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Nero Anno 5 Numero 15 febbraio-marzo 2008



Francesco Lo Savio

Luca Trevisani

Transitorio continuo



free magazine


NEW ISSUE
N. 15 FEB / MAR 2008
Primo numero della nuova edizione. Nuovo formato con più pagine, stampa a colori,rubriche, foto e disegni. Ma soprattutto il doppio delle copie, distribuite gratuitamente nelle maggiori città italiane.

SOMMARIO N 15

Kim gordon intervista Rodney Graham

Francesco Lo Savio, Transitorio continuo di Luca Trevisani

David Mancuso in una lunga chiacchierata con Tim Lawrence

progetto speciale a cura di Cameron Jamie

intervista esclusiva a g. Jacopetti (autore di mondo cane)

conversazione con M.A’. Martìn, eroe del fumetto underground

la storia di un uomo che ha ingannato l'america: Alan Abel

la peggiore cantante della storia: F.F. Jenkins

una conversazione fra Elisabetta Benassi e Ra Di Martino

le origini di piazzale flaminio e della sua storica comitiva

Con Harmony Korine su cinema e improbabili progetti futuri


Poi disegni, foto, illustrazioni
E molto altro ancora...
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Lo si potrebbe definire un “artista di culto”. Morto giovanissimo nel 1963, Lo Savio ha ispirato il lavoro di alcuni artisti che giovani lo sono oggi, in particolare quello di Luca Trevisani, che a lui ha dedicato addirittura una mostra. Luca, uno degli artisti più interessanti della nuova generazione, ce ne parla in queste pagine, con le parole sognanti e il tono solenne di chi rivede se stesso nella luce di un mito.

La luce è essenziale per la conoscenza dello spazio, lo spazio è essenziale alla costruzione d’azioni collettive, l’approdo all’architettura inevitabile per chi crede di poter far fronte a interessi sociali con controllate espressioni formali.

Se l’uomo si trova ad operare in un ambiente, la prima azione da intraprendere è quella che conduce verso una relazione armonica tra sé e il proprio contesto: il lavoro estetico progredisce e cresce in analisi e verifiche, la realtà viene messa alla prova, sfidata, compresa e quindi modificata.

Procedere tramite deduzioni rigorose, credere nell’utopia della ragione, con cui affrontare la vita, cristallizzarla, analizzarla, e risolverla. Questo è quello che mi viene in mente quando mi si chiede di Francesco Lo Savio.

Lavoro estetico e lavoro scientifico sono omologhi, funzionano nello stesso modo.

L’esattezza, più che la qualità, è lo standard su cui costruire e fondare un possibile giudizio di valore.

Serietà, calcolo, attenzione al dettaglio, ti daranno del secchione, certo, ma i risultati raggiunti saranno assordanti come il monolite di 2001 Odissea nello Spazio, che costringe gli astronauti che gli si sono avvicinati troppo, a tenersi la testa tra le mani dal dolore.

Francesco Lo Savio aveva una grande fede nella ragione e nel ruolo dell’estetica e dell’impegno intellettuale, per dare una soluzione alla fatalità del destino umano. Cercare rifugio nella ragione per sconfiggere l’irrazionale significa affidarsi totalmente alla logicità per arrivare alla conquista delle proprie certezze.

Il bianco e nero, la forma nitida, e, sopra ogni cosa, la luce che delinea i profili delle cose, che attraversa e definisce gli spazi.

La secchezza del gesto non cancella l’interesse per il dato umano, al contrario lo celebra nella sua assenza, in una forma minima, fredda e misteriosa: mentre lo nasconde ne esalta il potenziale.

Partire dalla parete, rimbalzare sulle tre dimensioni per arrivare a occupare ogni possibile spazio d’azione. Si tratta di una strategia, è palese.

La luce, banale dirlo, è una forma d’energia che normalmente dissipiamo e disperdiamo. Conquistare la luce, dirigerla, incanalarla, significa impugnare il come e il perchè delle attività umane nello spazio. L’abc.

Uno spazio vuoto sensibilizzato dalla luce che lo attraversa è l’esaltazione di una libertà d’azione, è la visualizzazione di un’esperienza che potrà vivere nel futuro.

E’ questo quello che un lavoro di FLS ci vuole dire, in primis.

Se è vero che tutte le arti tendono alla performance, la cosa si fa interessante

quando sono le immagini che si rafforzano a tal punto da diventare eventi.

“L’osservazione pura [infatti] non sarebbe nulla se non fosse la partecipazione diretta allo scaturire della vita nella sua dinamica esistenziale”.

Passando ogni volta al livello successivo di una gerarchia, dal piccolo al grande, la scultura si fa architettura, e non nasconde ambizioni urbanistiche: aumentare le dimensioni, espandere l’oggetto nell’ambiente sino a farlo incontrare con il corpo umano, trattare lo spazio come un dispositivo pulsante, capace di evidenziare le proprie coordinate allo sguardo che lo indaga.

Le forme geometriche sono una forma di resistenza ai codici imposti all’individuo, sono spazi potenziali, elementi di una struttura a sviluppo molecolare.

Certo, leggere oggi queste parole ci può far sembrare il lavoro di Francesco Lo Savio come un parente di tutte quelle innumerevoli sculture e installazioni modulari che vediamo crescere nello spazio, di strutture componibili che risolvono formalmente il tanto bistrattato lascito modernista.

Basta non farsi sfiorare da tentazioni vintage, per capire che lo sguardo di Lo Savio contiene in nuce un’ossessione spaziale, decantata in una precisione formale troppo rigorosa per cedere a forme spettacolari.

Una ricerca rigorosa, appunto, quasi ascetica, consapevole che le immagini si consumano, si usurano, e devono dunque essere cambiate in continuazione, a meno che non se ne prevenga l’invecchiamento, non le si svuoti preventivamente. Ed ecco il bianco e nero. E i grigi, gli infiniti toni di grigio che nascono dal rapporto tra luce e ombra.

Un architetto è un inventore di nessi, di partiture, di operazioni spaziali, non di arabeschi o di figure, ma di un programma spaziale che va applicato inflessibilmente.

La costruzione di uno sguardo è un’indagine speculativa del proprio ambiente, e la costruzione di forme è un’estensione della vita.

Non c’è scarto tra la costruzione immateriale di un pensiero e la sua effettiva concretizzazione nella materia.

Filtrare la luce vuol dire avere a che fare con un flusso di energia che si modifica costantemente e senza sosta, l’apprezzamento della materia trova riscontro in un universo di forme che ne esaltano le qualità.

Dalla luce, e dal rapporto con la natura, discende l’amore per la materia, i materiali e la fisicità degli oggetti. Provate a pensare a un mondo popolato da oggetti che se la cavano da soli; senza bisogno di chiamare in causa il nome di chi li ha pensati e creati per nobilitarli. Non sarebbe fantastico? Perfetti nella loro algida geometria, gli oggetti sarebbero certo in grado di nascondere ogni segno della loro genesi, della costruzione umana, il manifesto di una metafisica glaciale.

È un po’ come quando, dopo un temporale estivo, una macchina lascia il posto dove era stata parcheggiata. Quello che rimane al suolo è il segno asciutto del volume che occupava. È un pieno che diventa vuoto, disegnato per ospitare un altro volume.

O un po’ come svegliarsi la mattina dopo una nevicata notturna incredibilmente intensa, e scoprire che tutto, a perdita d’occhio, è coperto di bianco, irriconoscibile, con un profilo sintetico, laconico, misterioso.

Poi la neve si scioglierà, ma poco importa, l’immagine è fissata. Per sempre.

Si, la neve si scioglierà, ed è proprio questo ad affascinarmi. È un flusso, transitorio e continuo. La luce e il dinamismo suggerito dalle opere di Francesco Lo Savio mi conquistano per la loro musicalità. Dico musicalità perché si tratta di intendere la vita della materia, e l’esistenza in generale, come un flusso ininterrotto, fatto di pulsazioni e di diverse intensità. La musicalità di un suono è complessa e sfuggente; in fin dei conti di un suono non si può prendere uno still, come lo si può fare di un’immagine, sia questa ferma o in movimento. Non si può ridurre un suono ad un’entità minima.

Questo è molto importante, perché costringe ogni volta ad una ricerca, ad un rapporto attivo e scomodo con le cose. Quando penso ad una scultura in caramello, o gonfiata con dell’elio, penso proprio a questo. A una formalizzazione transitoria, destinata ad avere una storia breve, a visualizzare un pensiero solo per il tempo necessario a metabolizzarlo, soltanto per gli istanti necessari ad imprimersi nella memoria.