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Aperture (2002 - 2004) Anno 8 Numero 17 Anno 2004/05



Di cosa facciamo esperienza in un viaggio?

Franco Bellotti



Punti di vista a tema
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Tassili, Algeria - Dimensione Avventura


Per alcune particolari circostanze, al termine di un viaggio che feci nel Sahara Algerino circa due anni fa, sentii il bisogno di riflettere sul tipo di "esperienza" che si "fa" e si "ha" per l'appunto durante i viaggi.
Subito dopo essere tornato, scrissi una prima riflessione per mettere ordine ai miei pensieri attraverso un confronto, anche se limitato, con la nostra tradizione culturale. Cercavo, in un certo senso, una distanza emotiva dall'esperienza appena vissuta, tale da permettermi un giudizio, certamente legato alla mia soggettività, ma allo stesso tempo mediato da riferimenti culturali più ampi.1
Le particolari circostanze riguardavano sia il deserto algerino sia la particolare compagnia di amici con cui avevo programmato e fatto il viaggio. Un gruppo legato dalla comune passione per l'alpinismo, una passione praticata insieme per anni, e dunque cementato non solo da una comune passione, ma anche dal fatto che in precedenza ciascuno di noi aveva condiviso con gli altri momenti molto intensi, ma mai tutti insieme. La differenza fra la condivisione della passione dell'alpinismo in diverse esperienze con uno o al massimo due amici, e la condivisione della stessa passione su un piano collettivo mi aveva mostrato come l'esperienza che avevamo vissuto fosse completamente diversa. "L'incontro" era avvenuto su un livello, per così dire, astratto, ideale, simile ad una ideologia; dove era data per scontata la condivisione di una supposta motivazione comune, quando ognuno invece aveva, giustamente, le proprie motivazioni legate alla propria personale soggettività.
Riflettendo su questa differenza, mi convinsi che le motivazioni che sorreggono la passione per i viaggi rimangono nella stragrande maggioranza delle persone, e non solo nel nostro gruppo, non pensate. Sono cioè inconscie, ma non nel senso psicologico del termine, quanto piuttosto sono inconsapevoli sul tipo di esperienza che effettivamente avviene durante i viaggi. Ciò che prevale, cioè, è l'esperienza della realtà esterna che, come un'ideologia appunto, oscura l'esperienza vissuta soggettivamente che invece costituisce la base da cui provengono le motivazioni di ciascuno individuo. Motivazioni che rimangono mortificate in un dimenticatoio, tanto che il senso soggettivo, dato dal vissuto dell'esperienza, si omologa a un senso collettivo, dato questo da una coscienza collettiva appiattita su una vera e propria ideologia del viaggio.
Soltanto trent'anni fa fare un viaggio un po' avventuroso era un privilegio di poche persone, mentre ora è alla portata di molti, e la loro organizzazione è diventata una vera e propria industria. Esistono guide turistiche di tutte le parti del mondo, riviste specializzate, inserti settimanali nei grandi quotidiani e chi più ne ha più ne metta, per supportare con le loro offerte e le loro proposte questa nuova opportunità.
Riuscire a non rimanere coinvolti in questa vera e propria "ideologia" del viaggio è un problema veramente difficile, anche perché ci sono, per l'appunto, delle occasioni che si differenziano e offrono, per così dire, "qualcosa di sinistra"; nel senso che sono più avventurose, meno comode e soprattutto organizzate fuori dai circuiti più battuti. "Avventure del Mondo", per esempio, è una agenzia, diventata anche un'associazione, che ha lanciato questo modello circa trent'anni fa; e ha il grande merito di avere inventato una formula solo in parte commerciale, lasciando ai partecipanti la gestione dell'altra parte. I viaggi che organizza richiedono, infatti, uno spirito sportivo che riprende un po' quello delle vecchie spedizioni alpinistiche e dei viaggi esplorativi, da cui l'ideatore appunto proveniva. Le spedizioni alpinistiche o i viaggi un po' avventurosi richiedevano, infatti, una preparazione che durava tutto un anno, uno studio basato sulla ricerca di carte e documenti, proprio perché la motivazione era legata alla realizzazione di qualcosa di lungamente sognato insieme, e quindi era anche organizzato insieme. Questa parte organizzativa fatta di studio e di ricerca, d'altronde, non caratterizzava solo i viaggi avventurosi e le spedizioni alpinistiche, ma anche quelli del Gran Tour, così come ce li hanno raccontati sia Goethe che Freud.
Tuttavia, anche le iniziative, come il nostro viaggio, pensato in modo abbastanza sportivo e che aveva come meta il deserto algerino per esplorare e salire delle guglie rocciose, non si basano più su alcun sogno, ma per lo più sull'occasione che si offre, mortificando tutta quella preparazione e quella ricerca di documentazione che costruiva sia il sogno che una motivazione comune. In altre parole, nonostante uno spirito diverso dai i così detti "pacchetti" organizzati dalle agenzie, dove tutto è compreso, è diventato quasi impossibile sfuggire alla logica di ridurre l'esperienza ad una somma di "cose" da "fare" e da "vedere".
Una logica che viene agita in modo inconsapevole, coperta da una ideologia dell'esperienza del viaggio che rinominai, un po' polemicamente, nella mia prima riflessione come "fuga a tempo". Con questo slogan volevo richiamare, in qualche modo, le coscienze individuali alla responsabilità di confrontarsi con una coscienza collettiva, una coscienza che Hegel, non a torto, aveva chiamato "falsa coscienza", di cui inevitabilmente facciamo parte, ma alla quale possiamo opporre almeno una coscienza riflessiva.
Tanto più che la coscienza collettiva si scontra non soltanto con la sua "alienazione", Carlo Marx seguendo Hegel la chiamava così, ma anche con una fondamentale legge psicologica, secondo cui fra ciò che è collettivo e ciò che è soggettivo vi è una irriducibile antinomia. Ed è questo il motivo del perché nascono, per esempio, i conflitti e le divisioni, ma la cosa più importante è che l'antinomia riguarda soprattutto l'irriducibilità dell'identità soggettiva ad una identità collettiva, che neanche un'ideologia, o un supposto archetipo del viaggio, può ricomporre.
In altri termini, ciò che è in discussione non sono i possibili conflitti, sempre in qualche modo ricomponibili, ma il fatto che le identità soggettive si appiattiscono, senza rendersene conto, su una dimensione collettiva, dove il condizionamento della tradizione storica e culturale è più radicato e meno visibile.
Il problema, da questo punto di vista, è che non si può dare per scontato un certo vissuto, una particolare esperienza di libertà data dall'avventura e dalla scoperta di luoghi esotici, il così detto Wildnis (l'origine della parola è tedesca e non inglese), senza dubitare sul fatto che questa esperienza è molto meno libera di quanto si crede, e molto più condizionata dalla coscienza collettiva. Per cui, ciò che sostanzialmente proponevo nella "fuga a tempo" era un invito a riflettere quanto i così detti vissuti soggettivi fossero, per così dire, non immuni da tale tradizione a cui tutti apparteniamo, me compreso ovviamente, la quale coglie solo un lato dell'esperienza. 2
Tradizione che non riguarda, perciò, solo l'atteggiamento mentale dell'egocentrismo dell'uomo occidentale, tipico del colonialismo e della stragrande maggioranza delle teorie antropologiche ed etnologiche, ma il fatto che tale atteggiamento è per noi "naturale", dato dal "senso comune", e legato ad un concetto di esperienza formatosi sul modello di quello scientifico.
A testimonianza di quanto fosse difficile liberarsi di questo atteggiamento oggettivante, sottolineavo, in quello scritto, che il concetto di viaggio è solo occidentale, così come l'idea di un "altrove" nasce solo da chi pensa con nostalgia che esiste qualcosa di originario da ritrovare, una natura selvaggia, la Wildnis, oramai persa irrimediabilmente nella nostra civiltà.3 Una dimensione originaria, legata al mondo istintuale, che il nostro processo di civilizzazione ha represso a vantaggio di una evoluzione culturale e un comune senso del pudore molto più raffinato.
Anche il linguaggio usato per raccontare l'esperienza del viaggio, rispecchia con la sua forma immaginifica un pensiero che vede l'esperienza fondata su un concetto di verità dato dalla corrispondenza fra rappresentazione mentale e realtà; una realtà colta dai viaggiatori con le immagine fissate nelle fotografie che dovrebbero liberare l'esperienza dall'irreversibilità del tempo cronologico.
Non a caso diciamo "ho fatto" un'esperienza, piuttosto che "ho avuto" un'esperienza, che, come sottolineavo anche nell'articolo scritto nell'ultimo numero di "Aperture", significa un modo di esperire completamente diverso da quello cumulativo, usato giustamente nella conoscenza scientifica. La lingua tedesca possiede, per questo, a differenza di quella italiana, due parole diverse a significare l'inconciliabilità fra due tipi di esperienze che di per sé non sono opposte, ma complementari: erfahrung, per l'esperienza cumulativa ed erlebnis, per il vissuto dell'esperienza soggettiva.4
Una complementarietà che si perde, ed è questa la tesi che sostengo, nella unilateralità di un vissuto "naturale" e irriflesso, dove a prevalere è proprio l'esperienza cumulativa, per cui ciò che è scontato non si impone solo nella dimensione collettiva, ma anche in quella individuale.
Una dimensione che riduce l'esperienza ad una sommatoria, che mortifica i vissuti di ciascun individuo, in quanto tale atteggiamento mentale rappresenta questi vissuti in modo identico a quello usato per le "cose" di cui si prende possesso.
Perciò, più che non essere immuni dai condizionamenti della tradizione culturale, si è ingabbiati in un modo di pensare che "getta", come scrive Martin Heidegger, l'uomo occidentale in una condizione di "non-libertà" e di "in-autenticità". Un atteggiamento mentale che "esportiamo", nel vero senso della parola, purtroppo anche quando viaggiamo.
In onore alla rivista che ci ospita, va ricordato che il concetto di "Apertura" fu pensato da Heidegger proprio per indicare la possibilità che è data all'essere umano di sfuggire a questa logica, che egli chiama del "Man" (in italiano viene tradotto con il "Si" impersonale, usato per dire: "si dice, si pensa, si crede, ecc.). L'uomo occidentale, pur essendo "gettato" in un mondo che lo precede, per cui gli sono propri i pre-giudizi, le procedure, i criteri di valutazione e le norme, è però anche "aperto", unico fra gli esseri che vivono in questo mondo, alla libertà di scegliere fra più possibilità, a più aperture storiche, a più modi di pensare e a diverse forme di vita.
L'autenticità dell'individuo dipende perciò, secondo Heidegger, dalla sua capacità di scegliere fra queste "aperture" che gli sono offerte, e di non rimanere ingabbiato nella sola possibilità di vivere quell'unica esperienza che abbiamo chiamato "naturale" proprio perché si apprende "naturalmente", senza esserne consapevoli. L'esperienza naturale quando rimane separata dall'altra faccia della medaglia rappresentata dal senso soggettivo getta l'uomo in una non autenticità, i suoi vissuti, infatti, sono ridotti da questo modo di pensare a una fra le tante cose del mondo di cui si può prendere possesso, senza mai purtroppo "averle".5
L'autenticità e l'in-autenticità dipendono, quindi, dalla capacità dell'uomo di sfruttare le opportunità che gli sono date, unico fra gli esseri di scegliere come vivere la vita piuttosto che essere vissuto dalla vita. Questa è la differenza fra autenticità e in-autenticità, e questa differenza è quella che distingue coloro che dicono sempre "si", dissolvendosi in identità scontate e collettive, e quelli che, come i "poeti", scriveva ancora Heidegger, sospendono il modo "naturale" di pensare per aprirsi ad un diverso modo di "avere" esperienza.6
E' ovvio, che quando Heidegger descrisse le categorie esistenziali dell'essere umano per pensare quale potesse essere la sua autenticità in un mondo che omogeneizza tutto, non aveva in mente nessun modello caratterologico della persona. Così come non proponeva nessuna ideologia rivoluzionaria né tanto meno indicare una nuova utopia, il suo è un messaggio che vede l'uomo, a differenza degli animali, come quell'ente che può progettarsi e non rimanere ingabbiato in un destino già scritto.
Prima di Heidegger, la stessa tensione, l'aveva espressa Soeren Kierkegaard riscoprendo la categoria della "possibilità" che la Cristianità aveva abolito con Sant'Agostino, che aveva affermato il primato della predestinazione dove tutto è già contemplato come disegno di Dio, e niente può essere lasciato al "caso" o all'arbitrio dell'uomo.7
Se per Kierkegaard, però, la "possibilità" è solo una prima tappa per arrivare alla concretezza della vita su cui realizzare lo spirito universale, per Musil L'uomo senza qualità sarà solo l'uomo del possibile; l'unico in grado di "incontrare" un senso irriducibile al pensiero oggettivante.
"Se il senso della realtà esiste - scrive Musil -, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci deve essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità".8
Con queste parole Musil "apre" all'essere umano una dimensione che va oltre la rappresentazione di una realtà vissuta e rappresentata in senso oggettivo, cercando di mostrare le enormi conseguenze che comporta un simile cambiamento nell'atteggiamento mentale. Una vera e propria rivoluzione, non fondata però né su un'utopia né tanto meno su una ideologia: "l'altro stato" cui giungono Ulrich e Agathe non è né il "Paradiso" di Anders (come inizialmente Musil aveva chiamato Ulrich) né la società socialista di Marx, ma una casa con giardino dove fratello e sorella iniziano a riflettere su l'altra esperienza.9
Un'esperienza che Ulrich/Musil chiamerà "essenziale", nel senso che coglie, con una visione d'insieme, le due metà di cui è fatta l'esperienza: quella reale e quella fantasmatica.
In una intervista rilasciata nel 1926 Musil precisò cosa intendeva per fantasmatico. "La spiegazione reale dell'avvenimento reale non mi interessa - disse -. Ho cattiva memoria. Inoltre i fatti sono sempre intercambiabili. Mi interessa ciò che è spiritualmente tipico, vorrei dire anzi: il fantasmatico dell'avvenimento".10
Il fantasmatico è dato dal colpo d'occhio, dal primo sguardo, nell'istantaneità dell'attimo che subito si perde, ma che rappresenta il "senso del possibile" proprio perché non è stato ancora sopraffatto dal pensiero oggettivante; non è ancora diventato esperienza della coscienza.
Il "senso del possibile" a cui allude Musil non va confuso con il "progettarsi ipotetico" del pensiero calcolante, in quanto è quell'apertura allo stupore che per i Greci rappresentò l'inizio della filosofia. In altre parole, l'esperienza della natura selvaggia non è pensata in opposizione al concetto di Civiltà, se così fosse non sarebbe che l'altra faccia della stessa medaglia, ma come un qualcosa che completa e arricchisce la nostra esperienza della realtà esterna.
I naviganti e gli alpinisti, come anche però i poeti e gli artisti e i monaci che vivono negli eremi, conoscono molto bene l'esperienza della natura selvaggia perché per loro rappresenta non un terreno da conquistare, ma un "limite" dove soggiornare di tanto in tanto. Heidegger parla di un orizzonte da dove guardare, ma potremmo citare anche Leopardi, in cui l'esperienza del senso comune della coscienza collettiva viene, per così dire, sospesa per ascoltare e cogliere un'esperienza "essenziale", data da un senso vissuto soggettivamente. Un senso che non riguarda la sfera cognitiva, il cui compito come sappiamo è quello di ordinare attraverso i concetti il materiale appreso dai sensi, ma un senso che la precede e che appartiene a quegli attimi dell'apprensione in cui ci si può fermare; come per esempio avviene nella dimensione estatica o nell'esperienza del vuoto della cultura orientale.
Riassumendo, il "fantasmatico", l'apertura al "possibile" può essere esperito solo se all'esperienza cognitiva e oggettivante (Erfahrung), che nessuno nega, viene rivalutato un momento passivo, una sospensione che apre ad un senso (Erlebnis) che la rappresentazione occulta, sia nella successione temporale che la caratterizza sia nel "si" impersonale delle coscienze collettive.
L'etimologia della parola tedesca Erfahrung, non va dimenticato, deriva proprio da "viaggiare" (Fahren) per cui è nei viaggi, più che in altri eventi, che è possibile "ri-scoprire" quel senso emotivo senza il quale una vera cognizione non può avvenire.11

1 - F. Bellotti, Fuga a tempo, ALP Grandi Montagne, n. 18, CDA & Vivalda Editore, 2003; pp. 48-50.

2 - Katja Gaschler, Tra avventura e relax. La psicologia del turista; in Mente & Cervello, n. 9, maggio- giugno 2004; pp. 24-29. La Gaschler introduce l’articolo sulla psicologia del turista con una citazione che riassume il senso della sua analisi e che ricalca, su un piano di psicologia cognitiva, ciò che io avevo sostenuto e sostengo su un piano filosofico. La citazione è dello scrittore Theodor Fontane e recita: "Per undici mesi si deve vivere, nel dodicesimo si vuole vivere: ogni esistenza prosaica agogna una volta l’anno trovarsi in fioritura poetica".

3- Basti pensare a Totem e Tabù e al Disagio della Civiltà di Freud, ma anche a tutta la concezione freudiana dell’uomo, che lo vede appunto dominato dal conflitto fra la Civiltà e la sua origine istintuale. Sul piano sociologico questa posizione è sostenuta da Teodoro Adorno e Max Horkheimer della Scuola di Francoforte (Lezioni di sociologia, Utet, 1966) e da Norbert Elias, La civiltà delle buone maniere, Il Mulino, 1982.

4 - F. Bellotti, Il disagio dell’uomo moderno è ancora provocato da un conflitto?, "Aperture" n. 16, 2004; p. 103. A questo saggio rimando pure per il concetto psicologico di "antinomia", su cui appunto si fondava l’argomentazione per un superamento dell’idea del conflitto, come momento fondativo del disagio psichico

5 - M. Heidegger, Dell’essenza della libertà, in Segnavia, Adelphi, 1987; p. 143-145.

6 - M. Heidegger, Perché i poeti?, in Sentieri Interrotti, La Nuova Italia, 1984; pp. 247-297.

7 - A. Magris L’idea di destino nel pensiero antico. Da Platone a S. Agostino, vol. II, Del Bianco Editore, 1985; p: 873 e seg.

8 - R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, 1957; p. 12.

9 - "E’ questione di sentimento! – disse Ulrich ad Agathe – di cui la nostra struttura intellettuale non può fare a meno. Questa frase … divide nella vita ciò che deve essere da ciò che può essere. Divide l’ordine stabilito da uno spazio sgombro riservato ai giochi personali". Ivi, p. 990. Aldo Gargani (Lo stupore e il Caso, Editore Laterza, 1986) commentando quest’aspetto di Musil scrive: "Le lacune, gli abissi, i salti che attraversano l’esistenza e la conoscenza umane pongono l’esigenza di stabilire un nuovo rapporto tra l’intelletto e il sentimento. … Sentimento e intelletto si compenetrano nell’esperienza esistenziale". (p. 108)

10 - Citata in Cesare Cases, Nota introduttiva a R. Musil, op. cit.; p. XXX. Cfr. anche A. Tatossian, Edipo in Kakania. Kafka, Musil e Freud, Bollati Boringhieri, 2002; p. 57.

11 - Dopo che Joseph Le Doux nel 1996 ha pubblicato Il Cervello emotivo (Baldini & Castoldi), dimostrando che la divisione della mente dalle emozioni era stata un operazione tutta mentale e idealistica, e da allora molta acqua è passata sotto i ponti, tutti sappiamo che i processi cognitivi sono strettamente collegati al mondo emotivo; e in particolare alla prima impressione quando l’intelletto non è ancora intervenuto con le sue divisioni e messe in ordine.