Janus (2006-2010) Anno 7 Numero 20 giugno-dicembre 2006
Intervista a Luca Vitone
Giovanni Iovane (Salerno, 1959) professore di storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Brera, critico e curatore indipendente incontra Luca Vitone (Genova, 1964) sulle tracce delle sue geografie e delle sue storie.
Un’intervista che ripercorre le tappe della ricerca di uno degli artisti italiani piu' rappresentativi della sua generazione, attratto dal senso dello spazio e del movimento, dal viaggio e dalla conoscenza come strumenti di approfondimento e riflessione. Carte geografiche e planimentrie, ma anche canti popolari e souvenirs di viaggi memorabili sono alcuni degli oggetti che compongono l’universo di un artista camminatore, attento ai particolari ed ai dettagli che spesso sfuggono allo sguardo dei fruitori di mezzi di locomozione sempre piu' veloci e impersonali.
Luca Vitone e' nato a Genova nel 1964. Vive e lavora a Milano da circa quindici anni. Tra le sue ultime mostre personali, Io, Roma Magazzino d’Arte Moderna, Roma; Prét a' porter, Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato; L’Ultimo viaggio, Galleria Franco Soffiantino, Torino. Tra le collettive, Less, PAC, Milano ; Metropolitanscape, Palazzo Cavour Torino; Translation on the real, Kettle’s Yard, Cambridge; Inhabituel, Centre culturel francais de Milan. Vincitore del Dena Foundation for Contemporary Art nel 2002.
Andre' Gide ha scritto, piu' o meno, che la geografia e' tutto. Sin da tuoi esordi l’attenzione alla geografia e' stata una costante. Penso alla tua prima personale in una galleria genovese alla fine degli anni ‘80.
Per la mostra alla Galleria Pinta di Genova ho realizzato, mediante fotocopie, la planimetria in scala 1:1 di quello spazio espositivo. Si trattava di una sola stanza di circa tre metri per sei e la planimetria era poggiata sul pavimento.
Si trattava di un lavoro che risentiva delle “misurazioni” concettuali di artisti, ad esempio, come Mel Bochner?
Non esattamente. Sicuramente il mio lavoro era influenzato piu' dall’arte concettuale che dal ritorno alla pittura in voga in quegli anni. Tuttavia, la mia intenzione originaria era quella di sottolineare, alla lettera, un’idea di luogo o meglio la sua assenza. Camminando sulle fotocopie che tracciavano la planimetria dello spazio espositivo si voleva spiazzare lo spettatore dando un’idea di spaesamento. Si trattava di mettere in scena un rapporto differente e non diretto con il luogo. Il fatto stesso di camminare su delle fotocopie implicava la trasformazione del luogo in un suo simulacro.
Quindi, carte alla mano, anzi ai piedi, non si fa in tempo a identificare lo spazio che questo diviene un altro luogo, un altrove.
In effetti la particolare lettura della planimetria a terra prevedeva anche una seconda fase ove il visitatore lasciava l’impronta del suo passaggio sulla carta. A mostra conclusa le fotocopie sono state plastificate formando un quadro di cm 600x381. L’immagine e' stata presentata in altri spazi espositivi, diversi dalla Galleria Pinta. Una volta esponendo la galleria con le sue dimensioni reali all’interno di un’altra galleria e una seconda attraverso una sua moltiplicazione, un multiplo, una fotolitografia cm 50x70. In realta' e' proprio il camminare sulla planimetria a concretizzare un’idea di luogo.
Anche a diversi anni di distanza, l’intervento esterno, sia esso dello spettatore che meramente accidentale, sembra essere un elemento essenziale per il completamento dell’opera. Penso alla serie dei quadri Io, Roma del 2005 in cui sono gli agenti atmosferici a disegnare il quadro.
La serie di quadri Io, Roma sono degli autoritratti di citta'. Ho disposto delle tele bianche di differenti dimensioni in alcuni luoghi urbani per un certo periodo di tempo. Attraverso il depositarsi delle polveri e il succedersi degli eventi atmosferici ho in un certo senso invitato Roma ad autoritrarsi. Questi quadri inoltre sono una sorta di riflessione, di ripensamento sulla pittura, attraverso uno dei modelli piu' praticati nel 900, il monocromo.
Le polveri, gli agenti atmosferici sono una sorta di pigmento, anzi in realta' sono un antipigmento, sono dei monocromi costituiti da quel materiale da cui solitamente viene difeso il quadro, l’elemento che alla sua presenza viene prevista la pulitura.
Camminare sulle fotocopie di una planimetria o aspettare che una citta' depositi il proprio ritratto non sono azioni riflessive. E’ come se quello che definisci luogo abbia bisogno di un seguito, di una continuazione fuori del tuo controllo per essere definito come tale. Maurice Merleau-Ponty, in un libro abbastanza difficile, Fenomenologia della percezione (1966) ha scritto che “ogni sensazione reca in se' il germe di un sogno e di spersonalizzazione”. In tal senso potremmo parlare di sensazione di un luogo.
Quando parlo di luogo non mi riferisco a una specie di spazio con una sua determinazione precisa, culturalmente o geograficamente identificabile.
Sia esso lo spazio di una galleria, che una citta', che una carta geografica, tutti questi cominciano per me a diventare luoghi quando vengono svuotati sia dei loro segni convenzionali che dei loro stereotipi culturali.
Nel progetto riguardante le Carte Atopiche, tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90, ho sottratto i toponimi a una carta geografica rendendone impossibile l’interpretazione. In Il luogo dell’arte (1991-1994) ho esposto in fotocopia le piante di 83 gallerie internazionali senza nominarle, rapportate nella stessa scala e omologandone i segni architettonici, in pratica annullandone le differenze si trasformavano in luoghi anonimi.
Nel 2000 al Palazzo delle Esposizioni di Roma e nel 2002 al Lenbachhaus di Monaco ho presentato una porzione di una creuza genovese, (tipica strada originariamente extra urbana che porta dai monti al mare) con i suoi caratteristici mattoni e ciottoli di fiume, all’interno di una delle sale espositive. Per completare l’effetto Genova ( che e' la mia citta' natale e dove ho trascorso l’adolescenza), il tragitto che il visitatore era invitato a percorrere su questa realistica pavimentazione era accompagnato dal profumo del mare sparso da alcuni diffusori. Anche in quest’ultimo lavoro, volutamente autobiografico, si rimanda a una spersonalizzazione dell’oggetto. Una spersonalizzazione meno analitica forse, forse piu' libera e gestuale.
In effetti sembra che il camminare sia una delle tue azioni preferite.
Penso al video Usuale (1995) dove hai filmato il cammino che a quel tempo percorrevi per recarti dalla tua abitazione allo studio, o piu' in generale, a Percorsi privati (1994-1999) un’opera che si compone di 21 disegni che riproducono piante di citta', eseguiti da diverse persone e raffiguranti il percorso per arrivare da un luogo a un luogo.
Si', camminare mi piace molto o forse ci sono costretto visto che non ho la patente; anzi no due anni fa ho preso quella californiana a Los Angeles.
Mi piacciono gli spostamenti, sia quelli di senso che, letteralmente, i viaggi.
Una mostra che ho realizzato nel 2005, nella galleria Soffiantino a Torino, s’intitolava proprio L’ultimo viaggio. Oggi, nonostante l’economica facilita' di spostamento e la quasi illimitata disponibilita' d’informazioni e immagini che ci sono offerte dai media e specialmente da internet e' diventato quasi impossibile compiere un vero viaggio. Un viaggio di stampo iniziatico, dai tempi dilatati, per intenderci via terra o per lo meno non aereo, simile a quelli che si facevano fino agli anni ‘70 per raggiungere l’India. Molti Paesi oggi ci sono preclusi a causa dei conflitti, delle tensioni, di una politica della diffidenza, sostanzialmente per la paura dell’altro. Basti pensare all’Iran, all’Iraq o all’Ucraina. Cosi' per quella mia personale ho voluto ricostruire il mio primo e forse ultimo grande viaggio che ho fatto nel 1977 in macchina, con i miei genitori, fino al Golfo Persico. Siamo partiti da Genova con una Peugeot 204 Break, rossa; quel viaggio duro' due mesi. In mostra ho ricostruito un simulacro del viaggio: ho ritrovato una originale Peugeot 204, che ho esposto con il radiatore fumante. Il pavimento della galleria e' stato ricoperto di sabbia e su una mensola ho disposto sette oggetti che avevo conservato di quel viaggio. Infine ho esposto cinque paesaggi fotografici e un autoritratto sul ponte di Galata a Istanbul.
Uno degli aspetti piu' interessanti del tuo lavoro mi sembra essere proprio questa tua continua volonta' di ricostruire una geografia culturale che si sovrappone alla muta morfologia delle citta'. All’architettura materiale contrapponi una rete di rapporti, apparentemente invisibili, che tuttavia formano la storia, l’archeologia e il presente del nostro abitare un luogo. Penso ai tuoi lavori sulle “sonorizzazioni” e specialmente alle ultime, quella realizzata per la tua mostra al PS1 nel 2000, dove dallo scavo provenivano canti olandesi del XVII secolo insieme ai canti degli indiani d’America Lenapi che abitavano Manhattan, i primi conquistatori e i vinti. O, ancora a quella piu' complessa in Lussemburgo, all’esterno del Casino' Luxembourg (2001) dove dalla buca scavata fuoriuscivano musiche di Franz List sempre attraverso casse acustiche nascoste.
Quella sonorizzazione alludeva a diversi livelli: storici, culturali e naturalmente geografici. Dal paesaggio artificialmente romantico della vallata che si ammira all’esterno del Casino', alla figura di Liszt che proprio nel Casino' tenne il suo ultimo concerto dieci giorni prima di morire. Al fatto che Liszt e' annoverato tra gli autori romantici, che aveva immesso nella sua musica diversi elementi provenienti dalla tradizione popolare e infine che questo grande compositore amava spesso rimaneggiare e trascrivere brani di altri musicisti suoi contemporanei. Si tratta di un lavoro legato alla memoria del luogo e ad un procedimento di montaggio, quasi mimetico.
Mi piace lavorare su diversi livelli.
Uno dei tuoi lavori piu' noti, e' Wide City (1998). e' uno dei pochi lavori di arte contemporanea presenti nella collezione permanente delle Civiche Raccolte d’Arte di Milano. Pensi sia un’opera che possa riassumere una stagione del tuo lavoro?
Non so cosa possa riassumere, ma sicuramente si e' trattato di un progetto fortemente legato a Milano, alla citta' in cui abito da diversi anni. Il lavoro parla di un modo di viverla e si compone di un modellino della Torre Velasca come simbolo della milanesita' del Novecento che dispensa cartine contenenti informazioni e indirizzi sulle attivita' delle diverse comunita' straniere che operano a Milano, circondata da centottanta foto che documentano il “paesaggio” multietnico della citta'.
Il progetto e' legato all’idea di attraversamento della citta', cosi' come a Basilea, nel 1996 e a Roma nel 1997, con il lavoro Liberi Tutti! collocando delle bandiere rossonere in luoghi cittadini segnati dal “passaggio”, nel passato e nel presente, del movimento anarchico: sedi di circoli e di periodici, luoghi di assembramento, bar, ristoranti e altre attivita' economiche gestite da cooperative legate al movimento libertario, abitazioni, centri sociali o sedi di sindacato.
L’altro, lo straniero, l’emarginato, l’invisibile sono i toponimi che riconfigurano le mappe di una citta'. Si tratta di un lavoro di scambio, di diversa collocazione e talora di trasformazione di un simbolo in un altro piu' efficace o semplicemente dimenticato come con le bandiere che sono antibandiere come quelle degli anarchici o dei Rom.