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Mousse Anno 2 Numero 10 settembre-ottobre 2007



I am not a photographer

Simone Menegoi

Joachim Schmid





INTERVIEWS
Tobias Buche
Athanasios Argianas
Jim Shaw

FOCUS
Joachim Schmid

ROBERT CRUMB
Crumbland

PORTFOLIO
Superm

STEVEN PARRINO
Greetings From Hell

JOE COLEMAN
A History Of Violence

THE COLORFUL APOCALYPSE
Revelation Revealed

MICHEL MAJERUS
Frenetic Stasis

CLIP STAMP FOLD
Radicalzines

HELIO OITICICA
Marginal Hero

SPECIAL GUEST
Seb Patane

ABY WARBURG
A Ghost Story For Adults

MARINE HUGONNIER
Interview

LUCA VITONE
Interview

DIEGO PERRONE
Notes From The Underground

INTRODUCING
Paolo Chiasera

SKELETONS IN THE CLOSET
Patrick Tuttofuoco

DUMBO AND BARRY MCGEE
Don’t Stop

LOST IN THE SUPERMARKET
News And Books

CORRISPONDENZE
Berlin Studio Visits
Paris-Milano
London - Milano
New York - Milano
Los Angeles - Milano

END OF A SUMMER
A Short Story
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Emily Pethick
n. 27 febbraio-marzo 2011


From the project
Photogenic Drafts,1991
Courtesy The Photographers' Gallery
London Draft #24,1991

Joachim Schmid
Pictures from the street (Bilder von der strasse),
n.75,Berlin, may 1990
Courtesy The Photographers' Gallery, London

Joachim Schmid
Arkiv n.74,1998
Courtesy The Photographers' Gallery,London

Non-fotografo. Qualcuno che non scatta fotografie, eppure con la fotografia ha a che fare. Se volete, il lavoro del tedesco Joachim Schmid è tutto qui. Non consiste nel produrre nuove immagini, ma nell’inventare delle strategie – sofisticate, rigorose, poetiche – per indurci a guardare le vecchie con occhi nuovi. E una delle strategie è quella di creare degli archivi, delle tavole comparative, degli atlanti. Parola magica per questo numero di Mousse: leggete l’articolo su Warburg e capirete perché. Ma non è solo per questo che abbiamo scelto di dare a Schmid l’onore del Focus. Forse non l’avete mai sentito nominare, ma questo non-fotografo è più bravo di tanti fotografi “veri” che girano nel circuito delle gallerie. Leggere per credere.


Nessuna nuova fotografia finché le vecchie non siano state utilizzate!”. È una frase pronunciata da Joachim Schmid nel 1989, in occasione del 150° anniversario della nascita della fotografia.
Ed è soprattutto il programma a cui Schmid stesso, come artista-fotografo, si è mantenuto fedele per venticinque anni, dedicandosi esclusivamente a cercare, raccogliere, selezionare, scartare, raggruppare e infine mostrare fotografie altrui.

Tutto ciò potrebbe anche essere il compito di un critico. E come critico, del resto, Schmid ha incominciato a farlo all’inizio degli anni ’80, quando scriveva per alcune testate specializzate e su un piccolo bollettino creato da lui stesso, Fotokritik (1982-88). Quest’ultimo diventò lo strumento per divulgare le scoperte che il giovane critico-editore faceva sulle bancarelle del mercato delle pulci berlinese di 17.Juni Strasse: fotografie amatoriali emerse da vecchi album di famiglia, cartoline di ogni epoca, immagini documentarie, figurine... In sostanza, con una scelta di campo già netta, tutto lo scibile fotografico che non è stato prodotto e consumato badando a fattori estetici, ma principalmente affettivi o pratici; l’immensa quantità di materiale che appartiene alla storia della fotografia come “storia sociale” (per dirla con Ando Gilardi), non come storia dell’arte. E mentre le immagini pubblicate su “Fotokritik” si emancipavano sempre di più dal testo, Schmid intuiva la possibilità di impiegarle in modo differente. Una possibilità attuata per la prima volta in alcune pubblicazioni a tiratura limitata realizzate insieme all’amico Adib Fricke alla fine degli anni ’80.

La più sorprendente di queste pubblicazioni è forse il portfolio Meisterwerke der Fotokunst. Die Sammlung Fricke und Schmid (“Capolavori della fotografia. La collezione Fricke e Schmid”), apparso proprio in quel 1989 che celebrava l’anniversario del medium; ed è anche l’esempio più adatto a spiegare perché l’attività di Schmid non poteva più restare confinata all’ambito critico. In apparenza, Meisterwerke der Fotokunst contiene una selezione di immagini inedite di grandi fotografi, da Eugène Atget ad August Sander. In apparenza soltanto, dato che non sono state scattate dagli autori a cui il portfolio le attribuisce. Si tratta in realtà di vecchie immagini di fotografi anonimi recuperate in giro, molto somiglianti nello stile a quelle dei maestri. Giocando sulla somiglianza, Schmid ha costruito accuratamente le false attribuzioni, inventando titoli ad hoc e date plausibili. Il gioco è talmente abile da aver generato seri equivoci, e perfino una causa legale (persa) da parte della fonda-zione René Magritte, che reclamava diritti d’autore su una presunta fotografia dell’artista surrealista contenuta nel portfolio.

Solo uno scherzo raffinato (e un po’ pericoloso)? L’operazione pone domande tutt’altro che superficiali sulla storia della fotografia, in primo luogo sui criteri con cui delimitiamo l’acropoli della ‘fotografia d’arte’ e la difendiamo dalle orde barbariche della fotografia amatoriale e commerciale. Certo, la grandezza di un Hansel Adams non è in discussione. Ma forse conviene ridimensionare il vecchio mito romantico dell’unicità del suo talento, se ci sono in giro fotografie amatoriali degli anni ’50 che possono abbastanza fa-cilmente passare per sue. Forse il suo sguardo deve più di quanto ci piace credere al clima e alla sensibilità della sua epoca, condivisi da migliaia di altri fotografi meno dotati di lui. E forse il nostro giudizio è condizionato dal peso di un nome ormai consacrato più di quanto ci rendiamo conto.
La passione di Schmid per gli incontri fortuiti con fotografie amatoriali ha dato vita in quegli anni anche a un’altra opera, opposta e complementare a Meisterwerke der Fotokunst. Si intitola Bilder von der Stra§e. (‘Immagini dalla strada’) e il titolo, questa volta, è vero alla lettera. Nessuna manipolazione, nessuna falsa pista: con una secchezza da artista concettuale degli anni ’70, Schmid ha disposto in ordine cronologico su fogli di carta da archivio tutte le fotografie che ha trovato per terra nelle strade di Berlino e delle città che ha visitato (Oxford, Rio de Janeiro, Parigi, Milano…). Cominciata senza ancora una finalità precisa nel 1982, la raccolta conta oggi novecento esemplari ed è tutt’ora in corso. Quasi tutte le immagini trovate sono dei ritratti; almeno la metà è strappata, e spesso non tutti i pezzi sono stati ritrovati. Ogni immagine è stata corredata di luogo e data, come nella fotografia classica. Ma in questo caso esse non segnalano le circostanze dello scatto (che restano sconosciute), bensì quelle del ritrovamento, in una specie di versione post-duchampiana del “momento decisivo” di Cartier-Bresson.

Spina dorsale dell’opera di Schmid, Bilder von der Stra§e può essere letta in molti modi. È un monumento al caso. È una specie molto particolare di diario. È un giacimento inesauribile di spunti narrativi: su molte delle immagini, sul perché sono state scattate (e buttate via), si potrebbe scrivere un libro intero di congetture. È un documento di sociologia della fotografia, dei cliché e dei luoghi comuni del suo uso di massa. Infine, e soprattutto, è un omaggio alla qualità ‘feticistica’ della fotografia analogica, al suo essere essenzialmente – come ricordava Roland Barthes in La camera chiara – una scia materiale lasciata da qualcuno o qualcosa su una superficie. Più un certificato fisico di esistenza che una rappresentazione codificata, più una reliquia che un’immagine. Per questo le fotografie trovate da Schmid attirano: perché sentiamo che sono la traccia – senza filtri estetici, sopravvissuta per caso – della vita di qualcuno. Per questo molte di esse sono strappate: perché qualcun altro ha voluto distruggere quella traccia, forse cercando di liberarsi di un ricordo.
L’omaggio di Schmid alla fotografia analogica in Bilder von der Stra§e è tanto più intenso in quanto essa, come fenomeno di massa, va scomparendo. Le fotocamere digitali e gli obiettivi dei cellulari non incidono indelebilmente l’immagine su una pellicola, non producono un negativo, non lasciano per le strade stampe cartacee destinate a caricarsi dei segni del tempo. E per cancellare una foto digitale basta premere un bottone. Schmid, che non è un nostalgico, ne ha tenuto conto: i suoi ultimi progetti si rivolgono alle nuove frontiere dell’immagine fotografica, il digitale e Internet. Beninteso, il genere di materiali prescelti è rimasto lo stesso. Ecco allora, per esempio, Menschen und Dinge. 853 Bilder fŸr die 21st Jahrundert (Uomini e cose. 853 immagini per il 21° secolo), uno slide show digitale che aggiorna e adatta alle nuove tecnologie il vecchio Arkiv cartaceo che l’artista aveva creato nei decenni precedenti. Su quattro schermi scorrono centinaia di anonime immagini trovate con Google e raggruppate per tema: ritratti di manager, immagini di cibi, still di telecamere a circuito chiuso, aerei in volo, ragazze in bikini… È una campionatura tanto ampia quanto ridicolmente piccola rispetto alle dimensioni del web, tanto sistematica nel metodo quanto casuale nel risultato, tanto rigorosa nella forma quanto banale nei contenuti. Un buon esempio, in sostanza, dell’impossibilità di riuscire a farsi un’idea esaustiva di quel duplicato del mondo
reale che è Internet.

Il lavoro di Schmid, ovviamente, non nasce dal nulla, né è assolutamente originale. Non pretende nemmeno di esserlo, dato che proprio il concetto di ‘originalità’ è uno dei suoi bersagli polemici. Sono molti gli autori e le opere che lo hanno influenzato, o ai quali può essere accostato. Il lavoro di appropriazione di fotografie banali e commerciali è stato intrapreso alla fine degli anni ’70 da artisti americani come Richard Prince, Barbara Kruger e Larry Sultan. Sherrie Levine ha rifotografato e presentato sotto proprio nome immagini celeberrime di Walker Evans e altri, creando un precedente fondamentale per ogni discorso critico/artistico sulla definizione di ‘autore’ in fotografia. La serialità e la struttura dell’archivio sono fondamentali per molta fotografia tedesca degli ultimi quarant’anni, dal lavoro dei coniugi Becher e dei loro allievi all’Atlas di Richter.

Sono tutti paragoni legittimi, compreso quello con Warhol, le cui serigrafie di immagini tratte dai quotidiani Schmid vide a sedici anni, e dalle quali si dichiara profondamente influenzato. Malgrado tutto, però, il lavoro dell’artista-fotografo tedesco resta inconfondibile. Per la sua continuità, per la fedeltà al metodo del ready-made fotografico, per un’idea ‘democratica’, non-gerarchica, della fotografia. (Un’idea che è anche un’implicita presa di posizione politica: non è un caso che l’artista, alla fine degli anni ’70, sia stato fra i fondatori del quotidiano tedesco di sinistra die Tageszeitung). Forse, più di tutto, Schmid si fa ricordare per la sua capacità di tenere conto sia dell’aspetto sociologico, quasi statistico, della fotografia come fenomeno di massa, sia del valore umano e psicologico che un singolo scatto può contenere. A volte questi due aspetti trovano un perfetto equilibrio all’interno dello stesso la-voro, come accade in Photogenetic Drafts (1991), bellissima serie che nasce da un altro scherzo concettuale. L’anno prima, Schmid si era inventato un fantomatico Istituto per il riciclaggio di fotografie usate e l’aveva pubblicizzato con un trafiletto che invitava istituzioni pubbliche e privati cittadini a spedirgli il loro surplus di immagini per evitare il prolife-rare dell’“inquinamento visivo”. Era una provocazione intellettuale, ma molti la presero alla lettera, e Schmid ricevette una quantità enorme di fotografie. Fra le altre cose, i negativi di centinaia di ritratti in b/n realizzati negli anni ’60 da un laboratorio fotografico bavarese, tagliati in due per impedire il loro riutilizzo commerciale. Maneggiando i negativi, Schmid scoprì che l’accurata standardizzazione delle pose e dell’angolatura della macchina fotografica gli permetteva di combinare due metà prove-nienti da scatti diversi (da visi diversi) ottenendo una terza immagine coerente: ritratti in cui il volto di una bambina ha i capelli di una donna matura, oppure in cui un occhio e il sorriso di una ragazza si combinano perfettamente con la guancia di un uomo di mezz’età.

Stampati, questi ritratti impossibili sono dimostrazioni quasi scientifiche della potenza dei clichŽ e delle convenzioni visive nella fotografia commerciale; al tempo stesso, sono immagini di grande suggestione poetica. La convivenza nello stesso viso di giovane e anziano, maschile e femminile, parla una lingua esistenziale, racconta storie legate all’identitˆ e al tempo.
Nell’aprile del 2007 una mostra itinerante accompagnata da un esauriente catalogo ha celebrato i venticinque anni di carriera di Schmid. (Partita dal Tang Museum di Saratoga Springs, USA, nei prossimi mesi sarˆ al Nederlands Fotomuseum di Rotterdam e al BildMuseet di UmeŒ, in Svezia; inoltre, la Photographer’s Gallery di Londra ha presentato la scorsa primavera una selezione di lavori di Schmid curata da lui stesso). Fra le molte altre opere, la retro-spettiva include anche i pannelli della serie Statics (1995-2003), nei quali la ricerca dell’artista-fotografo tocca un punto estremo. In un certo senso, essi realizzano la promessa di riciclaggio “ecologicamente sicuro” delle vecchie fotografie fatta da Schmid qualche anno prima: con un tritadocumenti da ufficio, l’artista ha ridotto migliaia di immagini in striscioline, ricomponendole poi in texture che per ogni pannello sono state usate solo fotografie appartenenti a un medesimo tipo, ognuno di essi possiede un tono cromatico di fondo: rosa carne (cataloghi di moda femminile), rosso-arancio (cartoline di tramonti), bianco-azzurro (moda maschile), eccetera. Sono tutte sfumature del rumore visivo che ci accompagna quotidianamente. L’immagine residua di chi vede troppo, quello che ’unico composto solo di toni di grigio. Per una volta, Schmid ha impiegato delle fotografie artistiche.