comunicativa e contro ogni specificità di linguaggio, lavorando al loro incrocio (teatro e video, web e performance, live e medializzato), frantumando generi e mescolando tecniche di narrazione, dunque, Giacomo Verde in Solo limoni usa con grande disinvoltura, più registri (quello ironico, quello autobiografico, quello poetico, quello documentaristico), non disdegnando neppure la citazione iconografica; la Cacciata dal Paradiso Terrestre, l'affresco del Masaccio con cui si apre e con cui si conclude il video, rimette a noi il Giudizio Finale: se riprenderci il Paradiso o rimanere in questo Inferno.
C'è soprattutto un Io narrante (mescolato a molte altre voci narranti) testimone oculare dei fatti che non rinuncia a mostrare se stesso ed il proprio punto di vista (che è una precisa presa di posizione politica sul mondo) anzi lo esplicita, lo palesa: in my opinion, per farla finalmente finita con la presunta impersonalità ed imparzialità del documento (di tutti i documenti) e con la pretesa neutralità delle tecniche comunicative; questa è una favola a cui dovremmo smettere di credere. "La scelta di un linguaggio è sempre una scelta politica": così Sandra Lischi aveva aperto il suo ragionamento sul video di Giacomo Verde al cinema Arsenale di Pisa. Solo limoni è sicuramente un'opera "militante" (ma non di propaganda) nel senso più autentico (e onesto, e ottimista) del termine. Con la tecnica della "guerriglia controinformativa" dei collettivi radicali anti-establishment degli anni Sessanta (ma anche, e soprattutto, con quella degli attivisti della rete)3 Verde ha sempre condiviso l'idea dell' "opera in azione". Giacomo Verde attraverso le sue installazioni (che sono estese anche al mondo digitale e della rete) si è davvero "schierato" contro la tecnocrazia e il "tecnopolio"(Neil Postman) dominante che oggi assume le sembianze familiari del televisore di casa e del computer. Le sue oper'azioni sono da sempre variazioni in low tech sul tema della necessità di un uso politico e di una riappropriazione e gestione collettiva dei media, in un momento in cui la sfera tecnologica è diventata sempre più il cuore del sistema (politico, economico, sociale), tema che oltrepassa, evidentemente, ogni argomentazione di tipo estetico; coi Teleracconti Verde ci aveva mostrato come è facile attraverso una telecamera "far credere che le cose sono diverse da quelle che sono", in altre parole, che le immagini trasmesse dalla televisione non sono quelle della realtà ma quelle di chi vuole fissare per noi un punto di vista sul mondo. E' la realtà "rassicurante" di un mondo che non esiste, è la realtà al tempo dei vanishing events, della "fine della storia" (Baudrillard). Abbiamo imparato da tempo (e i recenti fatti di guerra ce lo confermano) quanto potente sia la macchina spettacolare dell'informazione (parola che troppo spesso fa rima con consenso), la "gestione della catastrofe" e la simulazione-contraffazione degli eventi (ancora Baudrillard).
L'episodio della telecamera di Pasolini (le immagini sono di Uliano Paolozzi Balestrini) è incredibilmente simbolico nella sua paradossale apparenza di sketch: un fotoreporter è colpito, un poliziotto gli ha spaccato la macchina fotografica. Lui è lì per lavorare, non per condividere le ragioni del Movimento, per stare di qua o di là, avrebbe probabilmente venduto le immagini a qualche rotocalco guadagnandoci bene, ma si rende conto di essere diventato anche lui ingranaggio utile al sistema, e come tutti, burattino o maschera di una commedia all'improvviso il cui canovaccio era già stato da tempo scritto; un assurdo gioco delle parti (diventato, poi, un terribile jeu du massacre) in cui ciascuno recitava un ruolo, mentre altri ne manovravano i fili. Chiede chi è stato. C'è un gruppo di poliziotti ma nessuno esce dal gruppo, nessuno si mostra nella propria identità, fuori dall'"Arma" a cui appartiene, fuori dalla corazza spersonalizzante (ma anche protettiva) del proprio ruolo, appunto. Il responsabile, che è evidentemente lì in mezzo, ha la complicità di tutti, è, diciamo così, "coperto". Nessuno (no-body) è stato.
Il fotografo insiste e coinvolge la folla, vuole trovarlo, nella vita normale, in fondo, mica accade così, uno che fa deliberatamente un'azione violenta e per di più gratuita mica può rimanere impunito. Ma in questa no man's land che è stata Genova, tutto era tragicamente lecito (e la fotocamera rotta è solo l'inizio), ogni diritto civile violato, l'uccisione stessa non un omicidio.
Poi ci sono gli scontri, Giacomo e Lello non inseguono lo scoop ma tra le vie incontrano mille storie. Ascoltano, guardano e registrano: un medico sanguinante colpito al volto, "rastrellamenti" tra chi cercava rifugio provvisorio dentro i portoni o sulla spiaggia. Giacomo sceglie di inserire poche ma significative testimonianze delle violenze indiscriminate sulla massa dei manifestanti. Altri lo hanno fatto con maggior dovizia di particolari, con interviste e ricostruzioni puntuali e senza chiedere il permesso4. Lo shock di fronte a queste immagini rimane sempre lo stesso: non ci sono attenuanti ai pestaggi, alle cariche dei blindati contro la folla, alla brutalità di una violenza totalmente gratuita.
Nell'episodio di Carlo Giuliani il girato è tantissimo, c'è il corpo offeso, c'è il Corpo della Polizia, ci sono decine di corpi di ragazzi; qualcuno di loro intravede l'inguardabile, urla "Assassini". Solo corpi, solo rabbia. Fatto il loro dovere, eseguiti gli ordini, pistole e manganelli alla mano, la polizia si allontana; qualcuno spara fumogeni sulla folla che piange, indignata, il cadavere, tutto quello che rimane di slogan e cortei contro la globalizzazione liberista. Ecco il "marchio" del sistema dominante. Così dicono le immagini di Giacomo Verde e di molti videoattivisti, chiarissime e senza possibilità di interpretazioni tendenziose. L'occhio di Giacomo Verde, però, si sofferma sul particolare isolato, sulla ragazza con la telecamera che vede e urla "Cosa avete fatto?", sul ragazzo che scopre il sangue sotto la segatura ne prende un pugno e gettandolo contro la polizia che arretra, grida: "Ecco, loro sono capaci di questo!" La telecamera ha fissato a lungo gli occhi e lo sguardo di quei poliziotti immobili, schierati in cerchio intorno al morto; ha cercato di catturarne un qualche respiro, un qualche spiraglio (di sentimento?di verità?di pentimento?di vita?). Maschere messe a nudo. Una galleria di volti: c'è quello imbarazzato, quello impassibile, quello che quasi sta soffocando dentro la maschera antigas perché non deve aver sentito l'ordine di levarsela. Ancora, una lunga e commuovente digressione sui fiori rossi che vengono strappati dall'aiuola e posti pietosamente sul luogo dove Carlo Giuliani è stato colpito a morte. Tutti corpi intorno. Il girato è tantissimo, bisogna comunque registrare, perché a dirlo semplicemente a parole, nessuno ci crederebbe; Giacomo non ha quasi staccato la telecamera, non può, è il mirino che gli permette di vedere, sarebbe stato come staccare un respiratore; decide di non tagliare e di non sacrificare quasi niente: lascia la maggior parte delle immagini e semplicemente le velocizza, mantenendo così, una continuità di azione; minimo il lavoro di montaggio, pochissimi gli stacchi: l'idea è quella di lasciare il tempo reale: si può contrarre il tempo, ma non eliminarlo quel tempo. C'è bisogno di ricordare tutto e l'intero piano sequenza (risultato di un coraggioso quanto abile, montaggio in macchina) permette di conservare l'immediatezza e di restituire dell'intera vicenda, il suo volto (i suoi volti), la sua successione temporale, il suo contesto.
"Non calpestate le aiuole" è senz'altro l'episodio più emblematico (e il più toccante) perché la morte intravista dalle gambe dei carabinieri, e attraverso i loro scudi trasparenti appoggiati a terra, quel corpo coperto da un lenzuolo, e la chiazza di sangue ricoperta di segatura quanto tutto è finito, è quello che non ci farà mai dimenticare quei tre giorni di Genova. Le immagini di quel no-body (l' essere umano ridotto a corpo uccidibile, non più vita sacra e inviolabile5), offeso dai padroni della nuda vita altrui, ci ricorda, soprattutto, che non siamo al cinema, che tutto è tragicamente vero.
Che può capitare nella vita reale di morire o di uccidere un proprio coetaneo durante una manifestazione di piazza.
Proprio in un'epoca di facile trasferibilità e trasmissibilità delle immagini, di massima diffusione delle tecniche di riproduzione (ma anche di trasformazione delle immagini stesse), dei mille occhi delle mille telecamere e macchine fotografiche presenti a quello che è stato definito un vero evento mediatico, che diventavano mille finestre spalancate sui fatti, queste, inserite in contenitori diversi e "telecomunicate", diventavano magicamente di segno opposto: il Movimento (dichiaratamente pacifista, anzi attivista pacifista) marchiato dell'infamia della violenza e dell'illegalismo, una seria minaccia per il vivere civile, i teppisti la vera anima del Movimento.
In mezzo, i fatti, "trattati" dai media (non tutti, per fortuna) con la solita patina di irrealtà, o semplicemente di funzionale finzione, risultato della usuale spettacolarità sensazionalistica con cui gli eventi acquistano quell'appeal degno di una messa in onda.
Lo show, televisivamente parlando, è riuscito6.
Ma se tutto è andato come previsto, secondo "copione", il sangue, gli scontri, la vittima, non sarà perché l'aveva profetizzato qualche poeta in un Rap, né perché lo imponeva l'Auditel.
Ma perché l'autoritarismo (la Struttura) -questo la Storia ci insegna- non conosce altre strade.
Al prevedibile oscuramento-censura televisivo si sono, per fortuna, contrapposti gruppi di attivisti indipendenti, che hanno messo a disposizione quelle immagini che ora circolano liberamente in rete, attraverso mailing list, in siti dedicati, o nelle edicole e che sono proiettate pubblicamente nei centri sociali, nei cinema e nei social forum costituiti in tutt'Italia all'indomani dei fatti di Genova.
Come all'epoca delle street tv quando le ingombranti camcorder e portapack (e il relativo apparato di broadcasting autogestito) servivano a mostrare "l'altra faccia degli eventi", a Genova questi sguardi si sono centuplicati e sono diventati microscopiche e leggerissime telecamere digitali, web cam, istantanee fotografiche e sequenze video immediatamente disponibili e divulgabili in rete, mentre l'attivismo antagonista e il versante del dissenso tecnologico sta conoscendo altre e proficue strade attraverso il world wide web7. Così le immagini di Giacomo e di altri autori, le parole di Lello, la musica di Mauro, sono diventate un video e un libro per mantenere ancora a lungo nella memoria collettiva quello che altri vorrebbero far dimenticare.


1 Dopo aver preso parte alle manifestazioni e aver fatto alcune performance di strada, il 22 luglio i venticinque membri della Karawane furono fermati fuori della città e successivamente trasferiti in carcere a Voghera e Alessandria con l'accusa di fare parte dei black block. La loro permanenza in carcere termina il 16 agosto, giorno in cui sono estradati verso i paesi d'origine gli ultimi cinque membri rimasti in carcere (per gli altri venti la data di scarcerazione è il 14 agosto). Tatiana Bazzichelli, attivista e studiosa di cultura antagonista e di hacker art li ha intervistati in occasione del Festival di arti elettroniche di Linz, settembre 2001. Al momento della stesura del libro il processo è ancora in corso. Il testo dell'intervista è pubblicato sul numero 3 di "Cut up" (www.cut-up.net) ed edito in rete nel sito di Stranonetwork www.strano.net
2 Mi sembra che la migliore definizione di "cultura in azione" sia stata scritta da Antonin Artaud nel testo di prefazione al Teatro e il suo doppio: "Mai come oggi si è parlato tanto di civiltà e di cultura, quando è la vita stessa che ci sfugge. E c'è uno strano parallelismo fra questo franare generalizzato della vita, che è alla base della demoralizzazione attuale, e i problemi di una cultura che non ha mai coinciso con la vita e che è fatta per dettare legge alla vita. Prima di riparlare di cultura, voglio rilevare che il mondo ha fame, e che non si preoccupa della cultura (...) La cosa più urgente non mi sembra dunque difendere una cultura, la cui esistenza non ha mai salvato nessuno dall'ansia di vivere meglio e di avere fame, ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura, delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame (...)Bisogna insistere su questa idea di cultura in azione (corsivo aggiunto) che diventa in noi come un organo nuovo, una sorta di respiro secondo: e la civiltà, è cultura applicata, capace di guidare anche le nostre azioni più sottili, è spirito presente nelle cose; ed è puro artificio separare la civiltà dalla cultura, e usare due parole diverse per indicare una sola e identica azione". A.Artaud, Il teatro e la cultura, in Il teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi, 1968, p.128 (1a pubblicazione in forma di opuscolo: Parigi, 1933; 1a ed. de Le théâtre et son double: Parigi, Gallimard, collezione "Métamorphoses", febbraio 1938).
Si potrebbe, a questo proposito, ricordare le argomentazioni della Arendt sulle caratteristiche attuali della vita activa (che riprende la classica distinzione tra bios politikos e bios theoretikos). Azione e discorso come vera realizzazione della condizione umana intesa nell'unica accezione possibile, ovvero nella pluralità, nell'agire insieme: "L'azione, diversamente dalla fabbricazione, non è mai possibile nell'isolamento; essere isolati significa essere privati della facoltà di agire(...)Agire, nel senso più generale significa prendere un'iniziativa, iniziare, mettere in movimento qualcosa (che è il significato originale del latino agere)...Discorso e azione sono le modalità in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici ma in quanto uomini. Questo apparire, in quanto è distinto dalla mera esistenza corporea, si fonda su un'iniziativa, un'iniziativa da cui nessun essere umano può astenersi senza perdere la sua umanità. Non è così per nessun'altra attività della vita activa. Gli uomini possono benissimo vivere senza lavorare, possono costringere gli altri a lavorare per sé, e possono benissimo decidere di fruire e godere semplicemente del mondo delle cose senza aggiungere da parte loro un solo oggetto d'uso; la vita di uno sfruttatore o di uno schiavista e la vita di un parassita possono essere inique, ma essi sono certamente esseri umani. Ma una vita senza discorso e senza azione -certamente il solo modo di vita che genuinamente ha rinunciato ad ogni apparenza e ad ogni vanità nel senso biblico del termine- è letteralmente morta per il mondo; ha cessato di essere una vita umana perché non è più vissuta tra gli uomini. Con la parola e l'agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale". H. Arendt, Vita activa. La condizione umana. Milano, Bompiani, 1991, p.128-129. (ed. or. The Human Condition, Chicago, 1958).
3 Il riferimento è alle opere di videomaker indipendenti come Antoni Muntadas, Paul Garrin e soprattutto ai movimenti di militanza controinformativa (l'altra faccia della videoarte): Global Village, Raindance Corporation, Videofreex, che avevano dato vita a Tv via cavo autogestite, riviste (Radical Software curata da Beryl Korot) e ad un vero e proprio stile documentativo improntato sull'immediatezza, sull'informazione veramente alternativa e decentralizzata. Sull'argomento vedi M. Sturken, Paradossi nell'evoluzione di un'arte: grandi speranze e come nasce una storia, (tit. or.Illuminating video) in Video imago, "Il nuovo spettatore" n. 15, maggio 1993, a cura di A. Amaducci, Milano, Franco Angeli, 1994; ed anche S. Fadda, Definizione zero. Origini della videoarte tra politica e comunicazione, Torino, Costa e Nolan, 2000. Azioni di protesta attraverso la rete sono state, invece, promosse attraverso, per esempio, la pratica del netstrike, altra faccia del movimento di "disobbedienza civile elettronica" promulgato dal collettivo americano Critical Art Ensemble che ha per slogan "Cyber rights now" (vedi C.A.E. Sabotaggio elettronico e Disobbedienza civile elettronica, Castelvecchi, e anche La macchina carne. Cyborg, biotecnologie e nuova coscienza eugenetica, Milano, Shake, di prossima uscita). In Italia il net strike ha i suoi padri fondatori nell'artista toscano Tommaso Tozzi (artista digitale, fondatore di reti telematiche antagoniste e BBS) e nel gruppo Stranonetwork, composto da artisti formatisi nell'area underground e cyberpunk del CSO "Ex Emerson" di Firenze (tra gli altri, Federico Bucalossi, Ferry Byte, Stefano Sansavini). La pratica di azione diretta, collettiva e organizzata attraverso la rete contro multinazionali colpevoli a vario titoli di abusi o Stati sovrani, gli obiettivi del netstrike e l'ideologia che lo sorregge, sono spiegati da Tommaso Tozzi nel libro Net strike, No copyright etc. Pratiche antagoniste nell'era telematica, ed. AAA. Il libro è soprattutto un manuale pratico con tanto di kit per imparare a "farsi da casa il proprio net strike" nella tradizione della militanza che ricorda agli storici della videoarte, il manuale per un utilizzo alternativo della televisione Guerrilla Television dell'americano Michael Shamberg datato 1971.
4 Attualmente è terminato il primo di una serie di video che verrano realizzati dal gruppo Indymedia con scopi deliberatamente documentaristici. Rimandiamo al loro sito per richieste e informazioni sugli aggiornamenti in corso: www.italy.indymedia.org. Ho voluto giocare con il titolo dello "storico" libro di Roberto Faenza Senza chiedere il permesso (1973), manuale ad uso dei rivoluzionari dell'informazione armati di videotape.
5 Viene in mente, a questo proposito, la figura dell''homo sacer, l'uomo escluso dalla vita politica e sociale che nella ius latina arcaica non godeva di alcun diritto civile e la cui uccisione non costituiva, di fatto, omicidio e analizzata da Giorgio Agamben. L'uccidibilità incondizionata era prerogativa (e fondamento stesso) del potere sovrano: "Lo spazio politico della sovranità si sarebbe costituito attraverso una doppia eccezione, come un'escrescenza del profano nel religioso e del religioso nel profano. Sovrana è la sfera in cui si può uccidere senza commettere omicidio e senza celebrare un sacrificio; sacra, cioè uccidibile e insacrificabile, è la vita che è stata catturata in questa sfera (...) La sacertà della vita, che si vorrebbe oggi far valere contro il potere sovrano come un diritto umano in ogni senso fondamentale, esprime, invece, in origine proprio la soggezione della vita a un potere di morte, la sua irreparabile esposizione nella relazione di abbandono" (G.Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995, p.92-93). Nell'epoca moderna molti sono gli esempi di nuda vita uccidibile dal potere sovrano in nome di una sacertà dietro cui si nasconde, in realtà, una violenza autorizzata e legittimata dal potere stesso (ieri gli ebrei oggi i manifestanti di piazza). I segni vittimari degli uccidibili sono sempre meno evidenti, la diversità dei perseguitati sempre meno un requisito per un potere che assomma in sé (impadronendosene indiscriminatamente e senza essere giudicato per questo) la sacralità della vita stessa; dunque, l'homo sacer diventa emblema della condizione umana contemporanea: "La sacertà è una linea di fuga tuttora presente nella politica contemporanea, che, come tale, si sposta verso zone sempre più vaste e oscure, fino a coincidere con la stessa vita biologica dei cittadini. Se oggi non vi è più una figura predeterminabile dell'uomo sacro, è forse, perché siamo tutti virtualmente homines sacri" (Ibidem, p.127). Non a caso in copertina il libro mostra significativamente l'occupazione della Piazza Tien an'men dopo gli scontri e le violenze ingiustificate sulla massa inerme dei manifestanti pacifici da parte del potere costituito, violenza che si è puntualmente ripetuta nel corso della manifestazione anti G8 a Genova, luglio 2001.
6 Oliviero Ponte di Pino, ironizzando sull'apparato dispiegato in occasione dell'AntiG8, da una parte e dall'altra, ha descritto Genova come "il grande teatro del mondo": il testo, dal titolo Il G8 come opera d'arte totale, è edito attualmente nel sito www.olivieropdp.it e verrà pubblicato nel Patalogo 2001(Milano, Ubulibri).
7 Sulle pratiche antagoniste del web vedi l'articolo di Tatiana Bazzichelli sull'hacker art pubblicato in "Cut up" n.3. e consultabile al sito www.strano.net/bazzichelli.