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Around photography (2004-2009) Anno 3 Numero 9 Maggio - Settembre



La fotografia entropica di Robert Smithson

Pier Francesco Frillici



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Robert Smithson. Nonsite "Line of Wreckage" Bayonne,
New Jersey, 1968, particolare

Robert Smithson. Yucatan Mirror Displacements ,1969

Robert Smithson. A Nonsite Franklin,
New Jersey, 1968

L’ipotesi tanto affascinante quanto enigmatica che fa dell’entropia la variabile ineliminabile nella poetica di Robert Smithson inaugura il suo laboratorio sperimentale a Passaic nel New Jersey alla fine degli anni sessanta.

Nel 1967 esce sulla rivista “Artforum” The Monuments of Passaic, un articolo a metà strada fra il reportage di viaggio e il racconto letterario, dove l’artista diagnostica con sorprendente precisione il fenomeno della deriva entropica.
Non spiega le cause e non propone rimedi, ma, con una perizia obiettiva da far invidia a Robbe-Grillet, estende il referto visivo dei sintomi.
Le manifestazioni allarmanti di questo ineluttabile processo vengono localizzate in una lunga serie di architetture civili e di infrastrutture industriali cresciute in maniera vertiginosa quali: ponti d’acciaio, pompe idriche, tubature di scarico, conglomerati abitativi in espansione, parcheggi abnormi e varie altre costruzioni simbolo della civiltà contemporanea ma anche preludio, a causa dell’incessante desertificazione del territorio e dell’impoverimento delle risorse organiche, di un prossimo ritorno ad uno stadio primordiale della vita sulla terra. Questi nuovi monumenti per il futuro che avanza sembrano al tempo stesso diventare rovine che procedono a ritroso verso il passato remoto. Il metodo di individuazione fotografica scelto dall’artista fa da cassa di risonanza agli effetti smisurati e disseminati della crescita entropica. Smithson teorizza un uso della macchina fotografica come protesi in grado di amplificare e accelerare la percezione dei cambiamenti fisici in corso.
Come accade in Invito a una decapitazione, il romanzo di Nabokov in cui le illustrazioni di un giornale inducono il protagonista, isolato dal mondo nella solitudine del carcere, a determinare l’esistenza della realtà esterna attraverso la simulazione fotografica, durante il viaggio a Passaic Smithson si sente immerso in una duplice esperienza della realtà: una diretta e concreta, e un’altra differita e potenziata all’interno delle immagini. La presenza di questa sorta di doppio binario scorrerà lungo l’arco di tutta la sua attività artistica e le conferirà una costante identità fotografica.

Come anticipato in precedenza1 l’alta variabilità entropica non consente mai una visione sintetica e omogenea del mondo, ed ogni tentativo di affermarla rischia di trasformarsi in finzione velleitaria. Il rilevamento fotografico deve articolare la sua azione indicizzante attraverso una ripetizione di tante pause istantanee che mirino a sospendere il flusso dei dati registrabili, ma non a sublimarlo in una congiunzione fra l’attimo visivo singolare e l’equilibrio geometrico permanente come teorizzerebbe Cartier-Bresson. Al contrario, secondo Smithson, qualunque intervento che pensi di tener conto della mutevolezza dei fenomeni non potrà mai accettare qualsivoglia regola o controllo da parte di un soggetto, di un codice o di una norma, piuttosto dovrà provvedere al loro annullamento.
Di conseguenza questi esperimenti fotografici portano alla ridefinizione del paesaggio: da prodotto di un modello di rappresentazione precodificato, o “previsualizzato” dall’esterno – come direbbe Ansel Adams – ad effetto di una performance in “tempo reale” tra il soggetto e lo spazio. L’azione svolta da un punto di vista interno e la posizione totalmente casuale del soggetto rovesciano qualsiasi parametro prospettico tradizionale. L’immagine fotografica non racchiude più un predeterminato “close landscape”, ma dischiude un “open landscape”, di cui, data la refrattarietà ad ogni sintesi razionale, può essere restituita soltanto la massa delle tracce, delle stratificazioni materiche, la sequenza parziale e discontinua delle impronte fotografiche.
Ecco che Smithson per differire e replicare l’esperienza in re escogita un congegno da situare all’interno di una galleria. Il non site, composto in generale da carte topografiche, fotografie, diagrammi e strutture contenenti reperti materiali provenienti dalle operazioni eseguite sul campo, dimostra di mantenere un alto grado di continuità con le morfologie di stampo minimalista, ma, soprattutto, da prova di esibire un massimo grado di contiguità con il site, ovvero con il luogo reale da dove traggono necessariamente origine tutte le componenti presenti nell’allestimento. Sia nella relazione connettiva fra le singole parti e sia nella relazione fra lo spazio espositivo e lo spazio referente prevale quella che potremmo chiamare la logica dell’indice.

Charles Sanders Peirce ha considerato l’intero processo della significazione e della conoscenza come un insieme di segni che intrattengono tra di loro particolari relazioni modali, una delle quali stabilisce connessioni di fatto con qualcosa di esistente. Questa funzione specifica Peirce la assegna al segno-indice. Esso però è parte integrante di una tricotomia segnica più complessa a cui va aggiunta l’icona, che stabilisce rapporti di similarità con l’oggetto referente, e il simbolo, che invece riguarda la rappresentazione convenzionale e le prerogative simboliche del medesimo oggetto.
I tre livelli coesistono, ma ogni processo di significazione può dare maggiore rilievo ad uno rispetto agli altri. Per il filosofo americano il concetto di realtà è sempre il frutto di una tensione fra qualcosa che può essere afferrato e poi istantaneamente rinviato lungo la catena della significazione; in definitiva, l’esistenza risulta dalla presenza di qualcosa che è “qui e ora” ma che si sposta verso l’assenza nella mediazione segnica.

Nell’oscillazione perpetua fra astrazione, il luogo del segno, e concretezza, il luogo dell’oggetto referente, si svolge la vicenda del senso. L’arte di Robert Smithson, in modo analogo, teorizza identiche pratiche conoscitive. Prendiamo ad esempio Nonsite, Franklin, New Jersey, del 1968. Cinque casse trapezoidali piene di pietre raccolte dalle cave locali, vengono collocate sul pavimento vicino a una parete su cui sono stati riportati un testo informativo e cinque fotografie aeree della cittadina americana, di taglio geometrico analogo alla forma dei contenitori. Le immagini e gli oggetti seguono lo stesso ordine dispositivo e lo stesso schema formale componendo così un triangolo con sommità tronca.
Alle singole immagini corrisponde sia una parte del “luogo” che del “non-luogo”. Inoltre il testo aggiuntivo spiega come i prolungamenti delle linee di fuga formate dalle fotografie vadano a congiungersi in un punto corrispondente nella realtà esterna a una piccola strada cittadina che soltanto una “visita mentale” può consentire allo spettatore di raggiungerla.

Il principio dell’indicalità è molto evidente negli oggetti materiali prelevati e nelle fotografie in quanto, in entrambi i casi, essi denotano quella che potremmo chiamare, secondo un lessico barthesiano, una relazione metonimica con un unico referente.
Meno palese, ma altrettanto efficace è l’operazione indicale esercitata in sinergia con le mappature. Sempre stando alla semiotica di Peirce in quest’ultime dovrebbe affermarsi il carattere iconico-simbolico. Ma anche in questo caso la codificazione forte è secondaria rispetto al segno cartografico inteso come coincidenza punto per punto fra il luogo reale e il luogo astratto. In un certo senso è come se la carta funzionasse da trascrizione speculare di un’ipotetica fotografia aerea di tutto il territorio sottostante.
Secondo Peirce l’icona non obbliga il referente ad esistere, resta da esso massimamente autonoma e denota solamente un certo grado di somiglianza, qualità, invece, non indispensabili per le mappe le quali sono impensabili e inutilizzabili al di fuori di un circuito referenziale esistente. In altre parole la loro legittimità semantica è data dalla loro pragmatica. Analogamente va intesa la modalità di produzione dell’indice, segno che sussiste in virtù della sua processualità e non dei risultati prodotti. La facoltà indicale della mappa, alla pari di quanto sostiene Philippe Dubois per la fotografia2, esercita un principio di attestazione perché registra un’avvenuta collusione esistenziale con un referente singolare e determinato e, inoltre, designa un atto di percorso, un attraversamento fisico realmente verificatosi sul territorio rappresentato.

Nel caso di Nonsite “Line of Wreckage” Bayonne, New Jersey, sempre del 1968, accanto ad alcune sequenze di scatti fotografici troviamo una lunga porzione di mappa, identica nel formato e nelle misure alle strisce delle immagini. Entrambi i segni forniscono dati informativi che asseriscono l’esistenza dell’oggetto referente ed entrambi consentono di riposizionare il fruitore all’interno di un identico spazio referenziale. Quindi, sebbene il loro carattere formale sia finito, circoscritto e bidimensionale: schematico e planimetrico quello della carta, inquadrato e frammentato quello delle fotografie; rinviano sempre ad un’azione compiuta in un luogo esistente.

Le peculiarità indicali del non-site: logica dell’estrazione, del contatto, del calco, della stratificazione dei materiali grezzi ready-made, della contiguità mondano-esistenziale, trovano, grazie alla funzione mediatrice del mezzo fotografico, una connessione e una conferma. Infine, va ricordato che la presenza dell’immagine fotografica annuncia un risvolto affascinante e al tempo stesso paradossale nel concetto stesso di non-site perché evoca, per assonanza, la locuzione “non-sight” facendo allusione ad una contraddittoria auto dichiarazione di invisibilità. Ma questo, in realtà, non contraddice affatto quanto affermato chiarito in precedenza. Anzi, Robert Smithson, da convinto detrattore delle teorie sulla rappresentazione del paesaggio che evitano di trattarne la condizione entropica, l’essere cioè entità in continua trasformazione, postula una visione in negativo, data dall’alternanza di due poli antitetici. Se può esserci un’idea di paesaggio o di immagine del paesaggio essa può soltanto insistere su una tensione dialettica non sintetizzabile né riducibile se non attraverso l’enunciazione del suo processo. L’esistenza del luogo si verifica soltanto nella sua assenza, nel non luogo in cui si effettua l’esame delle prove e degli indizi risultanti dal processo entropico costitutivo.

Come abbiamo più volte menzionato questa nuova concezione del paesaggio ambientale, riformulata mediante i segni di propagazione diretta del reale, è disseminata e processuale ed ogni tipo di intervento registrativo su di essa può compiersi soltanto in modo dinamico: spedizione, viaggio fisico, ricognizione in situ, raccolta e presentazione dei reperti.
Tuttavia la procedura può essere anche invertita. Dal prelevamento si può passare al “dislocamento”, basta spostare il sistema interno, il non-site, portandolo a contatto con il Site esterno.
Yucatan mirror displacements del 1969 è costituito da una serie di fotografie scattate in nove posti differenti lungo il percorso seguito durante un viaggio in Messico nei quali Smithson ha seminato alcune tracce artificiali. I vari paesaggi attraversati riflettono e trasformano la loro immagine frammentata nelle superfici di dodici specchi collocati in varie posizioni. Lo spazio mutante non ammette visioni integrali. L’artista ribadisce questa asserzione mediante il responso discontinuo riportato dalle superfici riflettenti che, a loro volta, si confermano omologhe alle tracce memoriali fotografiche inserite nei non-sites. Come se non bastasse, di nuovo a sostegno dell’interscambiabilità funzionale, Smithson elabora un’interessante operazione intitolata Six Stop on a Section, di cui, come per i mirror displacements e i non-sites, ne esistono varie versioni in cui le foto realizzate nei siti ove avvengono le prove di spostamento sono successivamente ricollocate al posto degli specchi. Tali “photo markers” permettono a una singola registrazione eseguita nel passato di riconnettersi senza interruzioni al flusso della temporalità presente.
In Smithson, ad una fase indoor, in situ, succede sempre, senza soluzioni di continuità, una fase outdoor, ex situ, di allontanamento paradossale dalla natura e di avvicinamento al museo, come se si trattasse di due facce girevoli di un’unica medaglia. Tutta la sua poetica rimbalza come un boomerang fra questi due poli, innescando un cortocircuito dialettico fra dentro e fuori, azione e rappresentazione, opera e comportamento.


NOTE
1 Vedi “Around Photography” n. 07, Ottobre-Dicembre 2005
2 Philippe Dubois, L’atto fotografico, Quattroventi, Urbino 1996