L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Art e Dossier (2003 - 2005) Anno 20 Numero 215 ottobre 2005



Grande mela anni Ottanta

Gianni Mercurio



ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Il nuovo ritmo del Novecento
Elisa Guzzo Vaccarino
n. 217 Dicembre 2005

Il tema della discordia
Paul Lang
n. 216 novembre 2005

Tradizione e Innovazione
Anna Maria Ruta
n. 214 settembre 2005

Con gli occhi di Alice
Marina Pugliese
n. 213 luglio/agosto 2005

Realta' intensificata
William Feaver
n. 212 giugno 2005

Attraverso il Novecento con filosofia
Marco Cianchi
n. 211 maggio 2005


Keith Haring, Senza titolo (1984), collezione privata.

Keith Haring, Senza titolo (1982), collezione privata.

Keith Haring, Senza titolo (1988), collezione privata.

Approdato giovanissimo nella New York di Warhol, della musica pop e del rap, degli yuppies e dei graffitari, Haring si inventa un linguaggio epressivo vigoroso e personale, ispirato alla simbologia delle culture tribali ma con un occhio alle leggi del marketing, incarnando così lo spirito di un’epoca.

"I buy values, not fashion" (Io compro valore, non moda) è la frase che i collezionisti che non vogliono rischiare ripetono di fronte a quei fenomeni di artisti che assurgono rapidamente e non senza controversie ai vertici della popolarità e del mercato dell’arte. Qualcosa del genere, “fashionable but not valuable”, molti pensarono di Keith Haring quando comparve sulla scena poco più che ventenne all’inizio degli anni Ottanta; ancora oggi Haring viene da alcuni considerato un artista “light”, nel senso di uno che non ha inciso nella storia dell’arte. Nella mostra milanese della Triennale, voluta e pensata da Chrysler Italia nell’ambito del suo progetto di promozione dell’arte contemporanea, a distanza di quindici anni esatti dalla scomparsa di questo grande artista americano se ne mette in evidenza la profondità del messaggio, del progetto e delle radici culturali, se ne ricostruisce il pensiero e il gesto, che in modo personalissimo percorrono la storia dell’arte da protagonisti.
Un elemento che ha portato negli ultimi anni a una riflessione e una rilettura del progetto artistico di Haring, e dei suoi esiti, è stata la diffusione dei suoi Diari. "I Diari(*) di Keith Haring rivelano un poeta e un umanista che quasi per caso è anche un artista di avanguardia, una persona che è arrivata a dominare completamente la propria arte; che allarga i nostri orizzonti mentali e visivi. La lettura dei Diari di Keith Haring è stata la fonte di un flusso continuo di emozioni. Di volta in volta vi ho trovato i pensieri di molti dei miei filosofi, artisti e poeti preferiti", sono le parole di Arturo Schwartz nel suo bellissimo saggio nel catalogo della mostra.
Alla fine degli anni Settanta, quando Keith Haring arriva a New York dalla Pennsylvania (lo stesso stato in cui Andy Warhol era nato e cresciuto) all’età di quasi vent’anni, la Grande mela è sull’orlo della bancarotta; il Comune viene salvato da un intervento del governo centrale americano, ma la città è drammaticamente divisa in ricchissimi e poverissimi, in lusso e degrado, in glamour ed emarginazione, in uptown e downtown come non mai nella sua storia.

Una città, due anime

Questa è anche la doppia anima del mondo dell’arte a New York: da un lato l’establishment delle star della 57a strada (principalmente i divi della Pop Art) e dall’altra un popolo di creativi che avevano segnato il loro territorio intorno ai quartieri di Soho e dell’East Village, ispirandosi idealmente e socialmente allo spirito controculturale della Beat Generation; tra questi i graffitisti.
I graffitisti, comparsi sulla scena di New York all’inizio degli anni Settanta, attraversarono un periodo “duro” come appunto fu quella decade, partirono dai quartieri neri di Harlem e italiani del Lower East Village e mantennero dei raggruppamenti in “scuole”, che erano una derivazione artistica dei raggruppamenti in “gangs” dei ragazzi di strada degli anni Cinquanta. La loro arte fu quindi storicamente dura, contro, illegale per vocazione, tendente all’uniformità dello stile come segno di appartenenza identitaria.
Il graffitismo è la modalità di arte urbana a cui spesso e volentieri Keith Haring viene associato. Al contrario, noi riteniamo – ed è questa la nostra tesi – che il suo rapporto con il graffitismo debba essere visto in modo più labile, nonostante alcuni punti di contatto e la condivisione del medesimo milieu culturale urbano.
Sono altri i riferimenti artistici a cui Haring si richiama, e per lo più interni alla storia dell’arte contemporanea (Pierre Alechinsky, Jean Dubuffet, Christo, Matisse, l’Action Painting). Diversamente, dal punto di vista dell’arte “off” il suo debito più diretto è verso la scena psichedelica, come egli stesso ribadisce in più occasioni nei suoi Diari e in diverse interviste. È accomunabile invece alla scena graffitista per altre cose: il forte senso di appartenenza comunitaria, l’atletismo spinto e la dinamicità delle sue opere, l’idea che i lavori dovessero essere completati in un’unità compressa di spazio e tempo (e il più delle volte fatti nel corso di un’unica seduta), l’afflato controculturale, l’ascolto continuo del rap.
L’incontro più fecondo è stato con William Burroughs, l’anima più radicale e maledetta della Beat Generation, erede diretto della tradizione postsurrealista, ma il fondale politico-immaginativo di Haring era un mondo affastellato di Walt Disney, autostop, Grateful Dead, Beat Generation, mobilitazione contro la guerra in Vietnam e contro Nixon, il profeta dell’LSD Timothy Leary e lo zen di Alan Watts.
La psichedelia ebbe un ruolo straordinario nella sua formazione: prendendo sostanze stupefacenti è come se – racconta Haring – le cose, le forme psichedeliche rispondessero a una sorta di scrittura automatica proveniente dall’inconscio. L’arte attraversa Haring, quasi fosse un veicolo, per portare in superficie i grandi simboli dell’immaginario collettivo e dell’inconscio dei popoli. In una prospettiva del genere appaiono armoniche e organiche in lui le influenze pittoriche, messe in evidenza da molti critici, provenienti dalle culture mesoamericane, africane e oceaniche. L’altro punto che lo collega strettamente a Burroughs (ma anche Timothy Leary) è sicuramente la sua attenzione verso un’arte multimediale. Per lungo tempo – come emerge chiaramente nei suoi Diari – aveva pensato e progettato un’arte che assorbisse e riunisse in un unicum modalità estetiche e performative di media diversi. La sua era una riflessione nel suo tempo.

Un brand artistico

Oggi appare chiaro quanto poco a che vedere avesse l’arte di Haring con il graffitismo: la sua è una prospettiva di artista individuale, con la volontà di costruire sì un’arte per tutti, ma con un linguaggio nuovo, personale, unico, una specie di “brand” riconoscibile alla maniera di Warhol ma con un progetto più artistico, più “idealistico” e universale di quello del suo maestro. "La storia dell’arte è sempre stata e sempre sarà il prodotto di un individuo [...] l’arte è individualità". Il suo retroterra giovane e la sua curiosità culturale, la sua ideologia artistica prima che politica, il caso e il temperamento, lo portano a comunicare la propria arte nei tunnel della metropolitana; si tratta di una consapevole scelta strategica di autopromozione. Haring infatti non interviene con i suoi “graffi” sui vagoni della metro e rarissimamente sui muri degli edifici – i suoi murales e le sue opere pubbliche sono un’altra cosa –, e occupa unicamente lo spazio destinato alla pubblicità, quello che gli esperti direttori di marketing sceglievano per reclamizzare i prodotti. La sua arte è morbida, si comunica con la seduzione del messaggio e utilizza la forza comunicativa del graffitismo e i suoi strumenti per scardinare l’ingresso al sistema dell’arte, racchiuso allora quasi esclusivamente nelle gallerie e nel ricco collezionismo che abitavano a Est di Central Park.
L’anno che cambia la vicenda artistica di Keith Haring è certamente il 1982, quando Tony Shafrazi, un ex artista armeno che aveva clamorosamente oltraggiato con lo spray Guernica di Picasso, conosce il suo lavoro nella subway, al PS1 e al Club 57 e lo porta via dal sottosuolo di New York.

Il pop-shop

Haring diventa un artista celebre nell’era degli yuppies e come i “ragazzi prodigio” consulenti finanziari di Wall Street conosce il successo giovanissimo. Quando Haring nel 1986 apre a New York e Tokyo il Pop-Shop, che considera un esperimento artistico, ha ben presente la lezione di Warhol sulle nuove possibili strategie di comunicazione degli artisti: "La filosofia che è dietro al Pop-Shop è questa: volevo continuare con uno stesso tipo di comunicazione come avevo fatto con i subway drawings"; dopo la Factory, quella del Pop-Shop fu la seconda invenzione da parte di un artista per diffondere, attraverso la riproducibilità, la propria arte anche come stile di vita e messaggio all’umanità.
L’idea di un’arte universale è per Haring un progetto di un’arte che si fonda su un forte interesse per l’estetica della decorazione coincidente con quella delle correnti postmoderne degli anni Ottanta e inoltre sul tentativo di decostruzione dell’oggettività (le sue opere infatti sono deliberatamente “untitled”) in nome della soggettività dello spettatore (le idee dell’artista non sono fondamentali per dare senso all’opera). Diversamente è lo spettatore a diventare artista, nel senso che elabora un proprio percorso, che è unicamente suo.
Haring persegue con decisione gli obiettivi del proprio lavoro: sul piano artistico fondamentalmente opera una riduzione di forme e concetti a elementi primari del segno e un’identità tra pittura e scrittura; collegandosi a un sistema espressivo ispirato anche da geroglifici egizi e pittogrammi giapponesi o cinesi, maya o indios, approda a una comunicazione formale attraverso una sintassi dei segni. Determinate opere, come per esempio The Radiant Child, concepito nello stesso anno di ET di Steven Spielberg, con il quale condivide il messaggio sull’eternità dell’universo dell’infanzia, o le figure zoomorfe e antropomorfe, diventano un bagaglio di termini che secondo differenti assemblaggi danno vita a un sistema di relazioni e quindi a un linguaggio che non si appropria della realtà, come fu per i Pop, ma crea una sua realtà, un linguaggio diretto e sintetico capace di colpire al cuore delle giovani generazioni.
L’arte esiste per Haring come risposta immediata alla vita, per rappresentarla dai piccoli ai grandi temi con il ritmo frenetico del nostro tempo; da qui anche l’importanza per Haring del movimento e l’esuberanza visiva delle sue installazioni – con una forte componente “atletica” della sua arte, vitalizzata dalla musica e in particolare dai ritmi hip hop. La grande serie dei Ten Commandments fu realizzata per la mostra di Bordeaux in meno di tre giorni e concepita il sabato notte precedente ballando al Paradise Garage.
L’arte è il tempo che passa e ogni momento è diverso da quello precedente, l’arte come la vita va vissuta attimo per attimo. "Penso, sento, agisco e vivo diversamente ogni giorno, ogni istante […] dipingo in modo diverso ogni giorno […] i miei dipinti sono la registrazione di un lasso di tempo […] dipingere in modo diverso ogni giorno rende impossibile realizzare una composizione impegnativa lungo un arco temporale che dura più di una seduta."
In un’epoca – gli anni Ottanta – che consapevolmente rifiuta la validità delle grandi narrazioni che avevano guidato l’azione umana negli ultimi due secoli, Haring si staglia come lo “Zeitgeist”, lo spirito del tempo, fragile e bambino della nuova fase storica, un vero e proprio artista dell’istante, come peraltro drammaticamente è stata la sua vita.