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Art e Dossier (2003 - 2005) Anno 20 Numero 216 novembre 2005



Il tema della discordia

Paul Lang

Contraddizioni stilistiche e ideologiche nell'arte che si confronta con l'estetica e la musica di Richard Wagner



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Kolo Moser, Il viaggiatore (Wotan), 1918; Vienna, Wien Museum.

Jean Delville, Parsifal, 1890; collezione privata.

Anselm Kiefer, Sigfrido dimentica Brunilde, 1975; collezione privata.

Contraddizioni stilistiche ma anche ideologiche animano il filone artistico che,
a partire dagli anni Cinquanta dell'Ottocento fino all'età contemporanea, ha scelto di confrontarsi con l'estetica e la musica di Richard Wagner. Una mostra a Ginevra ne propone una lettura critica.

Il Musée d'Art et d'Histoire di Ginevra ha progettato e realizzato una mostra incentrata sulla risonanza dell'opera di Richard Wagner nelle belle arti. Un percorso, sia tematico sia cronologico, che conduce dalla pittura degli anni Cinquanta del XIX secolo fino all'arte contemporanea, e mette chiaramente in risalto la persistenza e l'universalità di una preoccupazione, tanto più evidente in quanto il tema riaffiora in ogni epoca e scuola pittorica, dagli Stati Uniti d'America alla Russia, e dalla Catalogna all'Inghilterra.
La problematica del concetto di “pittura wagneriana”, che tende a individuare in modo univoco una corrispondenza tra la pittura e l'estetica del compositore, rappresenta uno dei poli essenziali di questo progetto. Non convince quindi l'identificazione esclusiva dell'universo wagneriano con un solo movimento artistico, nella fattispecie il simbolismo. Non sono comunque mancate rivendicazioni in questo senso, come quella famosa del fondatore della “Rivista wagneriana”, Edouard Dujardin, che nel 1923, trattando del Maestro di Bayreuth, sosteneva che «la sua concezione dell'arte, la sua filosofia, la sua stessa formula erano all'origine del simbolismo».

- Un confronto emblematico

La mostra si apre sul confronto tra due effigi del musicista, contemporanee l'una all'altra, opere di artisti tra loro tanto diversi come Auguste Renoir, l'impressionista francese, e Franz von Lenbach, il ritrattista emblematico della Germania guglielmina. Le contraddizioni stilistiche, iconografiche, perfino ideologiche connesse all'assunzione dell'estetica wagneriana da parte dei pittori sono confermate, a titolo d'esempio, dal confronto tra la Visione del Venusberg da parte di una personalità singolare come Henri Fantin-Latour (1886, The Cleveland Museum of Art) e la stessa scena di Tannhäuser raffigurata da uno dei rappresentanti più significativi della grande pittura accademica monacense, Gabriel von Max. Il secolo dopo, nel 1943, George Grosz, in esilio negli Stati Uniti, si riappropria dell'universo del compositore tedesco, in nome dell'indefettibile appartenenza alle sue origini germaniche. Raffigurandosi come Wotan errante, l'artista proscritto si oppone al recupero della cosmogonia wagneriana da parte della barbarie nazista. Il suo Viaggiatore (Memorial Art Gallery of the University of Rochester), intessuto di riferimenti alla pittura romantica tedesca, annienta il miraggio di un Hugo Hodiener, paesaggista e membro convinto del partito nazionalsocialista fin dal 1930. Oggi, nell'anno del sessantesimo anniversario della liberazione dai campi di concentramento, il confronto doloroso tra due appropriazioni tanto diverse sembra in qualche modo indispensabile. Da Franz von Stuck ad Arno Breker, passando dalla Marcia funebre del Crepuscolo degli dèi avallata da Stalin per accompagnare i funerali del suo predecessore, lascia perplessi la volontà di erigere Sigfrido a figura esemplare. La conoscenza dell'Anello del Nibelungo avrebbe dovuto portare certi dirigenti a riconoscere nell'«eroe più sublime del mondo» un essere quanto mai manipolabile e corruttibile, l'incarnazione stessa del fallimento.
Altro punto di forza della mostra è la ricostituzione della galleria di Hans Makart conservata al Museo d'arte straniera di Riga, per la quale la forma del ciclo – alla maniera delle Shakespeare e Milton Galleries di Johann Heinrich Füssli – è sembrata quanto mai appropriata al fine di rendere il concetto di cosmogonia wagneriana. L'insieme, concepito intorno al 1883 dal grande pittore austriaco che più di ogni altro seppe esprimere le infatuazioni della Vienna imperiale, troverà echi alla fine del XX secolo in una serie aperta, elaborata sul Parsifal da Markus Lüpertz. Il culto del genio si associa in modo naturale alla figura del compositore; nel XIX secolo prende vita una forma di agiografia artistica che sarà resa di volta in volta in chiave ironica dalla matita di Friedrich August von Kaulbach, deferente dal pennello di Maurice Denis, astratta da Antoni Tapiès e ambivalente con Alfred Hrdlicka.
Trovano dunque spazio nella mostra i più svariati movimenti dell'arte occidentale: l'impressionismo di Renoir, il simbolismo di Odilon Redon, senza dimenticare il secessionismo viennese di Kolo Moser, i Nabis (Maurice Denis, Félix Vallotton), l'espressionismo, fino al surrealismo di Salvador Dalí.
Non mancano poi artisti contemporanei come Malcom Morley e Anselm Kiefer, e tra questi anche l'olandese Armando, che al di là del punto di vista illustrativo, in un'opera come Paesaggio colpevole (1976), mira a evidenziare i passaggi decisivi della Tetralogia. Egli raffigura infatti un paesaggio in cui è stata spezzata l'armonia della natura universale, da quando Wotan, per foggiare la propria lancia e prendere il potere, ha inciso il frassino del mondo.

- L'infatuazione per il vandalo

Separata dai dipinti narrativi, una parte significativa delle opere esposte appartiene alle arti grafiche e alle stampe. Compagna di Orfeo, la figura wagneriana in quest'arte di fine secolo diventa archetipo del poeta e del musicista. Di fatto, artisti come Odilon Redon, Jean Delville, Fernand Khnopff o Henri de Groux hanno conservato solo la testa del loro eroe, come quella di Orfeo trasportata dalle acque verso Lesbo. Staccata dal corpo, e dunque libera da ogni contingenza, anche la voce di Lohengrin, di Parsifal o di Isotta si fa sentire al di là della morte.
L'onda wagneriana ha poi investito anche le arti applicate, come mostrano a titolo indicativo un vaso di Daum su cui è raffigurato il duo d'amore di Tristano e Isotta, e un arazzo di Isidoro ed Hélène de Rudder.
La mostra si allarga infine su una sezione musicalista, in cui sono esposte opere di artisti (come Gauguin o Kandinskij) che, senza aver illustrato il dramma wagneriano, si sono interessati alla concezione teorica ed estetica del compositore nel suo rapporto con il concetto di arte totale.
Questa infatuazione, tanto duratura quanto universale, sorprende ancora di più quando si pensi che a suscitarla è «il Vandalo che dopo un anno di permanenza a Parigi non è ancora riuscito a visitare il Louvre». Considerata in sé, «la pittura [...] non tocca per niente» il promotore della fusione delle arti. Un paradosso non trascurabile, sul quale si fonda la prospettiva di questa mostra, la quale non pretende di esaurire l'argomento, ma certo intraprende una riflessione sulle ragioni della spettacolare fortuna iconografica delle gesta wagneriane. Non dimentichiamo che le prime manifestazioni di tale risonanza si collocano nella seconda metà del XIX secolo. La pittura storica, ormai destinata a perdere una supremazia a lungo indiscussa, tenta di rinnovare il repertorio. Il genere al vertice dell'arte pittorica inizia in quegli anni a mettere da parte i soggetti tradizionali. Così, un artista come von Max, alla ricerca di nuovi “exempla virtutis”, opportunamente rimpiazza Didone ed Enea con Venere abbandonata da Tannhäuser.
All'inizio del XX secolo, Otto Julius Bierbaum osservò che una rappresentazione teatrale non poteva per natura riuscire a rendere le caratteristiche dell'opera wagneriana. Da quel momento, la pittura appare in qualche modo come il mezzo privilegiato per rimediare a tale presunta deficienza intrinseca. Il Maestro di Bayreuth, e in seguito altri direttori d'opera come Gustav Mahler, ingaggiarono dunque pittori a pieno titolo come Joseph Hoffmann, Paul von Joukowski, il secessionista Alfred Roller, e più di recente David Hockney, a spese della corporazione degli scenografi teatrali.
Da Charles Baudelaire a Pierre Boulez, il carattere visivo della musica di Wagner è stato evidenziato spesso. Di fatto, al di là dell'illustrazione del dramma wagneriano, se spogliate di ogni orpello e senza considerare gli aspetti narrativi, certe realizzazioni tendono all'astrazione. I colori rarefatti di artisti come Tapiès o Kiefer partecipano di questa ascesi. Lo scopo di un'opera come Sigfrido dimentica Brunilde è anche quello di dar vita a un eccezionale esercizio di pittura.
Paul Lang