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Trimbi (2008) Anno 1 Numero 2 marzo-aprile 2008



Per una economia della visione estetica

Gabriele Montagano



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Nella prospettiva limite del progresso tecnologico la materia si declina nelle sue forme estreme di dematerializzazione: flusso, energia, linguaggio. Tuttavia alla definizione di cultura immateriale partecipano l’estetizzazione della vita quotidiana, la riflessione sulla società delle comunicazioni e sulla semiosi illimitata, la narrazione scientifica, la mitopoiesi epistemologica, e non ultima la nuova assiologia etico-politica.
Questo processo di evanescenza della materia individua la sua codificazione nell’esercizio artistico delle avanguardie sino a diventare un manifesto dei processi immaterali. Da Duchamps passando per Warhol fino alla performatività della videoarte di Viola, l’arte ha contribuito a creare una democratizzazione dell’estetica. Sono state liberate le forme, mescolate le culture e gli stili. È stata prodotta una estetizzazione generale. La realtà è stata attraversata da un pensiero “immaginale” che configura esteticamente l’esperienza, il mondo; e l’arte è stata il grande traghettatore, lo sguardo nuovo che ha guidato verso il dionisiaco, costruttore di senso e rimodulatore del rapporto tra il sentire e la vita. Ogni immagine riprodotta modifica il rapporto delle masse con l’arte, smaterializza la cosa in sé e la rende virtuale, distruggendone l’aura originale e immortalandone la sua icona. Dagli anni Sessanta in poi la realtà è più affascinante come prodotto-immagine, diventa irresistibile come icona immateriale e la sua ossessiva ripetizione trasfigura oggetti e personaggi in feticci estetici, ammiccanti e immortali. Questo processo invasivo delle immagini a discapito della realtà e quindi della rappresentazione visiva come estetizzazione della vita stessa è stato a lungo oggetto di attenzione dei visual studies che se hanno avuto il merito di aver indagato sulle questioni del primato della visione e del dominio dell’immagine, indugiando fortemente sul fenomeno del costituirsi del mondo a immagine, a fantasma, a spettacolo, a simulacro, si sono di fatto soffermati su una fase del divenire storico-tecnologico che già non è più nostra. Attardandosi su questa fase i visual studies non
fanno che tematizzare il “blocco immagine”, oggi sostituito dal “blocco comunicante”, in cui l’immagine, depotenziata e svilita, dilegua e si dissolve. L’eccesso di visione non consente di guardare: accecati dalla ipervisione andiamo verso una autoanestesia del guardare. Come un ossimoro nell’eccesso di presenza si organizza il vuoto comunicazionale.
Produciamo indifferenza. L’immagine è il nostro esorcismo. La nostra ossessione. Il modo contemporaneo di sfatare il mondo, perché attraverso le immagini il mondo impone la propria discontinuità. È uno sguardo politico.
Siamo strategici, non cinici. La questione dell’immagine, oggi, è ritenuta decisiva. Nell’immanenza d’una vita sociale dominata dalla funzionalità e dall’utilitarismo, si assiste a una accentuazione sul “qualitativo” dell’esistenza: fare della propria vita un’opera d’arte. Essere performativi, dinamici, liquidi, serfare sull’esistenza, vivere “sentendo” la propria vita. Sviluppo del ruolo dell’emozione, importanza delle passioni condivise, ritorno al sensibile, culto dei corpi, godimento. Questo edonismo collettivo è il segno della postmodernità, la sua sostanza. L’immagine pubblicitaria, televisiva, virtuale, contribuisce all’affermarsi di un “mondo immaginale”. Cioè a dire di un modo d’essere e di pensare attraversato interamente dall’immagine, dall’immaginario, dal simbolico, dall’immateriale.
Ma tuttavia l’immagine ha un forte potere liberatorio, rivoluziona il sentire; è un nuovo viaggio, un lento liberare la materia dai suoi vincoli pesanti di esistenza.
L’oggetto non è più concepito nella sua attitudine funzionale: “servire a”. Pur producendo incessanti stoccaggi il suo processo si consuma nella produzione di residui della funzione. E tuttavia prende un’altra strada: si configura una distanza dalla forma, un’attenzione agli eventi affettivi, alla proiezione che esercita nella vita. Ha la forza di catalizzare il sentimento. Attorno agli oggetti si possono costruire comunità. Nuove forme di ritualità tribali si confondono e si organizzano per incontrare stili e consumi di vita.
E così la comunicazione liberata da vincoli fisico- chimici ha aperto un nuovo mercato in cui si scambiano simboli, sperimentano linguaggi, attivano costruzioni di senso. E il luogo che meglio ha sperimentato questa liberazione e riorganizzazione di segni è il corpo, che servendosi del look nella forma propria dello sguardo – guarda il mondo, si guarda, setaccia il vedere – proietta nel mondo la sua forma sensibile; valuta e applica strategie della propria esposizione che dall’estetica portano a una economia della visione. Nella sua evanescenza il corpo organizza la ricostruzione simbolica di una nuova identità. Diventa il luogo della sparizione. Il percorso di una semiosi illimitata che approda alla perdita della referenzialità dei segni.
Questo dileguarsi della materia verso una immaterialità che risponde a una rinnovata configurazione di esistenza si rende visibile in una immagine dotata di leggerezza e fluidità; attraversa la fluidificazione delle culture e complessi meccanismi di nuova aggregazione del corpo sociale. Si sostanzia un altrove che di per sé è un dispositivo cognitivo: nuovo luogo di intercettazione del sapere. La metropoli immateriale, il consumo performativo, la cultura visuale, le etnicità in movimento sono il territorio di questo altrove dove si misura il nostro orizzonte cognitivo: tra dissoluzione di forme e proposte narrative viviamo in una nuova geografia fatta di network e nodi urbani.
Semanticamente ambigui e ubiqui liberiamo linguaggi e culture. In questi circuiti di esistenza, postazioni centrifughe, accumulatori di risorse energetiche prende forma lo scenario espressivo futuro e si organizzano forme di ibridazione culturale.
Senza ancoraggio, siamo nomadi.
Cross-over per il terzo millennio.