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Titolo Anno 17 Numero 53 primavera/estate 2007



Alberto Garutti insegnante

Elena Di Raddo

L’aula nello spazio della vita.



Rivista scientifico-culturale di arte contemporanea


3 Editoriale
di Giorgio Bonomi
4 Alberto Garutti. L’aula nello spazio della vita
di Elena Di Raddo
8 Maestri come padri? In relazione ad alcuni modelli di analisi
di Francesco Tedeschi
14 Toti Scialoja nel ricordo di due allievi
di Bruno Ceccobelli e Marco Tirelli
16 Alik Cavaliere. Un maestro fuori dagli schemi
di Cristina casero
19 Concetto Pozzati. Un allievo di fronte ai propri allievi
di Elena Forin
22 Luciano Fabro, maestro
di Matteo Galbiati
25 Corrado Levi e la Brown Boveri nella milano degli anni 80
di Maria Garzia
28 Il gioco sapiente della seduzione, nel rapporto maestro/discepolo in architettura
di Valentina Ricciuti
31 Eugenio Battisti maestro di concretezza e di utopia
di Francesca Pola
34 Sui maestri della fotografia contemporanea
intervista di Francesca Mila Nemni a Roberta Valtorta
37 Quale formazione artistica? Riflessione minima per un problema sconfinato
di Claudio Cerritelli
40 I Musei esemplari d’ arte contemporanea
di Emma Zanella
42 Studio La Città ricomincia da tre
di Anna Longo
43 Maria Mulas a Londra. Quando la foto diventa racconto…
di Roberta Giaconi
44 I mutamenti di Monica Bianciardi
di Stefano Taccone
45 Three (imaginary) boys
di Marinella Caputo
46 Segnalazioni bibliografiche
di Giorgio Bonomi
48 Recensioni
di T. Antognoli, L. Caccia, E. Forin, M. Galbiati, R. Gianni, C. Marinelli, I. Stucchi,
F. Turchetto, L. Zaga
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Ai nati oggi
Gent(Belgio), Piazza Vrijdagmarkt
aprile 2000
opera realizzata in occasione della mostra Over the Edges S.M.A.K., Gent, a cura di J.Hoet e G. Di Pietrantonio


Che cosa succede nella stanza quando gli uomini se ne vanno?
2000-2005
legno più smalto fosforescente
foto di Marco Fedele di Catrano
courtesy RAM

Nell’intervento nella piazza di Gent la luce dei preesistenti lampioni è la vera protagonista dell’opera: ogni volta che nascerà un bambino negli ospedali della città essa aumenterà di intensità per poi decrescere lentamente. Questo progetto è stato realizzato anche a Bergamo, Istanbul, Roma, Gallipoli.

(…) Sento importante la dimensione dell’incontro all’interno del lavoro dell’arte, sia nella sua forma più classica (museale), che in quella contemporanea operante nel mondo urbano e sociale (post-museale). Anche le città, apparentemente freddi e cinici organismi in mutazione solo secondo caratteri funzionali, nascono e si sviluppano a soddisfare proprio un bisogno di relazione che non esito a definire una necessità, un bisogno sentimentale. Continuo a vedere nella figura dell’artista che è il primo vero spettatore, un interprete di questa nuova modalità dell’incontro tra umanità e pensieri di cui la società contemporanea sente forte l’esigenza (...)”1.

L’opera d’arte come lavoro condiviso è il presupposto della pratica artistica di Alberto Garutti ed è anche una perfetta definizione per la sua attività di insegnante all’Accademia di Bologna e poi di Brera a Milano. I suoi interventi artistici hanno tutti la primaria esigenza di instaurare un rapporto diretto con lo spazio e le persone che in quel luogo vivono. In alcune “ristrutturazioni sentimentali”2, ad esempio, tale esigenza è stata il punto di partenza del lavoro stesso: nella frazione di Peccioli a Fabbrica nel 1996-97 dove l’artista, coinvolgendo gli abitanti della piccola frazione, ha pensato la sua opera nei termini di un restauro della facciata e delle strutture degradate di un teatro, un tempo luogo di incontro della cittadinanza, risalente al 1928, o a Colle Val d’Elsa dove, con l’aiuto degli abitanti, ha ristrutturato un edificio del 1500 sede del gruppo musicale della città, la corale Vincenzo Bellini, recuperando così non solo la struttura fatiscente, ma la memoria storica ed emotiva del luogo.
Il bisogno di dialogo con il pubblico è evidenziato anche dalla presenza sul posto di targhe o scritte che spiegano i presupposti e le finalità dell’operazione. E in tal senso egli si distanzia da quanti nel mondo dell’arte contemporanea mettono l’artista su un piedistallo. A tale proposito si può ricordare l’opera realizzata da Garutti per la Nuova Cittadella della Giustizia di Venezia (2005) dove una didascalia spiega ai passanti il senso del lavoro: un sensore posto in cima a una struttura “ascolta i temporali” e provoca a ogni tuono l’accensione di una scritta luminosa che recita “la legge è uguale per tutti”. Le opere di Garutti non hanno nulla di improvvisato o troppo spontaneo, ma nascono dal dialogo con l’ambiente naturale, storico e sociale in cui si collocano, quindi da uno specifico approccio metodologico. Ed è questo metodo che le lezioni di Garutti intendono svelare ai suoi allievi. Egli stesso ha sottolineato come l’opera d’arte che si impone nei luoghi della vita quotidiana senza una riflessione critica è fondamentalmente vecchia “non tanto da punto di vista formale, quanto da quello metodologico” e ha definito la sua opera “un lavoro anche di metodo e sui procedimenti del fare. Il percorso realizzativo (l’insieme delle connessioni con la realtà) e il processo mentale che si antepongono alla realizzazione fisica del lavoro risultano così parte integrante e perciò non meno importanti dell’opera stessa”3.

Per un artista che per realizzare le sue opere procede a indagini di carattere sociale e storico al fine di generare un servizio culturale e “sentimentale” per i cittadini, ideali committenti delle sue opere, l’insegnamento non può che generare un confronto, appunto, sociale. È in questi termini che i suoi allievi degli anni Novanta hanno definito l’insegnamento di Garutti come un incontro, appunto, che ha portato a una mutazione non solo nel loro lavoro artistico, ma soprattutto nel modo in cui impostare la loro stessa vita in relazione all’arte. La conseguenza più diretta e più eclatante del suo periodo di insegnamento a Bologna, infatti, è stata la nascita di un gruppo di giovani che nel 1994 hanno deciso di condividere la loro professione, non lavorando insieme a progetti comuni, ma vivendo nella stessa casa, in via Fiuggi 12/74 a Milano: un ex spazio commerciale su due piani nel cui seminterrato gli artisti lavoravano insieme, confrontandosi tra di loro e con il mondo dell’arte. Proprio Garutti, infatti, li aveva spinti ad uscire dai loro studi, dalla loro città, per vivere direttamente le esperienze ed incontrare i protagonisti del mondo dell’arte. Così la decisione di trasferirsi a Milano, città negli anni Novanta attraversata da un fermento culturale particolare, è stata una naturale conseguenza, non premeditata, delle lezioni di Garutti, che nello stesso anno, tra l’altro, si era trasferito a Brera. Sarah Ciracì, Debora Logorio, Pietro Marchioni, Diego Perrone, Nada Cingolani, Gian-Maria Marcaccini, Stefania Galegati, Simone Berti, Giuseppe Gabellone, Alice Bonfanti costituiscono il nucleo originario del gruppo cui in seguito si sono avvicinati anche altri artisti, critici e galleristi che frequentavano lo spazio di via Fiuggi. Tra le prime uscite pubbliche è proprio una mostra curata da Garutti con Roberto Daolio in Via Farini dal titolo chiaramente ispirato alla scelta di vita dei suoi allievi We are moving.

Simone Berti che le lezioni di Garutti a Bologna non prevedevano l’esercizio tecnico del disegno, ma il dialogo e la discussione su temi legati all’arte e non solo. Un confronto con artisti, galleristi e critici e soprattutto tra allievi. Durante le sue lezioni sono intervenuti ad esempio Guenzani e Giacinto di Pietrantonio, curatore, tra l’altro insieme a Garutti di una mostra a Via Farini nel 1995 intitolata Transatlantico5, che raccolse le opere degli allievi dell’Accademia. Garutti inoltre “poneva l’accento sulla aspecificità dell’arte contemporanea sottolineando come nell’opera non importasse soltanto la tecnica, ma tutto ciò che la rivoluzione di Duchamp aveva comportato. E quindi anche il momento ideativo dell’opera”. A Bologna egli non aveva molti studenti dal momento che il suo arrivo in quella città era molto recente e il suo corso doveva competere con dei bolognesi “doc”, come Venturoli e Pozzati. Nonostante ciò, la sua capacità di coinvolgere i giovani, di stimolarli verso la realtà che li circondava ha colto nel segno, per quegli artisti più attenti ai nuovi linguaggi. Rispondendo a una domanda di Stefano Chiodi intorno agli anni dell’Accademia, Diego Perrone spiega che Garutti “aveva la capacità di tenerti per mano e dirti: ‘quella cosa lì si chiama arte e la puoi fare anche tu’. Questo mi ha dato una sicurezza e un vigore importanti per un giovane che si trova di colpo ad affrontare una situazione nuova: non ti ferma più nessuno soprattutto se incontri gente come te. Era formidabile: a qualunque ora si poteva parlare di arte perché eravamo assetati, avevamo una grande voglia di fare e ci sentivamo in grado di poterlo fare”6.
Forse l’insegnamento più “duro” e diretto — spiega Berti — è stato quello del confronto con i compagni chiamati a dare un’opinione sul lavoro di ciascuno. Ciò naturalmente comportava anche lo studio dello spazio in cui l’opera veniva collocata e la modalità di esposizione. Il rapporto dell’opera con lo spazio del resto è un aspetto essenziale anche del lavoro artistico di Garutti. La didattica è quindi in lui una conseguenza del lavoro artistico. Nonostante fossero raramente presentate quale motivo di confronto con gli allievi, le motivazioni di fondo delle sue opere ricorrono quali aspetti imprescindibili e fondanti della sua didattica. “Le sue lezioni a Bologna erano impostate come in un master. Ognuno portava un lavoro e lo installava come si fosse trattato di una mostra. Si installava con un certo rigore. Lo spazio doveva essere studiato con attenzione perché nulla interferisse con l’opera. Poi si dialogava su quelli che potevano essere i punti deboli del lavoro sia di tipo concettuale che linguistico. Era abbastanza pesante affrontare tale momento e sostenere le motivazioni del proprio lavoro”7. Nella casa di via Fiuggi i giovani artisti portarono lo stesso metodo di “studio” appreso durante le lezioni di Garutti: le discussioni, il confronto, la vita in comune nei luoghi dell’arte. Ed è stata proprio la particolarità di questa anomala “comune” a destare l’interesse di critici e galleristi nei loro confronti, spingendoli a cominciare a seguire il lavoro, anche molto diverso, di ciascuno di loro. Diego Perrone ora vive a Berlino come anche Debora Ligorio, Stefania Galegati si muove tra Roma e New York, Marchioni è tornato in Italia dopo un periodo vissuto a Londra, come è avvenuto anche per Nada Cingolani, ora a Recanati, Gabellone vive a Parigi, Marcaccini nelle Marche e Simone Berti è rimasto a Milano. In tutti il ricordo di un semplice insegnamento: fare arte significa uscire dal proprio studio per incontrare l’altro.


1 A. Garutti, Sull’incontro, 1998.
2 Così le definisce lo stesso Garutti in più occasioni.
3 Sull’incontro, cit.
4 La nascita di questa comunità di artisti è registrata nel 1996 da un articolo pubblicato da “Flash Art” dal titolo Via Fiuggi. “Next generation”, di Davide Bertocchi. “Flash Art”, anno XXIX, n. 196, febbraio-marzo 1996, pp. 78-80, 122.
5 La mostra è documentata anche da un video girato nel corso dell’evento che si è caratterizzato come un work in progress.
6 Cfr. Stefano Chiodi, Una sensibile differenza. Conversazioni con artisti italiani di oggi, Fazi editore, Roma 2006, p. 219.
7 Intervista rilasciata a Milano il 18 aprile 2007.