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Eikon(2007) Anno 1 Numero 1 gennaio 2007



Immagini cristiane delle origini

Flaminio Gualdoni

Sotto le immagini senza realtà, egli riconosce la verità



I temi e le idee dell'arte
Editoriale
di Flaminio Gualdoni

Immagini della fede
di Timothy Verdon

Figure delle origini
di Flaminio Gualdoni

Ingegneria delle anime
di Krzysztof Zanussi

Michelangelo e il suo fotografo
di Walter Guadagnini

Il Cristo risorto di Fazzini
a cura di Emanuela Agnoli


Guardare ascoltare leggere
di Emanuela Agnoli,
Franco Fabbri, Daniela Ferrari,
Chiara Gualdoni,
Umberto Re
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Papa Gregorio Magno scrive alla fine del VI secolo: “Nelle Chiese viene usata la pittura affinché gli analfabeti possano leggere con gli occhi sulle pareti ciò che non sono in grado di leggere sui libri”. E’, questo, il momento dell’affermazione definitiva del Cristianesimo: ma la funzione didattica delle immagini ha una radice più antica e controversa, che intreccia strettamente la propria storia con quella stessa della nascita della chiesa romana.
In Roma, capitale imperiale, la dizione “cristiani” prende a circolare, in senso dispregiativo, verso il 43 a proposito dei seguaci di “un certo Gesù, morto, che Paolo sosteneva essere ancora in vita” (At 25,19). Già nel 49 si ha notizia di disordini tra gruppi di ebrei e di cristiani: è da considerare che, nei primi decenni, la predicazione cristiana (kérygma) si rivolge all’interno della comunità ebraica, della quale si sente ed è percepita come una minoranza.
Roma assume, per la forza simbolica del martirio di Pietro e Paolo e dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70 da parte di Tito, il ruolo di centro guida della cristianità, ed è in Roma, immersa nella sofisticata cultura visiva ellenistica, che matura la necessità e il progetto di un insegnamento dottrinale che ricorra anche alle immagini.
E’ ben vero che, sia per il retaggio della legge mosaica sia per il peso del platonismo nella cultura greco-romana, per lungo tempo nella stessa chiesa si moltiplicano le posizioni contrarie all’uso delle immagini.
Nel II secolo l’apologeta Aristide si chiede: “Quale onore possiamo dare alla divinità, essenzialmente invisibile, attribuendole un corpo visibile?”; e su posizioni affini, preoccupate di tentazioni idolatriche, sono tra gli altri autori come Ireneo di Lione, Tertulliano e Clemente Alessandrino, il quale riprende da Platone la condanna degli artisti come creatori di immagini ingannevoli. Per Origene, poi, l’immagine di Dio può inverarsi solo nell’uomo che si rende santo, così come perfetta immagine vivente di Dio è stato il Salvatore: l’uomo, dunque, è l’unica scultura possibile del divino.
Tuttavia la chiesa romana, che dopo l’editto di Milano del 313 di Costantino e Licinio si rivolge ormai a tutta la cittadinanza dell’impero, non può non fare i conti con una cultura in cui il valore delle immagini è fondativo dell’identità stessa: il sorgivo culto romano delle immagini degli antenati, la narrazione visiva delle res gestae, il perfetto apparato di simboli – cui lo stesso Costantino non si sottrae affatto – che fa dello stesso ritratto imperiale un’immagine divina, inducono a elaborare una strategia iconografica appropriata e agguerrita, in aperta competizione con l’arte pagana tanto quanto con essa contaminata.
Se ancora il sinodo di Elvira, in Spagna, all’inizio del IV secolo stabilisce che “picturas in ecclesiis esse non debere”, se ancora all’inizio del V sant’Agostino bolla di superstizione i “picturarum adoratores”, è proprio un amico di Agostino, Paolino da Nola, a far dipingere nella nuova basilica di Nola e in una chiesa a Fondi le storie di Giobbe, Tobia, Giuditta ed Ester, oltre che i simboli della Trinità e un Cristo figurato come agnello con la croce: perché, egli sostiene, “chi le guarda nutre la sua anima fedele con immagini che non sono inutili se, sotto le immagini senza realtà, egli riconosce la verità”.
D’altronde lo stesso sant’Ambrogio, vescovo di Milano, che interviene con piglio anti-idolatrico presso Valentiniano II impedendo la collocazione di una statua della Vittoria nel senato romano, anni prima aveva redatto o autorizzato una raccolta di iscrizioni in metrica, facilmente memorizzabili, che illustravano le pitture della basilica ambrosiana.
Se dunque solo nel V secolo le immagini sacre con scopo didattico appaiono con certezza nelle chiese, la palestra in cui la parlata figurativa ellenistica si trasforma, per metamorfosi concettuale prima ancora che formale, in arte cristiana, sono le catacombe.
Qui il linguaggio ellenistico romano viene assunto in chiave di espressione dei nuovi contenuti religiosi, con una serie di operazioni iconografiche chiare e determinate cui corrisponde un evidente disinteresse formale, risiedendo il valore fondamentale dell’immagine altrove rispetto alla sua sostanza estetica. Ciò è tanto più importante dal momento che il senso di superiorità che anima in questo momento i cristiani rispetto ai professanti altri culti è proprio l’adesione fideistica, che si contrappone alle pratiche formalistiche ed estetizzanti dei culti pubblici e privati, a forte componente mondana, presenti in Roma.
Una gran parte del repertorio iconografico che orna pittoricamente le catacombe è di matrice ellenistica romana, resa evidente anche dalle partizioni architettoniche delle superfici, come dall’uso romano orientalizzante discende quello dei sarcofagi marmorei istoriati a rilievo e quello delle figurazioni parietali in rilievo a stucco. Del resto la tradizione etrusca, e poi romana, riservava all’arte funeraria un ruolo centrale, nella prospettiva di una vita oltre la morte simboleggiata dai mitici Campi Elisi: quindi le botteghe artistiche romane cui i primi cristiani si rivolgono possiedono un’esperienza tecnica e un repertorio iconografico facilmente trasferibili, a prescindere dai casi di conversione delle maestranze stesse.
Pressoché inesistente è la statuaria, alla cui diffusione ostano sia ragioni di destinazione funzionale sia, in grado forse maggiore, resistenze ideologiche dovute a motivi di convivenza con un impero che della statuaria celebrativa e divinizzante, dunque schiettamente idolatrica, ha fatto uno dei propri capisaldi culturali.
La pittura delle catacombe e i sarcofagi a rilievo presentano una serie di simbologie in gran parte tratte dal naturalismo e dalla decorazione vigenti, con una trattazione stilistica essenziale e tendente allo schematismo.
Simbolo chiave è il monogramma di Cristo, nascente dalla sovrapposizione delle lettere greche X e P (rispettivamente chi e ro), iniziali della parola Christòs. All’uso originario della lingua greca appartiene anche la raffigurazione schematica del pesce il cui nome greco, ichtùs, è l’acrostico della formula Iesùs Christòs Theòu Uiòs Sotèr, Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore. Altri segni schematici sono la coppia di lettere greche alfa e omega, prima e ultima lettera dell’alfabeto, evocanti l’ “io sono il principio e la fine” dell’Apocalisse di Giovanni; il cosiddetto nodo di Salomone, motivo di due anelli di catena incrociati ortogonalmente; e soprattutto, naturalmente, la croce, in fogge diverse.
Non è superfluo osservare che l’uso di acrostici e di giochi visivi con elementi verbali, spinto sino ai carmi figurati, è di tradizione colta tipicamente alessandrina.
Tali simboli si affiancano a estrapolazioni iconografiche dal repertorio romano corrente, il cui carattere decorativo, quindi concettualmente neutro, poteva essere volto a un reimpiego religioso.
Temi di generica derivazione ellenistica sono l’agape, raffigurazione di banchetto simboleggiante il senso comunitario dei primi gruppi cristiani, ed evocante la cena eucaristica del Vangelo; l’orante a braccia aperte, simboleggiante l’anima nella pace divina, altrimenti figurata come la mitica Psiche; l’ancora, simbolo di salvezza raggiunta; la navicella, indicante la chiesa; l’albero della vita.
Ricco è il repertorio animalistico, in cui il gusto suggestivo ellenistico, specializzato in bestie esotiche, lascia luogo alla predilezione per animali domestici, ma con una ricca possibilità di declinazioni simboliche. L’agnello è simbolo cristologico per eccellenza, e ad esso si affiancano l’ape e l’aquila, il cervo e il pavone, il pellicano e il delfino: specifica diffusione hanno la colomba, che si abbevera o porta un ramo d’olivo nel becco, simbolo dell’anima nella pace divina, e la fenice, mitico animale che risorge.
Tra i temi vegetali spiccano la vite, legata alla tradizione dionisiaca e trasferita a simbolo cristologico ed eucaristico, e l’edera, sacra a sua volta a Dioniso/Bacco e riportata a simbolo cristiano di eternità. La sovrapposizione tra la figura di Gesù Cristo e la figura di Bacco, dio legato alla morte e rinascita stagionale della natura, è corrente, proprio nella chiave dello schema morte e resurrezione e nella ricchezza delle metafore vegetali delle Scritture. Analogamente, una identificazione complessa avviene tra le figure di Gesù Cristo, il Davide biblico e il mitologico Orfeo, Davide essendo musico e pastore, e il musico Orfeo essendo colui che scende vivo agli inferi.
Il Buon Pastore è figurazione che riprende il motivo del moscoforo, l’addetto a portare sulle spalle il vitello nel rito sacrificale: sostituita una pecora al vitello, il soggetto diviene una delle immagini cristiane per eccellenza.
Altre figurazioni sono invece di concezione nuova, in un repertorio che attinge all’Antico Testamento e, inizialmente in misura minore, al Nuovo: resurrezione di Lazzaro, guarigione del paralitico, battesimo di Gesù Cristo, tra gli altri, in chiave di nascita alla nuova vita.
E’ in questo ambito che si fissa l’iconografia stessa di Gesù Cristo, sia nella versione giovanile dell’efebo di bell’aspetto, sia in quella più matura di filosofo barbuto. Allo stesso modo, l’iconografia di Dio come anziano e barbuto si sovrappone deliberatamente all’ascendente diretto di quella di Giove.
Alla luce di questa evoluzione ben si spiegano certamente, in seno al primo Cristianesimo, le preoccupazioni ricorrenti di un risorgere dell’idolatria, e le nascenti tentazioni iconoclaste nella chiesa orientale. Ciò che tuttavia è decisivo è che non la qualità e men che meno il linguaggio, ma il valore stesso, il senso dell’immagine si modifica con l’affermarsi di un’arte cristiana. Ed è questa la vera rivoluzione che chiude l’età antica.