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Mousse Anno 6 Numero 31 dicembre 2011-gennaio 2012



Chantal Akerman

Elisabeth Lebovici

No idolatry and loosing everything that made you a slave





SOMMARIO Mousse #30


STARRING
By Antonio Scoccimarro

JONATHAS DE ANDRADE
The advantage of being numb
By Stuart Comer

CHANTAL AKERMAN
No idolatry and loosing
everything that made you a slave

By Elisabeth Lebovici

AKRAM ZAATARI
The political is personal
By Alessandro Rabottini

TALKING ABOUT
To show or not to show
By Jens Hoffmann and Maria Lind

SADIE BENNING
Transitory States
By Tina Kukielski

REPRINT
So be it
By Nicolás Guagnini

SEAN LANDERS
No intention to fail
By Beatrix Ruf

TALKING ABOUT
Progress Is Everyone’s Business
By Chelsea Haines

NICE TO MEET YOU – TRISHA BAGA
Hands-on
By Esperanza Rosales

NICE TO MEET YOU – ERICK BELTRÁN
Some Fundamental Postulates
By Max Andrews
NICE TO MEET YOU – EDUARDO BASUALDO
Logic of the body
By Cecilia Alemani

AGENDA

BOOKS
By Stefano Cernuschi

TEN FUNDAMENTAL QUESTIONS OF CURATING
Chapter 7: What About Collecting ?
By Sofía Hernández Chong Cuy, visuals by Mario Garcia Torres

NEW YORK – LUCY RAVEN
Anamorphic Materialism
By Fionn Meade

LOS ANGELES – LIZ GLYNN
The Rise and Fall of Liz Glynn
By Andrew Berardini

LONDON – IAN LAW
One Place After Another
By Pavel Pys´

BERLIN - DANI GAL
History Channel
By Ana Teixeira Pinto

PARIS - NEÏL BELOUFA
All Is Magic
By Jarrett Gregory

DIARY

LOST&FOUND
Scrutinize, Interrogate, Scrape. Gianikian and Ricci Lucchi Explore Without Surrendering to History
By Andrea Lissoni

TALKING ABOUT
The Cinema as a Wayward Form...
By Christopher Eamon

IAN WILSON
There was a discussion...
By Hans Ulrich Obrist
WHAT’S ALTERNATIVE? ALTERNATIVE TO WHAT? – ANTHONY HUBERMAN AND YASMIL RAYMOND
By Vincenzo de Bellis

HANK WILLIS THOMAS
A am. Amen – The blessing of consciousness
By Luigi Fassi

TALKING ABOUT
The Publishing & Exhibiting Questionnaire
by Francesco Garutti and Francesco Valtolina

EDWARD KIENHOLZ
A marvellously vulgar artist!
By Anja Nathan-Dorn
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n. 32 febbraio-marzo 2012

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Monika Szewczyk
n. 30 settembre-ottobre 2011

Art Society Feedback
Emily Pethick
n. 27 febbraio-marzo 2011

Reading is writing
Gigiotto Del Vecchio
n. 26 novembre-dicembre 2010


Jeanne Dielman,
23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles, 1975
Courtesy: the artist and Galerie Marian Goodman, Paris/New York

Chantal Akerman
Nuit et Jour, 1991
Courtesy: the artist and Galerie Marian Goodman, Paris/New York

Chantal Akerman
From the other side, 2002
Courtesy: the artist and Galerie Marian Goodman, Paris/New York

Chantal Akerman ha trattato temi come alterità e confinamento a partire dalla propria biografia e da quella di sua madre, reduce dai campi nazisti. L’alterità è una non-conformità che Akerman vive, come donna e come ebrea. È possibile evidenziare che l’Altro è, per se stesso, completamente Soggetto? La straordinaria filmografia dell’artista, che ha sempre messo direttamente in gioco la propria persona, scioglie magistralmente questo nodo. Elisabeth Lebovici ha incontrato l’artista per parlare di queste tematiche e rileggere alcune delle sue opere passate e recenti.

Elisabeth Lebovici: Volendo introdurre il discorso su Chantal Akerman con un’affermazione forte, bisognerebbe certamente parlare di confini, di frontiere, di limiti, dell’altro lato e del lato dell’Altro.
Quest’idea si rivela anche nel modo in cui ti rapporti con il tuo lavoro, il tuo mestiere, la tua professione: ti senti più legata al cinema sperimentale o ti senti parte della storia del cinema narrativo mainstream? Pensi di fare cinema o arte? O entrambi? Questa è la prima delle mie domande, perché tu sei una delle più importanti cineaste ad aver “compiuto l’attraversamento” alla metà degli anni Novanta. Che cosa pensi di questo sconfinamento verso la pratica artistica?

Chantal Akerman: La mia storia con le installazioni, probabilmente, non è un incidente, anche se anche se sembra esserlo: non sarebbe mai esistita senza Kathy Halbreich, allora a capo del Walker Art Center di Minneapolis, che mi chiese se avessi voluto realizzare qualcosa in un contesto museale. Erano, probabilmente, gli inizi degli anni Novanta, anni in cui il curatore Michael Tarantino aveva più volte osservato che i miei film esercitavano una forte influenza sugli artisti contemporanei. Sai, non ho studiato arte. Sono fuggita dalla scuola quando avevo 15 anni. Non ho mai davvero frequentato le mostre fino agli inizi degli anni Settanta, gli anni migliori per me, quando mi sono ritrovata in un piccolo gruppo dell’avanguardia newyorkese, insieme a Babette Mangolte, Jonas Mekas, Michael Snow, Annette Michelson, per i quali nutro il massimo rispetto... Ad ogni modo, la causa di tutto è stata Kathy Halbreich. All’epoca stavo lavorando a Night and Day. Kathy disse di essere interessata alla storia e io dissi di essere ugualmente interessata alla polifonia delle lingue: da vent’anni volevo andare nell’Europa dell’Est – che solo allora stava cominciando ad aprirsi – per lavorare con le diverse lingue slave che, sebbene distinte, sembrano abbastanza simili. Desideravo realizzare un’opera sui cambiamenti di voci e di lingue, un progetto che poi si è sviluppato per conto suo e in forma del tutto diversa: in D’Est, mentre la tessitura della colonna sonora è molto importante, non c’è una sola parola nel film. All’inizio volevo che lei producesse il film, non mi interessava la questione artistica. Nel frattempo ho trovato il denaro e ho realizzato From the East. Un anno dopo, forse due, mi fu detto che era stato raccolto denaro per un’installazione e cominciai ad armeggiare con il materiale filmico che avevo raccolto. Tutto accadde mentre lavoravo con tre bobine di pellicola e giocavo con il tempo. In queste tre bobine vidi quattro minuti che insieme funzionavano. Perché? Non lo so. C’erano quei quattro minuti. E poi trovammo otto volte quattro minuti, 24 video come in 24 immagini per secondo; è così che l’installazione prese vita. Scrissi l’ultima parte, la venticinquesima, in modo più astratto da un punto di vista visivo, ma con un testo molto intimo, che rimandava più all’idea di un memoriale. Trattava anche di limiti, di morte, dei campi. La mia fissazione per i confini viene dai campi. Quando si sfiora quel limite – e io l’ho sperimentato molto da vicino, grazie a mia madre, che è stata nei campi, ma non è mai riuscita, attraverso il racconto, a superare la sua ansia – esso si fa carico della sorgente dell’ansia e diviene un “Abietto ansioso”. In From the Other Side, per esempio, mostro il muro a mia madre e le chiedo che cosa le ricordi e lei risponde: “Lo sai cosa”. L’esperienza, quando è interiorizzata, si dà senza bisogno di parole, è trasmessa come una presenza spettrale, da cui non è possibile separarsi. Nel film Down There, il concetto di “Altro” assume maggiore complessità, perché è lo stesso lato, ma è anche l’altro, quello interno. Cerco di trovare una connessione con quest’interiorizzazione, perché è qualcosa con cui bisogna vivere e che vive davanti a noi, ma è difficile. Il motivo è che ho toccato un altro limite, me stessa.

EL: Parlando di confini e di confinamento, di casa e di sciogliere i lacci... Non è di questo che si tratta quando si parla di casa? Quando si guarda Jeanne Dielman dentro la sua cucina, quando ci si trova immersi nella tua ultima installazione, girata nella tua casa e dalla tua casa, la macchina da presa coincide con l’operatore che prova una sensazione di reclusione, al di là della rappresentazione visiva dello spazio...

CA: Il tema della prigione è molto presente in tutto il mio lavoro, in La Captive così come in Jeanne Dielman... A volte non in modo così diretto. Ora, quando si entra in America, bisogna intingere le dita nell’inchiostro per lasciare le proprie impronte digitali. È come entrare in una grande prigione. Lo sai che non si può più fumare a Central Park ? New York non è più come negli anni Settanta, quando tutto accadeva; ora tutto ruota attorno al denaro. La Francia è terribile, non si percepisce alcuna energia; in America c’è ancora energia, ma per lo più legata al denaro.

EL: Da dove proviene questa tua concezione dell’altro lato?

CA: Da Emmanuel Lévinas. È parte della mia cultura. Per due anni ho frequentato le sue lezioni all’ENIO (École Normale Israelite Orientale): faceva sempre leggere ad un ragazzo o a una ragazza un passo della Bibbia, in piedi davanti a lui, una figura minuscola e fragile circondata da tonnellate di libri, e da lì lui partiva per arrivare lontano lontano... Cito spesso la sua affermazione: “Quando vedi il volto dell’Altro, senti già le parole ‘Non uccidere’”. Se solo fosse stato ascoltato. Come non avrei potuto sentirlo! L’altro volto è anche quello dello spettatore, l’ho sempre pensato: ritengo che fare film abbia molto a che vedere con la frontalità, con l’essere faccia a faccia.

EL: La nozione dell’Altro è stata anche riveduta dal femminismo e per prima da Simone de Beauvoir, quando ha osservato che “egli è il Soggetto, egli è l’Assoluto – ella è l’Altro,” – cioè il non-soggetto, la non-persona, in breve, il mero corpo. Essere sull’altro lato, dunque, significa anche essere essere sul lato dell’Altro, reclamare il Sé.

CA: Quello tra il 1968 e il 1973 è stato un periodo di grande emancipazione. Mi sono sentita libera di realizzare Je, tu, il, elle, che all’epoca è stato un’incredibile provocazione. Ho girato il film in una settimana. All’inizio ho cercato di far interpretare la mia parte ad un’altra donna, un sostituto per il mio corpo. Ben presto, però, mi sono resa conto che dovevo essere io, con il mio corpo. La stessa cosa è accaduta per Saute ma ville, che adesso ritengo essere il mio film più eccentrico. Saute ma ville, per me, è il contrario di Jeanne Dielman: la storia di una ragazza che risponde alla madre, che fa esplodere le norme che confinano le donne entro compiti femminili, che rompe tutto in cucina e che fa tutto in un modo contorto – e tutto questo per una storia d’amore: il film è dedicato.

EL: Mi piace il modo in cui tratti il tuo corpo – sfidando la forza di gravità così come la sua rispettabilità. Per esempio in Je, tu, il, elle dove, dopo il tuo lungo viaggio, finalmente entri nell’appartamento di “elle” e la prima cosa che fai è inciampare nel tappeto e cadere...

CA: Sono una Charlie Chaplin al femminile; avrei potuto fare commedie farsesche. Sono sempre più convinta dell’opportunità di ricominciare a recitare nei miei film. Il mio corpo è molto importante in un film, dice qualcosa di per sé, ha il peso del Reale. Non posso far impersonare ad altre attrici la mia goffaggine. Sembra impossibile che io riesca a stare in un ristorante senza far cadere qualcosa: i miei gesti sono troppo ampi, oppure sono assorta nei miei pensieri e ne resto sbigottita. È una mancanza di sintonia con il proprio corpo, con il proprio modo di muoversi. Quando ero una bambina, essendo cresciuta in una scuola superiore così convenzionalmente borghese, pensavo fosse una questione di classe. Attribuivo la mia non-conformità al fatto di essere ebrea. Non la attribuivo al genere, allora. Più tardi, però, mi sono resa conto che le altre ragazze erano già plasmate in modo tale da corrispondere al ruolo che una giovane donna veniva educata a ricoprire, conformemente al futuro che aspettava loro, come donne, in una società normativa: i miei genitori non ne hanno avuto il tempo, non ci sono riusciti. Quando avevo quindici anni, mangiavo troppa cioccolata e stavo diventando grassa, mio padre si rese improvvisamente conto che dovevo dimagrire per essere venduta ad un uomo; voleva che indossassi dei vestiti, ma non funzionò. Quando avevo 18 anni fuggii a Parigi e poi a New York, per essere ancora più lontana. L’unica persona da cui non sono riuscita a staccarmi, a creare quella distanza, è stata mia madre, perché lei era sopravvissuta ai campi e io sono nata quando lei era più vecchia, nel 1950. Penso ancora a me stessa come ad una vecchia bambina...

EL: E per quanto riguarda l’altro lato della differenza di genere?

CA: Per diversi mesi ho fatto parte della corrente femminista, di “Psych et Po”, insieme ad Antoinette Fouque, il che ha fatto sì che diventasse la normalità esporsi. Ma questa è un’altra storia...

EL: Sei stata assunta per girare un film su uno dei casi trattati da Freud: si trattava di Anna O?

CA: No, era Psicogenesi di un caso di omosessualità femminile. Mi è stato semplicemente chiesto di collaborare, non di girare io il film e ben presto sono stata allontanata.

EL: La psicoanalisi è parte della tua vita, ma saresti in grado di girare Freud?

CA: Mi ricordo che Dora era affascinante. Ma vi sono così tante persone che hanno pensato alla psicoanalisi dopo Freud. Per esempio c’è una teoria di André Green, in Narcissisme de Vie, Narcissisme de Mort (1983), sul complesso della madre morta. Egli scrive dei modi in cui la depressione materna abbandona il bambino e il suo desiderio di essere stretto, confortato e accompagnato.

EL: Prendi le parti della madre?

CA: All’inizio pensavo che, poiché non aveva voce, avrei parlato per lei, ma poi non si è rivelato così vero; era semplicemente il mio modo di spiegare le cose. La verità è che stavo parlando per tutte le donne: Jeanne Dielman, 23, Quai du Commerce, 1080 Bruxelles: quale donna non provava qualcosa a riguardo? Quando uscì Je tu il elle il mio telefono fu bombardato di telefonate di persone che si identificavano con ciò che mostravo. Il fatto che comparisse una figura che veniva mostrata raramente, stava a significare che probabilmente qualcosa bolliva in pentola.

EL: Mi ha sempre colpito il fatto che in Je, tu, il, elle la rappresentazione del sesso sia presente senza la sua realtà, come nella scena tra due donne nude. Non solo decostruisci il sesso eteronormativo, ma in molti tuoi film contraddici la nozione di piacere sessuale come momento culminante per la psiche. Questo è molto in linea con la nozione di Leo Bersani del “corpo freudiano”, che si sbarazza dell’equazione tra rilascio di energia sessuale e jouissance.

CA: In Jeanne Dielman ho mostrato come il fatto di non provare piacere fosse l’ultima libertà di Jeanne. Se lei avesse provato piacere nel fare sesso con il suo cliente, si sarebbe arresa agli uomini con cui lavorava. Ho avuto infinite discussioni con Delphine Seyrig, che diceva che una volta che una persona avesse provato piacere, avrebbe voluto ripetere quell’esperienza... Io avevo solo 24 anni e lei più di quaranta, lei era “il soggetto supposto sapere” (Lacan), ma io lottai affinché mi credesse: la lotta contro il piacere è la resistenza di Jeanne, è il suo modo di esistere, la sua jouissance rispetto all’obbligo del piacere, che era la doxa all’epoca in cui girai il film. A partire dagli anni Settanta in poi le donne erano soggette ad un altro obbligo, che prendeva il posto della scelta e della libertà. In Les rendez-vous d’Anna, quando la protagonista (interpretata da Aurore Clément) è in Germania, dice al ragazzo di non essere innamorata di lui, che si deve rimettere i vestiti. Di nuovo questa è una resistenza all’obbligo del piacere.

EL: Il tuo corpo ritorna nell’installazione Maniac Summer, 2009, che ho visto alla galleria Marian Goodman di Parigi (2010); ma non come immagine prevalente, non come il centro. È notte e un’immagine spettrale appare solo su uno dei tre schermi dell’installazione. Fa delle cose, lavoro d’ufficio, al computer e al telefono. Poi, sugli altri due schermi, posizionati su altre due pareti, vediamo un parco con dei bambini, e un cortile visto da un appartamento parigino...

CA: Ho girato la prima parte in modo casuale, semplicemente posizionando la macchina da presa vicino a me e dimenticandomene, continuando a fare qualunque cosa stessi facendo. Poi ho spostato la macchina da presa alla mia finestra, ho ripreso un po’ l’esterno, organizzando un paesaggio che era quasi irriconoscibile. Somigliava più a un film orfano, senza soggetto, oggetto, autore... Maniac Summer ha molto a che vedere con l’altro lato della figura, con l’astrazione. Avevo sentito qualcuno parlare di Hiroshima, e mi aveva fatto una grande impressione. L’intensa radiazione prodotta dall’esplosione aveva lasciato delle impronte sui muri, ombre dei corpi di persone che erano in piedi in quei punti nell’istante prima di cadere. L’idea di queste tracce di morte mi è sembrata molto commovente e ho cercato di sviluppare quell’idea in un video, un medium complicato per questo genere di trasformazione: quando l’immagine cade, che cosa rimane in seguito sui muri? Vi è una caduta nell’astrazione. Hiroshima è un momento storico capitale per la seconda metà del Ventesimo secolo. Sono nata nel 1950, è la mia epoca. Vi sono ancora cose da fare su quel secolo. Così come per il nuovo secolo, penso che ancora non capiamo che cosa stia succedendo, almeno per il momento. Hai letto Les penchants criminels de l’Europe démocratique di Jean-Claude Milner? È un libro straordinario che si serve dei testi di Benjamin e di Gershom Sholem e cerca di dimostrare come per l’Europa moderna il termine “ebreo” indicasse un problema da risolvere. Milner spiega che, al di là di tutti i discorsi, l’Europa non avrebbe realizzato la propria unificazione senza la morte degli ebrei, senza i campi di sterminio.

EL: Il tuo presente, tuttavia, è il Ventunesimo secolo: avrai una retrospettiva al MuHKA di Anversa, e poi c’è La folie Almayer, il tuo ultimo film, che si basa su un romanzo di Joseph Conrad.

CA: Non esattamente. C’è un capitolo alla fine del romanzo che mi ha spezzato il cuore, quando la ragazza, la protagonista femminile, sta fuggendo. Ho letto quel capitolo e quella stessa notte ho visto Tabu di Murnau e si è creata una connessione. È così che ho deciso di fare il film, grazie a un capitolo di Almayer’s Folly e grazie a Tabu, alla semplicità di quel film, in cui Murnau è riuscito a dire cose così emozionanti quasi senza far nulla. Il mio film è sul rapporto tra un padre e sua figlia. Il padre impazzisce perché la perde. È un personaggio molto debole e per me questo ha rappresentato una sfida. Mio cugino di Toronto mi ha detto che in America non avrebbero mai accettato un uomo debole come protagonista, per cui in un certo senso il film si occupa anche di definizioni in termini di genere.

EL: Vivi a New York e lavori alla CUNY. Che cosa insegni?

CA: Non insegno. Aiuto gli studenti con i loro progetti di tesi, che consistono nella realizzazione di film. Li esorto a migliorare le sceneggiature, il loro lavoro con gli attori e le scenografie, così, in un certo qual modo, sono come una brava produttrice, che interviene molto. Mi piace farlo e mi commuovo quando, improvvisamente, emerge qualche forma di chiarezza. Ma c’è una grande ignoranza del cinema. Quando chiedo: “Avete visto Eva contro Eva?”, molti studenti non hanno idea di chi fosse Mankiewicz. Uno degli studenti voleva fare un film su un gruppo musicale, che è un tema iconico in America, perciò gli ho detto che avrebbe dovuto vedere The Chronicle of Anna Magdalena Bach di Straub-Huillet, che gli avrebbe mostrato come effettuare le riprese di una band. È contro questo che sto combattendo. Lo sai che la scuola in cui insegno è quella che diede un posto ad Hannah Arendt dopo che fuggì dall’Europa? Quando Arendt venne in America, ad Harvard c’era una quota massima di ebrei che potevano frequentare l’università o far parte del personale docente. Queste quote furono abolite soltanto negli anni Sessanta. Così tutti gli ebrei andarono alla CUNY e, inoltre, fecero delle donazioni in denaro a quell’università. È così che ho ottenuto il lavoro. Finisco sempre per parlare di ciò che accadde quando gli ebrei fuggirono dall’Egitto: ci vollero quarant’anni – o tre generazioni, a quell’epoca – per dimenticare tutti i segni della schiavitù. Quarant’anni, lo spazio per dimenticare, per essere liberati da quei vincoli ed entrare in Israele. È per questo che penso che la Pessah, o l’Esodo, sia uno dei più importanti libri sulla schiavitù. Molte nazioni dell’Africa non hanno avuto tutto quel tempo per dimenticare, e le persone che sono uscite dai campi nemmeno loro hanno avuto molto tempo. Se mi pongo come se fossi prigioniera è perché questo atteggiamento mi deriva da mia madre. Nemmeno lei ebbe quei quarant’anni. Ecco perché la Genesi è il libro più importante del mondo: grazie all’Esodo, e anche grazie all’idolatria. Per me i temi fondamentali sono: niente idolatria e perdere tutto ciò che ti ha reso schiavo.

EL: Qual è il tuo prossimo progetto?

CA: C’è una falla nelle mie capacità uditive. Le note alte stanno diventando un po’ imprecise. Vorrei fare un film che descriva gli effetti di tutto ciò. I toni alti sono quelli che ci permettono di localizzare in modo preciso le fonti sonore. Mi piacerebbe scrivere sull’argomento. La cecità è molto romantica, ha già il suo posto nella letteratura, nei grandi miti, per primo e soprattutto nell’Edipo, ovviamente. Questo non vale per la sordità. Mi piacerebbe sottolineare gli effetti di questo handicap.